Perché la guerra? Carteggio Einstein-Freud. Una recensione

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La reazione di Sigmund Freud di fronte agli avvenimenti della Prima guerra mondiale è quella di un uomo in cui l’iniziale slancio patriottico, avvertito allo scoppio del conflitto, lascia spazio ad un profondo senso di smarrimento di cui il saggio Perché la guerra? costituisce una chiara testimonianza. Del resto, la drammaticità degli eventi – sostiene lo studioso austriaco – costringe tutti gli individui a fare i conti con la perdita di (apparentemente) solidi punti di riferimento, e la gravità di tale perdita è tanto maggiore quanto più elevato è il (presunto) livello di civiltà dei popoli coinvolti. La guerra, però, non ha stravolto soltanto la vita degli uomini: persino il tradizionale modo di concepire la morte è stato investito dal cambiamento; Freud nota che, sebbene l’inconscio spinga da sempre il singolo ad allontanarne il pensiero e a rifiutarne l’indissolubile legame con la realtà, è chiaro che “la morte non può più oggi essere negata; siamo costretti a crederci. Gli uomini muoiono veramente; e non più uno alla volta, ma in gran numero, spesso a decine di migliaia al giorno”.

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Gerald Edelman, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana. Una recensione

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana (Scienza e idee)

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In questo scritto si prende in esame un’opera scientifica che nonostante non sia di recente pubblicazione – la sua uscita anglofona è del 2006  – non è per tale ragione da considerare obsoleta, quantomeno nello spirito che informa il testo. Gerald M. Edelman, autore del libro in questione, premio Nobel nel 1972 per la fisiologia e la medicina per i suoi lavori sul sistema immunitario, è attualmente direttore del Neurosciences Institute di San Diego e presidente del Dipartimento di Neurobiologia presso lo Scripps Research Institute di La Jolla (California). Nella prefazione del suo Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, (tradotto in lingua italiana nel 2007 per Raffaello Cortina Editore, nella collana diretta da G. Giorello), Edelman afferma la propria convinzione secondo la quale, seguendo William James, «la coscienza è un processo la cui funzione è conoscere»; e, dunque, capire la coscienza è fondamentale per comprendere «quale sia la relazione tra i progressi delle scienze del cervello e i problemi della conoscenza umana». La nascita della fisica moderna, che segna l’inizio del più profondo cambiamento di prospettiva mai affrontato dalla specie umana, e lo sviluppo dell’idea di selezione naturale, che fornì la base teorica per comprendere l’evoluzione degli esseri viventi, tratteggiano un arco che non è ancora compiuto: la scienza, infatti, non ha ancora chiarito le basi cerebrali della coscienza, esperienza irriducibilmente soggettiva, non oggettivabile. Considerando la scienza come «immaginazione al servizio della verità verificabile» – dunque, essendo l’immaginazione dipendente dalla coscienza, anche la scienza è dipendente dalla coscienza – Edelman, all’interno di una prospettiva che potremmo ricondurre all’ecologia intesa come scienza che studia i rapporti tra gli esseri viventi e l’ambiente, sostiene l’assunto che possediamo una teoria scientifica della coscienza soddisfacente, che chiama «darwinismo neurale», secondo la quale la coscienza emerge dalla dinamica celebrale. In altri termini, nell’indagare come funziona il cervello (il quale è incarnato in un corpo, così quest’ultimo influenza ed è influenzato dall’insieme delle relazioni con l’econicchia) è possibile formularne una teoria globale che si possa ampliare fino a spiegare la coscienza, permettendoci di comprendere meglio il nostro posto nell’ordine naturale.

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Umberto Eco, Storia della bellezza. Una recensione di Erica Trabucchi

Cristo misura il mondo con un compasso, da una Bibbia Moralizzata, 1250 circa

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Esattamente come per la bruttezza, anche la definizione di bellezza non è univoca: bello è qualcosa che attrae, che colpisce, che spinge a soffermare lo sguardo senza reprime un senso di meraviglia, addirittura di estasi. Spesso si definisce il bello come qualcosa che è buono; e in questo caso si attribuisce alla bellezza una caratteristica utilitaristica, che non è propria del termine. Altre volte una cosa bella è una cosa desiderabile, apprezzata ma non posseduta, e che proprio per questa mancanza di possesso risulta ancora più ricercata, ma che forse, per altri non è meritevole di attenzione. Altre volte è la passione per una data cosa a condizionare il nostro giudizio. Si potrebbe dire che la bellezza, esattamente come la bruttezza, sono dunque soggettivi. Questo libro presenta una preziosa carrellata testuale e visiva delle più importanti concezioni estetiche sulla “bellezza” che hanno caratterizzato la cultura occidentale.

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Jurgen Habermas, L’inclusione dell’altro. Una recensione

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica (Universale economica. Saggi)

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Questo libro è il frutto di riflessioni concernenti i campi della morale, del diritto e della politica in relazione alla società contemporanea. Il tema affrontato è quello dell’ “altro” visto come immigrato, come appartenente a minoranze etniche oppure come membro di gruppi e ceti sfavoriti. Per far emergere il pensiero dell’ autore ho pensato di mettere in evidenza il paragone delle sue elaborazioni con quelle di altri due studiosi: Schmitt e  Rawls.
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Umberto Eco, Storia della bruttezza. Una recensione

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Romanzo di Esopo I (I-II secolo d.C). "Esopo, il grande benefattore dell’umanità (...) repellente, schifoso, pancione, con la testa sporgente, camuso, gibboso, storto, labbrone..."

Che cosa è il brutto? Che cosa è brutto? Solitamente si definisce il brutto in opposizione al bello; ma essendo il bello piuttosto soggettivo, anche la nozione di brutto non può essere univoca. Il bello e il brutto sono relativi a tempi diversi, a culture diverse, anche se nei secoli si è cercato più volte di definire dei modelli per definire cosa fosse bello e cosa non lo fosse (ne è uno dei massimi esempi il Canone di Policleto, una statua nella quale aveva racchiuso tutte le regole per le proporzioni ideali).Nella Storia della bruttezza a cura di Umberto Eco, viene presentata, partendo dal mondo classico sino ad arrivare al giorno d’oggi, la nozione di bruttezza, accompagnata da una lunga serie di opere d’arte che possono far comprendere tali concetti. Il testo comincia cercando di sfatare uno dei miti più diffusi legato al mondo classico: non era sicuramente un mondo dominato dal bello come molti credono. “L’ideale greco della perfezione era rappresentato dalla kalokagathia, termine che nasce dall’unione di kalos (genericamente tradotto come “bello”) e agathos (tradotto come “buono”).” Potremmo tradurre il concetto con il termine anglosassone gentlemen, persona di aspetto dignitoso, composta, ma che nello stesso tempo presenta un temperamento, un carattere fiero, coraggioso, dagli alti valori morali. Proprio alla luce di questo ideale, il mondo greco ha elaborato una vasta letteratura sul rapporto tra bruttezza fisica e bruttezza morale. La bruttezza e la malvagità erano aspetti molto indagati dai greci: osservate gli innumerevoli cortei di Bacco, con i sileni ebbri e ripugnanti, che a volte fanno sorridere tanto comicamente vengono rappresentati. La malvagità però non è sempre legata all’aspetto: l’orribile sileno per eccellenza è Socrate, maestro di saggezza. E non è sempre legata all’individuo maschile: ci sono figure come le sirene che la mitologia ha spesso rappresentato come uccellacci rapaci dalla coda di pesce. La loro malvagità sta nella voce, come ricorda l’Odissea: “Chiunque i lidi incautamente afferra- delle Sirene, e n’ode il canto, a lui- né la sposa fedel, né i cari figli- verranno incontro su le soglie in festa-“. Un fascino pericoloso e distruttivo.

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Federico Sollazzo, Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Una recensione

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di filosofia morale, filosofia politica, etica
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a cura di Giacomo Pezzano

Hannah Arendt (1928)

 Questo testo di Federico Sollazzo ha prima di tutto il pregio di essere chiaro e non cercare un linguaggio volutamente difficile da decifrare, spesso peraltro sintomo di mancanza di contenuti, ma anche quello di cercare di fornire una visione ampia che – il sottotitolo lo evidenzia da subito – mira a costruire un primo ponte «filosofico» (senza alcuna pretesa di definitività, ma non per questo senza pretese di stabilità – comunque provvisoria) tra morale, politica ed etica. Come nota con precisione Maria Teresa Pansera nella presentazione, l’Autore assume una prospettiva che è insieme «filosofica, ma anche storica, politica, sociale e psicologica» (p. 10), ma mi sento di dire di più, è una prospettiva anche se non soprattutto antropologica, anzi, che proprio perché umanistica in senso ampio può essere poi filosofica, storica, politica, sociale e psicologica. Infatti (anche ciò è ben colto da Pansera), il principale elemento propositivo avanzato nell’opera è una caratterizzazione della base umanistica dell’etica, rintracciata in un insieme di necessità e capacità psico-fisiche (biologiche ed emozionali, che per l’Autore non vanno in alcun modo confuse con quelle emotive) che identificano la natura umana (l’uomo in quanto uomo), ma che allo stesso tempo non possono realizzarsi se non tramite una pluralità di modi storicamente diversi e contingentemente situati (dando in ultima istanza vita a uno scenario multiculturale e multietnico). I diversi contributi dell’opera manifestano al contempo l’uno rispetto all’altro indipendenza e organicità, quasi come tasselli di un mosaico (è peraltro l’immagine presentata da Sollazzo stesso nella premessa: p. 13) che se colti insieme nelle loro reciproche relazioni e interconnessioni presentano un quadro sintetico unitario, ma che se esaminati isolatamente sono comunque in grado di restituire un’immagine autonoma e chiara. Presenterò qui brevemente questi tasselli, isolando per ognuno di essi quella che ritengo essere la tesi centrale espressa dall’Autore: i §§ 1-4 presenteranno in nuce la parte dell’opera intitolata «Filosofia morale», i §§ 5-12 quella intitolata «Filosofia politica» e i §§ 13-18 quella intitolata «Etica».

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Vittorio Lanternari, Festa, carisma, apocalisse. Una recensione

Pieter Van der Heyden, La festa dei folli, 1559

Con questo libro Lanternari arricchisce le visioni del mondo dell’ uomo occidentale  rendendole più profonde ed umane. Proietta il nostro sguardo sugli aspetti religiosi delle “culture primitive” e sull’ urto culturale tra la civiltà europea e le culture indigene dei Paesi coloniali, dal quale sono scaturite nuove formazioni religiose sincretiste. Ma in queste pagine ritroviamo anche  il fascino ed il significato della cultura contadina dell’ Italia meridionale. In sostanza Lanternari indirizza la sua attenzione verso il concetto di “religione popolare” e lo studia nell’ ambito del proprio contesto storico-sociale di appartenenza. E l’espressione “religione popolare” assume valore e importanza storica  mettendola in relazione ad un altro concetto, complementare e dialetticamente opposto cioè quello di “religione ufficiale”. A livello teorico e metodologico, Lanternari adotta un approccio storico-antropologico; tuttavia è esplicita la sua intenzione di confrontare tra loro  culture diverse. I primi capitoli sono attraversati dall’ assunto generale della funzionalità della festa per il sostentamento dell’ identità dei gruppi sociali, a prescindere dalle loro collocazioni di tempo e luogo.

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La filosofia di Taxi Driver

Martin Scorsese incontra Jan Paul Sartre  (a cura di Asaxelar)

“Che cosa c’è da temere da un mondo così regolare?”.

“Ho paura di quello che sta per nascere, che sta per impadronirsi di me… e trascinarmi, dove?”

 Nelle citazioni di apertura, tratte dal libro La Nausea (1938) di  Jean-Paul Sartre, ci vengono posti due quesiti che potrebbero essere l’uno la risposta dell’altro: ciò che dovrei temere da un mondo così regolare (la nostra società) sono quelle paure che nascono nei suoi abitanti, si impadroniscono di loro e li guidano verso reazioni imprevedibili. Tali reazioni invece di essere studiate, al fine di comprendere ciò che le ha scatenate e quindi provvedere a prevenire tali comportamenti, vengono metabolizzate e trasformate in spettacolo; occultando le motivazioni che le hanno provocate. E’ sufficiente osservare il ruolo dei media: essi ci forniscono una serie di notizie superficiali che si fa fatica a considerare informazioni; più legate all’area dello show business che a quella del giornalismo. Per questo motivo possiamo considerarci più confusi che informati. Tale disordine ci porta a vivere in una realtà allucinata, completamente diversa da quella che viene pubblicizzata tramite le immagini e i messaggi che quotidianamente ci vengono inviati. Ci troviamo perciò a vivere in una società che, pur mostrandosi splendida e perfetta, nel suo interno sta marcendo. In breve, questo è quanto ci mostra Martin Scorsese in Taxi Driver (Taxi Driver, 1976).

 La rovente estate newyorchese del 1975 fa da sfondo naturale a Travis Bickle (Robert De Niro), un marines reduce dal servizio militare in Vietnam, che si fa assumere come tassista notturno al Manhattan Cab Garage. Egli soffre di insonnia e il suo senso di vuoto e di solitudine lo portano ad annullare i giorni tra cinema a luci rosse e viaggi a vuoto per la città. Travis si invaghisce di Betsy (Cybill Shepherd), una ragazza intravista nella folla, sostenitrice del senatore Charles Palantine (Leonard Harris); ma, a causa di uno sfortunato appuntamento, lei lo respinge. Questa è la goccia che fa traboccare il vaso e il tassista si trasforma in un angelo vendicatore che individua nel senatore Palantine la causa di tutti i mali della società. Fallito il tentativo di ucciderlo, Travis sfoga la sua rabbia su Sport (Harvey Keitel), protettore della prostituta minorenne Iris (Jodie Foster), conosciuta casualmente durante un turno di lavoro. Liberandola dal giogo del delinquente, il tassista si trasforma in un eroe per caso e sparisce nelle maglie della società che ora lo riconosce parte di sé.

 Scorsese ci trasporta in una realtà popolata da quelli che Sartre definisce “porcaccioni“. Anche il protagonista de La Nausea, Antonio Roquentin, alla stregua di Travis, è un personaggio solitario. Anche lui ha vissuto particolari esperienze fuori dal suo paese e si ritrova nella condizione di reintegrarsi in una società che non gli appartiene più. Anche Antonio è un “reduce”; non di una guerra combattuta ma di una società che darà vita ad una guerra enorme che scoppierà di lì a pochi anni: la seconda guerra mondiale. Tuttavia vi è una differenza sostanziale tra le due opere, che va riscontrata nelle dinamiche creative che hanno dato vita a Taxi Driver. In quest’ultimo si trovano sviluppate tre poetiche fondamentali: quella della Violenza, della Nostalgia e dell’Iper-realismo. In questo contesto tralasceremo volontariamente l’ultima (legata soprattutto allo stile visivo del film e quindi da contestualizzare anche nel periodo storico in cui questo è stato realizzato) e ci soffermeremo sulle altre due.

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Sartre, L’angelo del morboso. Una recensione

Altweiser in una cartolina del 1968

Era un altopiano dei Vosgi dai fianchi irsuti. I monti circostanti si elevavano o discendevano come montagne russe, tutti ombreggiati dalla loro chioma d’abete, ora zazzera scossa dai venti, ora pettinata con cura, tosata sui lati, che rivelava agli occhi riposati l’oasi di un prato verde o di una casa rossa. Quei tetti lontani, fabbricati a mattoni, dovevano alla foresta che li circondava l’abbellimento di un contrasto: erano diventati la meta delle passeggiate, per il piacere di incontrare degli uomini dopo la traversata di un luogo solitario; rappresentavano la vita umana, poveri sostituti che implicavano tuttavia una quantità di idee mondane e lussuose radicatesi là misteriosamente, probabilmente col favore della distanza. Sull’altopiano era spuntato un villaggio, Altweier, accuratamente diviso, come tutti quelli dell’Alto Reno, in due parti: la frazione cattolica e la frazione protestante. Ciascuna aveva la sua chiesa e le case si raggruppavano, sottomesse, attorno ai due campanili. Il partito cattolico si era impossessato della cima: più modesto o venuto tardi, il partito protestante si era installato un po’ più in basso, annodato dalle tortuosità della strada. Il calzolaio, carattere forte, s’era sistemato ancora più in basso per far vedere che faceva gruppo a parte. Certi alberghi ermafroditi servivano da tramite, da intermediari. In uno di essi (che si era chiamato Hôtel di Sedan dal 1870 al 1918, e che prese dopo l’armistizio il nome di Hôtel della Marna, senza del resto cambiare proprietario), Louis Gaillard andava a villeggiare, durante i tre mesi di vacanza che l’università accorda ai suoi professori. Arrivò, caricato di una valigia, vestito con l’indispensabile gabardine e l’aria imbronciata che è il suo correlativo abituale. Aveva caldo e sete, aveva litigato, senza averla vinta, col conducente della corriera; e il disgusto, la nausea di fine viaggio che rivolta i nostri poveri corpicini sedentari, pesavano su di lui. Era un mediocre, smarrito dalle cattive compagnie: come è dannoso per un giovane povero vivere nella scia di ragazzi ricchi, così può nuocere il commercio di persone più intelligenti di sé”.

Inizia in questo modo il breve, asciutto e intenso racconto che nel 1922, presumibilmente d’autunno, scrive, con voce adulta e sicura (anche se il timbro appare, soprattutto nelle prime righe, molto più lirico di quello a cui di norma si è abituati, e con uno stile davvero personale e ironico, nonché particolarmente ricco di colti riferimenti letterari, spesso tutt’altro che ostentati) un ragazzo, già diplomato, e iscritto in una classe letteraria di preparazione al concorso della Scuola Normale Superiore, ma di soli diciassette anni d’età: quel ragazzo è Jean-Paul Sartre. Questa è la sua prima pubblicazione.

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Freud, Psicopatologia della vita quotidiana. Una recensione di G. Ottaviani

Sigmund Freud fotografato con la madre

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Perché un testo ha successo? Spesso perché il lettore si riconosce in quello che viene raccontato, identifica situazioni, si immedesima nei personaggi, come se i sentimenti descritti fossero davvero i suoi, come se anche a lui realmente fosse capitato di provarli. Una storia diventa di successo quando a ognuno dei tanti che la leggono sembra la propria, la sua storia, o almeno una delle varie storie che gli sono occorse da quando ha memoria. La lettura di “Psicopatologia della vita quotidiana”, anche grazie alla vivace scrittura del padre della psicoanalisi (oramai questo è l’epiteto per eccellenza di Freud, come “piè veloce” per Achille), è una rara soddisfazione, perché svela un livello più intimo di comprensione di avvenimenti che a tutti – anche a Freud – sono capitati, di cui tutti  percepiamo, più o meno, l’importanza, non capendo bene però il perché. Come ha scritto l’autorevolissimo Umberto Galimberti, “ci racconta che la nostra vita non ha solo il senso che noi le riconosciamo con la nostra ragione. Ci racconta che il nostro io non è padrone in casa propria, che la casa di psiche ha molti abitanti, spesso tra loro litigiosi. Ci racconta che nelle cantine della nostra anima si agitano demoni e dèi, di cui abbiamo dimenticato il nome da quando […] abbiamo chiamato il potere, l’amore, l’aggressività, l’odio, “istanze psichiche” non sempre manifestabili nella vita sociale, ma vive e animate nel sottofondo della nostra anima, che talvolta riescono a manifestarsi a noi e agli altri suscitando, dopo un po’ di disagio, l’ilarità che sempre accompagna un’insincerità smascherata”. Addirittura Galimberti arriva poi a dire che questo è un libro “cattivo” di Freud, perché “non ci lascia nell’innocenza della distrazione, della dimenticanza, della sbadataggine, della stanchezza, dello stress, e perciò dà ragione alla donna innamorata che, anche se non sa nulla di psicoanalisi, sospetta, nella dimenticanza di un appuntamento, che l’amato forse non la ama più”.
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Arthur Nock, La conversione. Società e religione nel mondo antico. Una recensione

Michelangelo, Conversione di san Paolo (1543 circa)

Il primo, a nostra conoscenza, che abbia orientato la filosofia lungo le strade dell’azione pratica ed abbia raggruppato attorno a sé dei discepoli per trascinarli ad una vita austera, è Pitagora di Samo” (Gustave Bardy)

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Il titolo che Nock dà al suo libro rivela non tanto un argomento psicologico quanto storico. Infatti il fenomeno psicosociale della “conversione”, sia ad una filosofia greca che ad una religione (Nock accomuna e cerca di distinguere le due cose nel capitolo XI del libro), diventa per lui un fatto storico, a motivo del quale si è avuta una vera e propria trasformazione della vita spirituale  all’interno del mondo antico ed ellenistico. Afferma: “Se risolvere il mistero di una conversione individuale spetta in ultima analisi allo psicologo, comprendere invece il fenomeno singolare della conversione di un’epoca, della trasformazione di una cultura, è il compito più arduo ed insieme più affascinante che possa toccare allo storico – quando egli è veramente degno di questo appellativo.” L’autore conduce questo studio avvalendosi di più discipline, come la sociologia, la storiografia e la filologia, tutte quelle che concorrono a dare della società e della religione nel mondo antico informazioni più precise e dettagliate. Nel libro s’incontrano anche discipline quali la storia delle religioni classiche e storia del cristianesimo delle origini, la storia della cultura e della società ellenistico-romana e la storia della religiosità e dei culti orientali: vasti ed autonomi campi di ricerca, che tuttavia si fondono in una visione unitaria e coerente dello svolgimento spirituale del mondo antico. Nock eredita la grande tradizione di ricerca risalente a Droysen, ma ha anche presenti i filoni di studi inaugurati da Franz Cumont e di Adolph von Harnack per questa sua peculiarità interdisciplinare. Trattando il periodo storico che va da Alessandro Magno fino ad Agostino, affronta un’epoca cruciale in cui ci fu un vero e proprio incontro tra paganesimo e cristianesimo, nonché la penetrazione in Occidente di una mentalità più mistica e perennemente alla ricerca della “salvezza”; si propone perciò di guardare il processo dall’altro punto di vista, da quello dei convertiti; per usare le sue stesse parole: “Quando il cristianesimo apparve nell’impero romano, attrasse molte persone che conservavano l’atteggiamento tradizionale nei confronti dei fattori ignoti ed invisibili dell’esistenza. Questo processo di attrazione è stato per lo più studiato dal punto di vista cristiano. In questo libro ho invece cercato di considerarlo dall’esterno”. Il punto di vista tradizionale ha infatti relegato l’intera società pagana con le sue forme e i suoi miti a semplice elemento secondario. Nock si propone di fare il contrario: la promessa di perdono dei peccati, colpe ed errori, e di rinascita spirituale, la ricerca della verità e salvezza è un punto centrale di tutte le religioni diffusesi nel periodo ellenistico (“pagane” e non), ma che avvicina la conversione religiosa alla conversione filosofica, un problema significativo affrontato all’interno del libro che ci riporta alla filosofia come stile di vita e come disciplina, un “abbraccio totale” che non coinvolge solo l’intelletto, ma la volontà e i sentimenti.

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Jacques Derrida, Dello spirito. Una recensione di Kinglizard

Heidegger e Derrida

Se ordini il libro tramite il nostro link, hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Dello spirito: Heidegger e la questione (Testi e documenti)

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Dello spirito è una sorta di monografia tematica che analizza e ricostruisce l’evoluzione dell’uso di un concetto, quello di spirito appunto, nella grandiosa opera di Martin Heidegger. Eppure, contemporaneamente, Dello spirito è anche un’opera di Jacques Derrida, un’opera cioè in cui sono evidenti sia l’impronta stilistica, mai priva essa stessa di significati suoi propri, del filosofo francese, sia il suo particolare modo di procedere nell’esposizione dei concetti. Se quindi da un lato si ha a che fare con una ricostruzione, non solo filosofica e concettuale ma anche filologica, che vuole essere il più vicina possibile all’esattezza storica, dall’altro lato, leggendo il testo, ci si imbatte in scelte peculiari nel modo di affrontare il tema centrale, scelte che, come accade spesso nei testi derridiani, sembrano non abbordare mai direttamente l’oggetto di cui si vuole parlare e che, quasi accostandosi ad esso obliquamente, seguendo sentieri secondari, apparentemente marginali, non ancora battuti, ne fanno emergere quel surplus di senso che soltanto i grandi interpreti sanno produrre.

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