Mexico. Immagini di una Rivoluzione.

 

Palazzo delle Esposizioni, Roma.
Mexico. Immagini di una Rivoluzione
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Il 5 Ottobre è stata inaugurata al Palazzo delle Esposizioni (Roma) la Mostra fotografica “Mexico. Immagini di una Rivoluzione”. Come si può facilmente intendere, oggetto dell’Esposizione è la Rivoluzione messicana, ufficialmente cominciata con la decisione del liberale Francisco Madero (che, assieme ad altri esiliati negli Stati Uniti, redasse il “Piano di San Luis”) di opporsi militarmente al Regime dittatoriale di Porfirio Diaz (1876-1911).

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Il riso, il rito, Umberto Eco. Una recensione de Il nome della rosa

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(Gli argomenti di Jorge contro il riso ne Il nome della Rosa di Umberto Eco)

Leggevo recentemente un libro di Walter Burket, “Homo Necans”. Si sta parlando del “rituale” e della sua valenza conservativa. Cito letteralmente:

Forte dell’usanza religiosa è il costume dei padri. E’ dal tempo dei presocratici che si dibatte ostinatamente la questione di come l’umanità sia giunta alle prorpie rappresentazioni religiose, mentre tutti gli individui dell’epoca storica e certamente innumerevoli generazioni dell’età preistorica si lasciarono imprimere la loro credenza religiosa dalla generazione anziana. […] evidentemente, l’importanza dei riti per la perpetuazione delle società umane è stata così grande che, da innumerrevoli generazioni, è diventata essa stessa un fattore di selezione. Chi non vuole o non può sottrarsi ai riti della società non ha alcuna chance al suo interno: soltanto chi è integrato vi agisce ed influisce. Il carattere di serietà dei rituali religiosi diventa qui una reale minaccia: una defaillance psichica di fronte a essi significa la catastrofe personale. Per esempio, un bambino che reagisca alla solennità con la voglia di ridere non sopravviverà in una comunità religiosa. Apollonio di Tiana smascherò d’un colpo un siffatto giovane come posseduto dal demonio; fortunatamente lo spirito cattivo abbandonò subito il giovane atterrito… Abati medievali combattevano il diavolo a veri e propri colpi di bastone, e del resto sino in epoca moderna invalse l’uso della “frusta del diavolo”.

Leggendo queste righe mi sono venuti in mente due elementi. Il primo è un dato personale. Il ricordo di un prete, durante una catechesi, nella mia infanzia. Mi misi a ridere mentre parlava, lui mi guardò come volesse strangolarmi, e disse a tutti in tono perentorio: “Ragazzi, cercate di non ridere mentre parlo. Un po’ è perchè mi mancate di rispetto – non a me, ma all’abito che porto – e poi perchè mentre siamo così in preghiera, il riso non viene da Dio”. Ho un po’ ricostruito, ma queste furono le sue parole lapidarie. Parole che mi ricordano un libro che si è capito poco, un best seller triller-medievale: “Il Nome della Rosa” di Umberto Eco. Qui, Guglielmo di Baskervill (chiamato così anche in onore di Guglielmo d’Ockam, il più radicale nominalista antitomistico del medioevo) ha una discussione con il frate anziano dell’abazia, il venerabile Jorge sul riso. Guglielmo gli dimostra, citando la poetica di Aristotele ed i Vangeli, che il riso non è peccato. L’anziano frate obietta,  non sa rispondere, e lancia improperi su Aristotele e sul rivale citando rabbiosamente altri passi della Bibbia. Il libro che poi l’anziano benedettino nasconde, e per il quale uccide, non è altro che il libro perduto dello Stagirita dedicato al “RISO”.

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Cos’è la Laicità? Il concetto di un Dio non più necessario

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(Nel disegno, l’interferometro del celebre esperimento di Michelson-Morley)

Il 20 settembre 2010 ricorrrevano i 140 anni dalla breccia di Porta Pia, e qui a Roma si è festeggiata la capitale d’Italia. Una ghiotta occasione per parlare di laicità e religione. Ma cosa centra l’interferometro di Michelson con Dio? Niente di esoterico, niente a che fare con la spazzatura stile Dan Brown o Giacobbo!

Per secoli si era creduto che la luce, per propagarsi, avesse bisogno di un substrato, l’etere appunto. L’esperimento di Michelson-Morley dimostrò che questo ente postulato, l’etere, non esistesse, o che, più diabolicamente, quando anche ammettendo la sua possibile esistenza, esso non avesse nessuna influenza sulla luce e sulla sua propagazione.

Con l’ente Dio, a livello di storia delle idee, accade la stessa cosa. Il mondo, la scienza, e le istituzioni laiche si sono sviluppate partendo dalla convinzione che non sia più un tassello indispensabile. In questo, più recentemente,  ha avuto un ruolo fondamentale Darwin; per primo ha parlato di vita ed evoluzione, con un sistema suffragato dai fatti, senza  la necessità di alcun intervento provvidenziale o divino. E’una idea troppo “blanda”, questa, di laicità? Libri come quello di Monod, Caso e necessità, teorizzano invece non certo una “prudente” inutilità di Dio, ma di più, un Suo ostacolo sia Etico, sia Logico che Epistemologico allo sviluppo di una mentalità laica.

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vecchio/nuovo Fascismo. Una recensione de l’Uniforme e l’anima

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In Italia sembra essersi riaperta (dall’inizio degli anni Novanta, a dire il vero) una contesa, a tratti controversa e spesso banalmente pletorica (basti considerare la vasta mole di Documentari e fiction che, di tanto in tanto, ingombrano i palinsesti televisivi), sul “Fascismo”. Utilizziamo le virgolette per astrarre il concetto dal suo significato (storico, politico, filosofico…), per rendere la parola piuttosto un significante di qualcos’altro, senza rimanere legati a qualche immagine particolare che spesso si ritrova nei libri (un manganello, il volto crucciato del Duce, il saluto romano, il fascio littorio…). In seconda battuta, quasi per rispettare una certa ritualità, si discute anche sulla ripresa dell’antifascismo da una parte come elemento di memoria storica e, dall’altra, come condensatore di un sempre auspicato “ricompattamento politico”. Si parla, quindi, di “Alleanza democratica” per battere le Destre, richiamandosi al Comitato di Liberazione Nazionale, alla Costituente e quant’altro. Più che parlare di antifascismo si dovrebbe cercare un lessico nuovo, dovrebbero sperimentarsi delle “vie di fuga” dalla realtà, una modalità di lettura e di approccio all’attualità capace di farci fuoriuscire anche dall’avvitamento teorico a cui l’antifascismo, spesso, condanna. Si tratta di ri-elaborare il presente per trovarne il gran rimosso. In tutto questo affannoso confrontarsi l’errore sarebbe quello di rendere il presente un’orma sulla sabbia, cercando di indossare le stesse scarpe utilizzate nel passato. Le scarpe, come tutti sanno, passano di moda o, comunque, si deteriorano con il passare del tempo. Meglio buttarle vie e comprarne di nuove.

Veniamo al dunque. Pensando ai “fascismi”, vecchi e nuovi che siano, si perde spesso di vista un elemento di primaria importanza che ne condiziona, a torto o a ragione, la lettura politica e l’interpretazione storica: la continuità. La continuità descrive e reitera un percorso da seguire. È una melodia, a tratti rassicurante, che salva dal “panico” delle cose nuove, delle immagini violente. La continuità è una cartina di tornasole che permette di distinguere, di dividere, di associare, di paragonare. Per queste ragioni (e per altre ancora) sembra che, per parlare di certe cose, non si possa fare a meno di citare qualcuno, di utilizzare una bibliografia ed un apparato critico di note e noterelle che, a volte, paiono indispensabili. Che cosa sono, spesso, le note se non un ponte sul passato per ottenere una legittimazione del presente? È un po’ la condanna della storiografia, quella che permette la “conservazione”. È la cultura accademica che si fa politica, si fa, appunto, continuità e diventa cultura sic et simpliciter. La continuità è legittimazione, è forza universitaria, è paradigma veritativo. Per stare a questo gioco, per svolgere adeguatamente il nostro ruolo, ci limitiamo solo a citare Antonio Gramsci, dai “Quaderni del Carcere”:

Come è possibile pensare il presente e un ben determinato presente con un pensiero elaborato per problemi del passato spesso ben remoto e sorpassato? Se ciò avviene, significa che si è “anacronistici” nel proprio tempo che si è dei fossili e non esseri modernamente viventi.

In questo modo proviamo ad incrinare la “condanna” della continuità.

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Quello che c'è da dire…

Certi Eventi non hanno nomi, entrano nell’immaginario collettivo per rimanervi. Per non essere dimenticati, perchè i drammi non si dimenticano. Si affrontano. Non hanno bisogno di essere nominati, di avere un volto. Perchè ogni volto si potrebbe sovrapporre all’altro. Ogni nome si potrebbe scrivere allo stesso modo. Perchè quello che racconta l’Evento è solo la materialità di una condizione umana. Una condizione comune, che non si scompone per ogni Essere umano che vi partecipa ma che comprende tutti. Siamo tutti compresi in questa giostra che produce massacro. I drammi, quindi, non dovrebbero essere negati bensì affrontati. I rimossi si fanno pesanti, sempre e comunque, e prima o poi ritornano come tragedie. Le sconfitte vanno sviscerate, per non cadere vittima dello sconfittismo.

Anche se, pensandoci, la vera tragedia è la nostra inconsapevolezza, la leggerezza con cui ci approcciamo al Mondo che ci circonda, sperando sempre nella sistemazione finale come “manna dal cielo”. Proprio la raffigurazione biblica della Manna sembra essere la più adatta a descrivere una certa attesa. Siamo nel deserto, ormai da troppo tempo. Cominciamo a vivere individualmente, costruendoci feticci di carta perchè ognuno ha bisogno di qualcosa in cui credere e, quando non c’è il Lavoro, il Reddito, spesso ci si rivolge al Cielo. Neghiamo ogni senso comune, ogni percezione collettiva delle cose e, soprattutto, degli Esseri umani.

La Verità, come ha detto qualcuno, è che “se cercate il colpevole, non c’è che da guardarsi allo specchio”. La responsabilità di questi Eventi e nostra, solo nostra. E’ una responsabilità collettiva, una sconfitta comune. Perchè siamo caduti tutti insieme in questo grande meccanismo di divisione che si chiama Mercato del Lavoro e non siamo mai riusciti a trovare elementi per fare rete, per condividere le Esperienze, per generalizzare un Conflitto. Stiamo insieme, ma ognuno si riflette nel proprio specchio. Anzi, ognuno sta fermo a guardarsi nel proprio pezzo di specchio (caducità del postmoderno). Camminiamo isolati, non pensando a nulla. Questa è la nostra sconfitta.

Da leggere: La Repubblica, Link, Prestazione Occasionale, Alfredo Ferrara.

TERRONI, una recensione!

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“Il mio paese? È quello che mi accetta”. Pino Aprile, alla fine del suo libro, suggerisce questa domanda ai meridionali. Possiamo dire lo stesso dell’Italia? Il giornalista e scrittore descrive in maniera minuziosa le politiche attuate dal Governo italiano (nordista!) fatta sul Meridione dall’Unità d’Italia fino ai nostri giorni. 150 anni di sfruttamento e pregiudizio che hanno creato un muro economico (e psicologico) tra Nord e Sud.

Partiamo dall’inizio.
Risorgimento: i Savoia “conquistano” il Regno delle due Sicilie e attuano una politica coloniale sul territorio conquistato. Per il “bene dello Stato” drenano tutte le risorse economiche, tutto il meglio che al momento c’era in Italia, da Sud verso Nord. La motivazione? Il pagamento del debito piemontese. Scrive il deputato cavouriano Pier Carlo Boggio nel 1859 “o la guerra o la bancarotta”. Oh! Poverini. Peccato che al momento della conquista, almeno formalmente, i Savoia e i Borboni non erano in guerra. Ma sono dettagli.

Faccio una domanda: I fratelli del nord (così li chiama Pino Aprile) furono effettivamente mossi dai nobili sentimenti di Unità nazionale o dalle più terrene preoccupazioni economiche? Si può rispondere con alcuni fatti.
Il tesoro dell’ex Regno delle due Sicilie sanò il passivo di centinaia di milioni di lire del debito pubblico della nuova Italia. Hmn… come pensavo! Ma non finisce qui. E te pareva! Il nuovo sistema fiscale savoiardo cominciò ad opprimere l’economia Meridionale, facendola diventare una vera e propria colonia da cui attingere risorse economiche e materie prime. Ecco, cominciamo bene. In conseguenza di questa situazione, numerosi meridionali, per circa dodici anni, scelsero la “resistenza armata” contro i presunti liberatori che, di fatto, si palesarono come OPPRESSORI. Chi decideva di non prendere il fucile, sceglieva la valigia. In questo modo cominciò il grande (e quasi ininterrotto) flusso emigratorio del popolo del Sud.

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Come ti Governo le cose e gli Esseri umani.

1 Maggio 1968, a Valle Giulia (Roma, nelle vicinanze di Villa Borghese e del quartiere Flaminio) gli studenti aggrediscono la Polizia nel tentativo di “riprendere” la Facoltà di Architettura, dalla quale erano stati precedentemente sgomberati (su richiesta del Rettore Pietro Agostino D’Avack). La violenza della mobilitazione segnò uno scarto con quelle precedenti ed il Movimento studentesco dimostrò di poter “competere” con l’organizzazione della Polizia, resistendo alle cariche. Risale, invece, al 12 Dicembre del 1969 la strage di Piazza Fontana. Si parlò, e si parla ancora, di “strategia della tensione”. Ad ogni modo lo Stato cercò evidentemente di utilizzare l’Evento catastrofico per produrre un’eccedenza di controllo e “normalizzazione”. Le forze dell’Ordine furono tutte mobilitate, le misure legislative divennero più restrittive. Ogni cosa fu controllata, scissa, riportata alla tranquillità del quotidiano.

19 Febbraio 1977, Luciano Lama, a quel tempo Segretario della CGIL, fu contestato e fisicamente “cacciato” dall’Università “La Sapienza” di Roma, durante un Comizio organizzato dalle organizzazioni sindacali. L’Università, in quel momento, era occupata dalla mobilitazione studentesca e l’Evento “catastrofico” divenne l’occasione propizia attraverso cui il Rettore dell’Ateneo, Antonio Ruberti, “consegnò” lo Spazio universitario alla Polizia (sperando di normalizzare la contestazione e riprendere il controllo delle strutture accademiche). Questa data è generalmente diventata l’atto di nascita del Movimento del ’77 e segna la rottura con la “Sinistra istituzionale” (il PCI), mentre maturavano i tempi del “Compromesso storico” con la DC. La forma “nuova” della contestazione, la metodologia utilizzata, definisce, anche in questo caso, la nuova dimensione del Conflitto, una prospettiva differente rispetto alla consueta dialettica politica ed istituzionale.

Settembre 2010, Festa del Partito Democratico. Prima la contestazione al Ministro Schifani, successivamente quella al leader della CISL, Raffaele Bonanni. I responsabili, almeno nella retorica dei media, sono i “grillini”, i “ragazzi dei Centri sociali”. Di Pietro è considerato un “cattivo Maestro”. Strumenti utilizzati: fischi, fumogeni, slogan. Metodi da stadio, mentre la Tessera del Tifoso divide ancora aspramente le tifoserie, animando di contestazione e violenza quelle più reticenti a farsi “schedare” per una partita di Calcio. Ugualmente viene contestato Marcello Dell’Utri, sempre dai “ragazzi dei Centri sociali”, mentre cerca di presentare i “diari di Mussolini”. Come da cronaca quotidiana, i soliti “ragazzi dei Centri sociali”, contestano a Livorno un Corteo organizzato dal PDL per portare ordine, luce e disciplina in una Città devastata dallo scontro radicale tra “disgraziati” italiani da una parte contro “disgraziati” stranieri dall’altra. Fischi, fumogeni. Ancora una volta.

Sembra che la “contestazione da Stadio” (con i cori annessi e connessi) si stia riversando nelle strade, diventando una forma che anche la Politica definita “antagonista” cerca di fare propria. Tutto questo accade mentre il Governo (ed anche l’opposizione, perchè il PD non è esente da criticità) vive la peggiore crisi di credibilità dai tempi di tangentopoli. Scontri istituzionali, mentre il Paese soffre. La disoccupazione dilaga, la precarietà impazza, il “raziocinio collettivo” sembra cadere sempre più in basso. Ed ora, per porre fine a quest’orda barbarica che minaccia pericolosamente la Democrazia liberale, attendiamo solo l’estensione della Tessera del Tifoso ad una “Tessera dell’Essere sociale”.

Precarietà, una questione di Terra!

Non è mia intenzione fare una trattazione minuziosa e completa della “precarietà”. Non solo per mancanza di spazio ma, soprattutto, per la debolezza dei riferimenti ermeneutici che, oggi più che mai, sono come fuochi fatui da cogliere con fatica. Probabilmente dovremmo riprendere le lanterne della follia per ricercare queste fiamme ipotetiche, per comprenderle (senza necessariamente vederle) ed averne coscienza. Ci mancano dei riferimenti, ci manca una grammatica, ci manca un linguaggio.

La “precarietà” non è semplicemente una categoria economica attraverso cui leggere le dinamiche sociali che si sviluppano tra il Capitale ed il Lavoro, magari in associazione a poche righe marxiane sul “General Intellect” per costruire su questo asset una nuova elaborazione onnicomprensiva della realtà. Non è, quindi, la caratteristica “unificante” di un’ipotetica nuova soggettività produttiva, che si dovrebbe fare, prima o poi, antagonista (di questo tenore sembra essere la trilogia di Negri ed Hardt). Sono stati spesi decine, forse centinaia, di libri e di articoli su questo argomento. Ma c’è qualche conto che, evidentemente, ancora non torna. Perché nulla è accaduto, nulla è cambiato. Nulla si è organizzato e niente si scorge all’orizzonte. La “precarietà”, a livello meramente contrattuale, si potrebbe associare a diverse forme, nessuna riconducibile ad un modello prestabilito, secondo le infinite fattispecie previste (non a caso) dall’attuale Diritto del Lavoro. A livello esistenziale, invece, non si auto-determina come “precario” semplicemente chi viene definito da un lavoro subordinato, parasubordinato, “a progetto”, “a chiamata” ed affini. Insomma, non accade, oggi, quello che è accaduto durante mezzo secolo di Welfare State, quando la collocazione lavorativa definiva a tutti gli effetti anche i tratti somatici ed ontologici delle soggettività interessata. “Io operaio”, “io dipendente pubblico”, “io funzionario” e via dicendo. Non esiste, quindi, un “io precario” perché la precarietà è una condizione da cui si vuole sempre fuggire. D’altronde non dovrebbe neanche essere considerata come un fenomeno esclusivo dei giorni nostri. Essa, da questo punto di vista, è sempre esistita. Sarebbe sufficiente leggere dei libri di storia economica, ma basterebbe anche sfogliare le pagine del primo libro de “Il Capitale” (soffermandosi in particolare sulle splendide inchieste giornalistiche che vi sono contenute). La “precarietà” è semplicemente stata sospesa e riorganizzata, per un certo periodo di tempo, a causa della forte propulsione politica ingenerata nelle dinamiche sociali ed economiche da alcune organizzazioni novecentesche che hanno costretto una parte di borghesia industriale a scendere “a patti” con i lavoratori, concedendo qualche diritto elementare e strutturando queste “cortesie” attraverso un registro giuridico (lo “Statuto del Lavoro”). Ma questa spinta ha cominciato ad incrinarsi già dalla fine degli anni Settanta, e in maniera più evidente dagli Ottanta, fino a presentarsi come catastrofe ai giorni nostri. La “precarietà”, sempre a livello di rapporto tra Capitale e Lavoro, non è altro che un ritorno al passato.

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L’altra faccia dello specchio di Konrad Lorenz. Una recensione

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Una piccola recensione per un libro vasto, ricco, ricchissimo di spunti ed affascinanti riflessioni sulla natura umana e sulla vita in genere. Konrad Lorenz, il fondatore dell’etologia, in questo libro si sbilancia in territori anche abbastanza distanti e “pericolosamente” nuovi. Tante ipotesi, tante strade nuove per gli anni in cui scriveva. Il nobel preso da Lorenz nel 1973 è in parte riassunto in questa importante opera. E’ effettivamente il libro più filosofico e ardito (quanto a ipotesi) che il grande uomo di scienza abbia scritto. Da questo punto di vista, Lorenz qui appare anche il fondatore di un’altra disciplina, l’epistemologia evoluzionistica. Il libro è abbastanza divulgativo, ma non mancano passaggi difficili e molto tecnici che dimostrano che Lorenz scriveva rivolto anche ai suoi avversari, spesso i comportamentisti, i riduzionisti (coloro, in generale, che per metodo spiegano ogni struttura dei comportamenti complessi, anche umani, solo in base a funzioni sottostanti, sottovalutando l’emersione di strutture nuove) e, dall’altra parte, gli “idealisti” che frappongono una barriera fra l’uomo e la natura, fra l’uomo e le altre specie, fra cultura e natura, fra l’uomo e l’apparato istintuale comune alle altre forme di vita. Scopo del libro è proprio mostrare i legami ferrei, quei ponti spesso invisibili fra quel mondo a sé che gli “idealisti” chiamano cultura, che chiamano essere umano, e quell’altra roccaforte, quell’altro mondo che gli scienziati chiamano oggettivamente natura. In sintesi, obiettivo è riuscire ad unificare due ambiti di ricerca e quei due mondi (gli umanisti e gli scienziati) che C. P. Snow ha descritto così bene nel suo libro, The Two Cultures. Per bocca di Lorenz, lo scopo dell’opera è il seguente:

Io spero di poter dimostrare anche agli antropologi di formazione filosofica, il cui atteggiamento nei confronti della biologia e della filogenesi non è particolarmente benevolo, quanto uniche nel loro genere appaiono le caratteristiche e le prestazioni specifiche dell’uomo proprio quando le si esamini con gli occhi del naturalista, cioè in quanto prodotto di un processo evolutivo naturale. Tale è lo scopo che questo libro si propone. (p. 23)

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