Zygmunt Bauman, Vite che non possiamo permetterci. Una recensione di Eleonora de Torres

Un quadro di Paweł Kuczyński

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Vite che non possiamo permetterci. Conversazioni con Citlali Rovirosa-Madrazo

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“[…] il recente tsunami finanziario […] ha dimostrato a milioni di individui, cullati nel miraggio della prosperità ora e sempre e convinti che i mercati capitalistici e le banche fossero i metodi garantiti per risolvere i problemi, che il capitalismo dà il meglio di sé non quando cerca di risolvere i problemi ma quando li crea”

“Vite che non possiamo permetterci” è il frutto delle conversazioni avute dal sociologo con il giornalista-docente Citali Bovirosa-Madrazo sul significato, le cause, le implicazioni morali e non morali della prima crisi finanziaria globale del secolo. Il titolo originale del testo (“Living on Borrowed Time” – letteralmente “vivendo in un tempo preso in prestito”) esplicita come l’uomo contemporaneo, nella sua età matura, dove il tempo speso non tornerà più, sia avvezzo a prendere in prestito il tempo, allo stesso modo con cui prende in prestito il denaro per vivere questo tempo. A gioire di questa costante attitudine al debito sono le banche: “le banche che amano dire di si. Le tue banche amiche, Banche che sorridono […]” Uno dei successi più grandi del capitalismo è infatti quello di aver trasformato uomini e donne in un popolo di eterni debitori: “il segnale è stato l’introduzione delle carte di credito […] con lo slogan take the waiting out of wanting “ togli l’attesa del desiderio”[…] con una carta di credito si può godersela adesso e pagare dopo. La carta di credito ci rende liberi di gestire le gratificazioni, di ottenere le cose quando vogliamo non quando ce le saremo guadagnate e potremo quindi permettercele. Questa era la premessa ma vi era allegata una clausola[…]: ogni dopo diventerà un adesso, i prestiti dovranno essere rimborsati e il rimborso dei debiti contratti per eliminare l’attesa dal desiderio e soddisfare immediatamente i desideri attuali renderà ancora più difficile soddisfare i nuovi desideri”.

 L’odierna crisi è, infatti, frutto non del fallimento delle banche ma del loro grande  successo “perché l’unico modo ad oggi conosciuto per estinguere un debito è quello di rendere i soldi che si sono avuti in prestito, giusto? E a chi chiederemo altri soldi, per poterci indebitare ancor di più nel tentativo di ripianare il primo debito, se non alle banche?”.

Secondo il sociologo l’attuale crisi finanziaria può, però, rappresentare un’occasione per riflettere sulla attuale situazione mondiale, per analizzarla e creare “nuova conoscenza” ed una revisione del modello economico fino ad oggi seguito ed approvato dagli Stati: “Nel capitalismo la collaborazione tra Stato e mercato è la regola, e il conflitto, se mai affiora, è l’eccezione”.

L’autore affronta poi anche alcune tematiche che alla questione della crisi finanziaria sono intimamente connesse come lo stato delle democrazie, il welfare, i fondamentalismi, le biotecnologie e la modernità; il tutto letto alla luce del concetto di liquidità che rappresenta il filo rosso con cui Bauman interpreta i cambiamenti e le trasformazioni della società contemporanea. Qualche parola in più merita il capitolo sui cambiamenti dello Stato Sociale che, se nella società dei produttori era di casa, nella società dei consumatori è diventato “un corpo estraneo e un ospite inopportuno”. Il welfare oggi è, infatti, secondo l’autore, esclusivamente “un’agenzia che serve a censire, separare ed escludere” gli individui incapaci di provvedere economicamente a se stessi, separandoli dalla parte “normale” della società e rinchiudendoli in “un ghetto senza mura” o “un campo senza filo spinato”. La tendenza odierna porta quindi lo Stato ad abbandonare uomini e donne alla povertà, al degrado e all’esclusione sociale dimenticando che:

 “la società può elevarsi a comunità solo finchè protegge efficacemente i suoi membri contro gli orrori gemelli della miseria e dell’umiliazione, del terrore di essere esclusi, di cadere, o essere spinti fuori dal treno del progresso, che accelera sempre più, di essere condannati alla ridondanza sociale o comunque marchiati come rifiuti umani”.

Darwin e l’incendio nella fabbrica di stoffe, di Stephen J. Gould

Herbert Spencer, e alcune operaie dei primi anni del Novecento

Cosa ha a che fare la terribile sorte delle 146 operaie morte nel 1911 a New York con una disputa accademica sul darwinismo? Ce lo racconta Stephen J. Gould, toccando temi come il paradigma del darwinismo sociale (o meglio, “spencerismo” sociale), e cioè l’estensione sistematica delle leggi dell’evoluzione biologica all’ “evoluzione” culturale. Secondo Gould, l’accettazione acritica di tale paradigma ebbe un ruolo teorico e pratico fondamentale nel ritardo con cui vennero approvate le leggi di tutela sociale dei lavoratori e delle lavoratrici nel mondo. Il seguente articolo è apparso, inedito, in Micromega (n. 3, maggio 2008), tradotto da Libero Sosio.

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Christopher Wren, il principale architetto della ricostruzione di Londra dopo il grande incendio del 1666, è sepolto sotto il pavimento dell’edificio più famoso da lui ricostruito, la cattedrale di St. Paul. La chiesa non contiene un suo elaborato monumento sepolcrale, ma solo una semplice tomba nella cripta. Su una lastra di marmo, sul pavimento, si legge il famoso epitaffio scritto da suo figlio: «Si monumentum requiris, circumspice» (Se cerchi il suo monumento, guardati intorno). C’è forse un po’ di magniloquenza, ma io non ho mai letto una testimonianza più bella dell’importanza centrale – si potrebbe dire della sacralità – dei luoghi autentici, rispetto alle repliche, ai simboli o ad altre forme di somiglianza vicaria. Una strana coincidenza della mia vita professionale fece tornare il mio pensiero a questo famosissimo epitaffio quando, per la seconda volta, mi fu assegnato un ufficio in un luogo ricco di storia: un luogo in cui si sentiva ancora la presenza di fantasmi di eventi del passato che avevano un’importanza centrale per la nostra cultura comune e che al tempo stesso erano particolarmente significativi per la mia vita e le mie scelte. Nel 1971 trascorsi un semestre come ricercatore ospite all’Università di Oxford. Ricevetti un piccolo spazio in un ufficio al piano superiore del museo dell’università. Mentre sistemavo i miei libri, le mie chiocciole fossili e il mio microscopio, notai una placca metallica affissa alla parete, dalla quale appresi che quello spazio riconfigurato di scaffali e cubicoli era stato, in origine, il luogo del confronto pubblico più famoso all’inizio della storia del darwinismo. In quello stesso luogo, nel 1860, pochi mesi dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie di Darwin, Thomas Henry Huxley aveva estratto la sua spada retorica, infilzando clamorosamente il campione astuto ma superficiale del creazionismo: il vescovo Wilberforce, noto anche come il «saponoso Sam».

Come nella maggior parte delle leggende, la versione ufficiale si presenta come un semplice schizzo sommario di contro a una verità molto più complessa e sfaccettata. Wilberforce e Huxley diedero vita a uno spettacolo splendido e in gran parte spontaneo, ma dallo scontro non emerse un chiaro vincitore, e Joseph Hooke, l’altro campione di Darwin, diede al vescovo una risposta molto più efficace, purtroppo dimenticata dalla storia. In proposito si può vedere il mio saggio Chi ha vinto?, pubblicato nel volume Risplendi grande lucciola (1). Non posso dire che la persistente presenza di tali giganti vittoriani abbia accresciuto il mio impegno o migliorato il mio lavoro, ma mi piaceva il senso di continuità che mi veniva garantito da quella felice circostanza. Apprezzai molto anche le implicazioni etimologiche, poiché circostanza significa «stare intorno» (così come il circumspice di Wren significa «guardati intorno»), e io ero proprio là, forse proprio nello stesso punto in cui Huxley aveva detto, secondo la leggenda, che preferiva essere disceso da un scimmia onesta, piuttosto che da un vescovo che distorceva una verità nota per trarne un vantaggio retorico.

Non molto tempo fa, ricevetti un incarico part-time come visiting professor di biologia e ricercatore all’Università di New York. Mi fu assegnato un ufficio al decimo piano del Brown Building a Washington Place, una struttura indefinibile dell’inizio del Novecento oggi piena di laboratori e altri locali con finalità accademiche. Mentre il decano mi guidava in una visita informale conducendomi al mio nuovo alloggio, fece un’osservazione en passant che nelle sue intenzioni doveva essere poco più che una semplice notazione «turistica», ma che produsse in me una scossa elettrica. Sapevo, mi domandò, che nell’edificio aveva avuto luogo il famigerato incendio del 1911 alla Triangle Shirtwaist Company e che il mio ufficio occupava proprio una posizione d’angolo in uno dei piani in cui si era diffuso l’incendio? Addirittura, come scoprii in seguito, proprio vicino alla via di fuga usata da molte lavoranti della fabbrica di bluse per cercare scampo sul tetto. Il decano mi disse anche che ogni anno il 25 marzo, anniversario dell’incendio, l’International Ladies’ Garment Workers Union tiene ancora una cerimonia in quel luogo e depone corone per commemorare le 146 operaie, in gran parte immigrate, perite nell’incendio.
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Georg Simmel, I problemi della filosofia della storia. Una recensione di Francesca Borsari

Georg Simmel

La conoscenza è una nuova formazione in sé conchiusa, dotata di specifiche categorie e soggetta a proprie leggi (Georg Simmel).

Se siete appassionati di storiografia, se siete interessati ad approfondire temi complessi e controversi, e se siete interessati a farlo con gli occhi di chi si è chiesto, agli albori della contemporaneità, in cosa realmente consistesse il processo conoscitivo e di lì in che cosa consistesse la storia, allora questo è un testo che non può mancare. Il saggio in questione è I Problemi della filosofia della storia (titolo originale: Die Probleme der Geschichtsphilosophie) di Georg Simmel, filosofo dell’epoca Guglielmina, meglio ricordato come sociologo, riscoperto nella sua complessità a partire dagli anni ottanta.  La sua “filosofia della storia”, intesa come riflessione epistemologica e non come telos, è stata parimenti disvelata in quel periodo. Vittorio d’Anna ha tradotto dal tedesco il volume alla sua terza edizione, quella del 1907, considerandola come la realizzazione finale di quel processo in costante evoluzione che era il suo pensiero.

Può sembrare pedante fare una precisazione del genere rispetto alle edizioni, ma questo è in realtà uno dei nuclei fondamentali. Il motivo è che Simmel, nella sua esorbitante produzione, si inserisce più o meno in tutto il dibattito filosofico degli ultimi vent’anni dell’Ottocento e delle prime due decadi del Novecento. Agli esordi è interessato ad inserire le “scienze dello spirito” in una cornice scientifica, è teso all’unificazione delle discipline su un unico terreno, adottando pertanto il positivismo, almeno a livello metodologico. Del positivismo tuttavia non accetta nessuna filosofia, nessun sistema; l’unico terreno di unificazione è infatti quello atomico, che a livello di scienze umane si traduce nell’importanza della psicologia come studio degli impulsi psichici. Il retroterra di Simmel è tuttavia, e non poteva essere altrimenti in suolo tedesco, quello kantiano, che egli traduce in maniera originale nel ritrovamento a posteriori di quelle categorie che sono semplicemente contenuti con una diversa funzione, e non degli insiemi necessari ed esterni di organizzazione dell’esperienza. Ruolo preponderante aveva in quegli anni la sociologia, come disciplina che ricercava le regolarità dell’interazione umana. Il problema di conciliare l’originalità dell’esperienza umana con il concetto di legge e l’emergere del tema del senso come fattore fondamentale nel processo di comprensione, faranno uscire Simmel dall’orizzonte del positivismo. In questi anni egli si pone a metà tra un positivismo di matrice anglosassone e francese che fa derivare tutto dalle grandi strutture sovrapersonali, ed uno storicismo tedesco, inteso come tradizione volta alla valorizzazione di ogni evento e del peculiare contesto storico, che aborriva al contrario ogni concetto di società come “deprivazione di spirito”.

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Melancholia, di Lars von Trier. Una recensione

La famosa "Ofelia" di Millais

Nelle depressioni l’annientamento presenta una tonalità diversa da quella della fine nelle schizofrenie. Non si tratta di angoscia per quanto sopravviene, di esperire una catastrofe  cosmica che si sta producendo; si tratta piuttosto del raccapriccio davanti a ciò che già è, il terrore davanti al vuoto, alla consumazione, all’annientamento. Un caratteristico senso di isolamento, che incontriamo come carattere della fine del mondo schizofrenica, lo ritroviamo talora anche presso tali depressi“. (de Martino, La fine del mondo, p.34)

La pura depressione è caratterizzata da un profondo immotivato cordoglio, da un impedimento di ogni divenire psichico, sentito soggettivamente come doloroso e tenuto al tempo stesso per obiettivo. Tutti gli stimoli cadono, il malato non prende piacere di nulla, la mobilità e attività diminuite si trasformano in assoluta mmobilità. Nessuna decisione può esser presa, nessuna attività esser presa in considerazione. Le associazioni non sono più disponibili. I malati si lamentano del loro vuoto, della loro insufficienza, della loro mancanza di affetti, della loro incapacità, della loro memoria confusa. Il mondo appare grigio, indifferente. Il passato è pieno di colpa, il presente miserabile, il futuro non ha orizzonte. Nella sindrome melancolica la depressione si sviluppa in senso delirante: i malati sono responsabili della infelicità di tutto il mondo” (Jasper).  Proprio per questa onnipresente colpevolezza sottolineata da Jasper nelle sindromi depressive, il mondo “merita la distruzione” e un depresso cronico, come sottolineava Freud, diviene facilmente irritabile. La causa del suo malessere (e l’allucinatoria soluzione del malessere) può divenire spesso quel mondo stesso, che merita una condanna. Il quadro si ritrova nelle parole di Justine, una delle due protaginiste del film: “l’umanità non merita di sopravvivere”.

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Simone Weil, La prima radice. Una recensione di Elisa Radaelli

Fototessera di Simone Weil, operaia alla Renault nel 1935

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Simone Weil (1909-1943) visse, nei primi decenni del XX secolo, un’esistenza breve, ma così intensa da fornire lo spunto a letture e interpretazioni diverse, talvolta addirittura opposte. Nello sviluppo delle proprie analisi, nel corso delle quali prende in considerazione gli esseri umani calandosi tra gli uomini e rifiutando qualunque tipo di prospettiva distaccata o privilegiata, avverte la necessità di ridefinire la nozione di persona: a suo avviso, soltanto chiarendone gli aspetti davvero essenziali, sarà possibile gettare le premesse di una società nuova, in grado di superare definitivamente il periodo di crisi che l’attraversa; quando parla di crisi, non allude a situazioni generiche, ma ha ben in mente il quadro a lei contemporaneo e, proprio di fronte alle contraddizioni e agli interrogativi che esso solleva, si muove alla ricerca di risposte e soluzioni. Lo dimostra chiaramente il saggio La prima radice (1), composto nel 1943 e pubblicato postumo nel ’49. L’opera nasce in un contesto molto particolare, quello del Commissariato per gli Interni e il Lavoro di “France Libre”, l’organizzazione politica in esilio capeggiata da Charles De Gaulle, presso cui Weil era stata assunta come redattrice addetta ai servizi civili.

Suo compito sarebbe stato quello di esaminare e selezionare i documenti provenienti dalla Francia occupata, però la sua attività si spinge oltre; le annotazioni e i commenti si trasformano, infatti, in veri e propri trattati nei quali, pur affrontando tematiche differenti, mostra di tener sempre presente, in modo più o meno esplicito a seconda dei casi, l’essere umano e le irrinunciabili esigenze che lo caratterizzano. Il titolo originario assegnato allo scritto consente di cogliere un primo aspetto importante: parlare di Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano ha il preciso significato di porsi all’interno di una prospettiva che privilegia i doveri anziché i diritti. Non è un caso, dunque, che venga problematizzata proprio la nozione posta a fondamento della celebre Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, elaborata nel 1789. Gli uomini di quel tempo hanno considerato i diritti come princìpi assoluti, commettendo un duplice errore.

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Paradigma gerarchico – prima parte

Introduzione

Oggi l’idea stessa che il riflettere e il pensare in filosofia possano dare origine a un sistema di pensiero appare quasi anacronistica. Eppure un testo filosofico è comunque l’esito di un percorso di esperienze e riflessioni dove, pur provvisoriamente, vengono organizzati e esposti gli esiti a cui quelle riflessioni sono approdate. Questo testo si occupa di paradigmi. Cosa sono i Paradigmi? Schemi? Strutture a priori? Aperture? Orizzonti? Forse il termine migliore per caratterizzarli è “organizzazione”, anche se l’ambito semantico di questo termine è troppo ampio e impreciso. Del resto, se si dovesse caratterizzare la differenza tra corpo e pensiero, tra spirito e materia, il discorso più appropriato sarebbe proprio centrato su quella vasta area semantica coperta dal termine “organizzazione”. Insensato sarebbe ora cercare una maggior precisione e forse altrettanto insensato sperare di pervenire ad una definizione esplicita.Ogni trattato, ogni teoria ha una visione parziale dell’oggetto teorizzato; Teorizzando si conquista e si perde. Questa conquista e questa perdita assumono un significato profondamente diverso all’interno delle varie concettualità che organizzano i vari paradigmi. All’interno di quel paradigma “vincente”, qui battezzato “gerarchico”, è l’uomo a costruire le teorie e, con esse, la conquista e la perdita, mentre questa semantica risulta del tutto inesprimibile all’interno di un altro paradigma “quello destinale” dove l’attore dell’agire teorico è l’Essere, un termine molto usato da Heidegger e dai filosofi che in qualche modo si richiamano al suo pensiero, che ha però in questo scritto senso molto differente. Del resto l’argomento scelto come strumento e filo conduttore sono le teorie in generale e quelle scientifiche in particolare. Proprio quel tipo di sapere a cui Heidegger non attribuiva neppure lo statuto di aperture di verità. Il nostro vivere e interpretare il mondo, non avviene secondo un unico paradigma ma è indubbio che uno di questi si è costituito come paradigma egemone nell’addivenire della storia biologica e culturale dell’uomo, prefigurando per noi un destino di vissuti dalle teorie. La prima parte si occupa appunto di questo paradigma egemone che, per motivi inerenti al suo funzionamento è stato denominato “paradigma verticale”.

Vengono analizzate successivamente tre forme paradigmatiche: quella gerarchica dell’agire-patire, del soggetto-oggetto, (paradigma vincente), quella circolare e quella destinale. All’interno di ognuna assumono forma, connessioni e significati diversi, concetti quali verità, architettura, complesso, ecc. Nessuno di questi paradigmi è presentato come superiore agli altri: è però evidente la loro diversa efficacia e la diversa maniera di mappare il nostro aggirarci nel mondo, come è altrettanto evidente che, i gli altri paradigmi, agevolando un suo parziale superamento, consentono una diversa apertura verso il mondo. Il nostro accesso al mondo avviene secondo coacervi personalizzati di paradigmi, ma in ogni caso nuove aperture non rinnegano necessariamente le precedenti neppure quando le correggono o le negano.

Il discorso sulle teorie è più ampio rispetto alle normali indagini epistemologiche. Purtroppo si è sempre guardato alle teorie con un atteggiamento asettico e aristocratico. Si è sempre pensato ad esse come a organizzazioni di pensiero spirituali e passive che venivano scoperte o inventate, illustrate o imparate, approvate o smentite ma sempre secondo processi più o meno tranquilli più o meno e incruenti. Il pensiero sulle teorie è sempre stato troppo schizzinoso ignorando proprio la dimensione delle teorie come “soggetti” attivi.
In un certo senso si è pensato alle teorie conformemente a moduli Lamarckiani, secondo i quali le teorie vengono apprese, elaborate, collaudate, trasmesse e non secondo moduli Darwiniani dove le teorie vengono selezionate e ci selezionano. Ma se questo atteggiamento è apparentemente sensato in relazione alle teorie ‘nobili’ nate in un ambiente culturalmente sviluppato, non lo è per nulla in relazione a comportamenti e abitudini di vita sopravvenute nel nostro passato, in forme che solo in tempi successivi e ‘più nobili’, sono state lette e riconosciute come teorie.
Questo atteggiamento, se da una parte ha allontanato le teorie stesse dalla carnalità dell’uomo, dall’altra ha contribuito a vedere l’uomo teorizzante un uomo disincarnato, spirituale, intellettuale.

Ma è chiaro che le teorie non sono solo quelle nobili e istituzionalizzate come la fisica ed è pure chiaro che, se si vuole comprendere l’agire teorico, si debba riflettere anche su quei comportamenti, quelle abitudini, quelle organizzazioni, con cui i nostri progenitori si orizzontavano nel mondo che emersero e si svilupparono molto prima che esistesse la parola “teoria”.  Con questo allargamento si risale ben oltre la cosiddetta “storia” di cui sono sopravvissute testimonianze o manufatti culturali, che ha imposto un confine, indefinito, ma concettualmente significativo, fra storia dell’uomo storico e storia dell’uomo biologico.  Così intese le teorie perdono quell’alone intellettuale di spiritualità che le ha sempre accompagnate e si presentano come quei soggetti che nel lontano passato sono emersi come soggetti agenti e sopravviventi sul dolore e sulla morte dei singoli individui, prefigurando per l’uomo un destino schizofrenico di conquista e di perdita.  Nel saggio si adotta spesso il termine “preteoria”, volendo significare con esso teorie con pochi vincoli ed ampi gradi di libertà. Preteoria ad esempio, è la concezione di un mondo formato da oggetti e fatti, preteoria è l’istintiva fiducia condizionata nei sensi, preteorie sono i linguaggi.

L’esistenza di queste preteorie mette in luce l’esistenza di configurazioni generali di comportamento con ampi gradi di libertà che, presenti ed attive nel nostro modo di vivere come organizzazioni del nostro agire, vengono a costituire un più o meno amalgamato coacervo di linee d’interpretazione che costituiscono l’organizzazione del nostro interagire. Entro le configurazioni di questi paradigmi preteorici si esprimono le teorie, così come entro i sistemi operativi degli elaboratori si esprimono i programmi. Questa similitudine che ha poco dell’analogia e molto della metafora riesce comunque a dare almeno una vaga idea dei rapporti fra teorie e preteorie.  Molte filosofie interpretano il nostro rapporto col mondo come una rappresentazione. Una rappresentazione sensibile o intellettuale, fedele o deformata, ma comunque pur sempre come una rappresentazione, in cui noi, abitando nel mondo, lo guardiamo asetticamente e senza reciproche contaminazioni. In sostanza si è spesso voluto isolare ciò che è il nostro vivere nel mondo carnalmente, un vivere in cui noi respiriamo, lavoriamo, ci nutriamo ecc. da ciò che è il nostro rappresentare il mondo. Ma anche volendo isolare artificialmente questo fantomatico momento di rappresentazione e questa altrettanto fantomatica facoltà rappresentativa, stranamente la si è sempre interpretata e descritta come se il mondo fosse lì di fronte a noi e i nostri sensi in qualche modo lo rispecchiassero e non con un processo dal tutto simile a quello della nutrizione e digestione.  Di fatto noi agiamo nel mondo orientandoci ed agendo su esso, non come osservatori ma come assimilatori che rendono simile il dissimile, ed espellono ciò che non può essere assimilato. L’atto di percepire il mondo è già una colonizzazione del mondo stesso in cui convergono il mondo, gli oggetti, i fatti, i termini, le proposizioni, il pensiero e il linguaggio. Questo è un processo vincente e consolidato, una preteoria stabile e strutturalmente costitutiva del nostro essere: per noi è quasi un binario su cui scorre il treno del nostro guardare/ vivere/ esperire. Un binario di cui abbiamo dimenticato l’esistenza proprio perché è entrato a far parte del nostro mondo colonizzato.

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Marías, Domani nella battaglia pensa a me. Una recensione di Roberta Savino

Javier Marias

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Domani nella battaglia pensa a me, quando io ero mortale, e lascia cadere la tua lancia rugginosa. Che io pesi domani sopra la tua anima, che io sia piombo dentro al tuo petto e finiscano i tuoi giorni in sanguinosa battaglia. Domani nella battaglia pensa a me, dispera e muori”

Javier Marías affida il titolo del suo  romanzo  a  un  passo  del  Riccardo  III  di  Shakespeare. La scelta di tale citazione non è casuale, l’autore ci si sofferma e la ripropone più volte,  evidenziando il forte legame  tra il rimando  shaksperiano  e  il  romanzo  stesso.  La morte,  la vita,  la  battaglia  come  metafora  della  vita, il peso  dei  ricordi e  dei  rimpianti  che  come  piombo  si  posa  sul  petto  di  chi  resta,  di  chi  non  muore, di  chi  continua  a  vivere.  “Domani  nella  battaglia  pensa  a  me” appare  come  una  minaccia  scagliata  dal  defunto  nel  mentre della  sua  dipartita.  E’  un’ esortazione  a  non  dimenticare,  a  non  voltare  la  faccia  alla  morte. Scrivere   della   morte  non  è  affatto  conveniente.  Se  va  bene  si  rischia  che  il  lettore  si  affidi  al romanzo  con  sospetto  e  inquietudine;  se  va  male  le  probabilità  che  si  abbandoni  la  lettura  si  fanno assai  alte. Il  punto  nevralgico  della  questione,  ciò  che  svela  il  motivo  di  questa  mia  arringa,  risiede nel  fatto  che  la  Morte,  oggi,  fa  una  paura  tremenda.  Tutte  le  più  grandi  spiegazioni  su  di  essa risultano  obsolete.  I  ferventi  cattolici  si  aggrappano  alla  consolante  idea  che  “la morte  è  solo  un passaggio,  dopo  si  andrà  nel  regno  dei  cieli”,  le  filosofie  new age,  per  le  quali  io  nutro  profondo sospetto,  propongono  invece  la  tesi  della  reincarnazione  e  così  sia.  Ma  gli  scettici,  con  cosa  si consolano?  Il  capolinea  della  modernità  è  stato  quello  di  svelare  l’illusione,  con  le  parole  care  a Nietzsche,  di  una  grossa  bufala.  E  ne  paghiamo  le  amare  conseguenze. Lo  scrittore  madrileno   Javier  Marias,  vincitore  di  numerosi  premi  letterari,  racconta  della  morte come  un oratore  che  si  affida  al  suo  flusso  di   coscienza  dinanzi  a  una  platea  seria  e  mal  disposta  al  tema.  La  morte  appare  oggi  il  mistero  dei  misteri.  Eppure,  è  un  mistero  di  cui  non  si  parla,  non si  deve  parlare. Ecco  che  Marias  ci  prende  per  mano, e  senza  censure  ci  catapulta  in  una  situazione che  ha  del paradossale.

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Fondamentalismo darwiniano, di Stephen Jay Gould

Stephen Jay Gould

Il seguente articolo, tradotto in italiano, è apparso originariamente nel 1997 su “The New York Review of Books” e potete leggerlo in inglese qui. L’articolo s’inserisce in un vasto e laico dibattito internazionale sul significato del neodarwinismo e sul metodo riduzionista, il cui abuso metodologico non è considerato al passo con i tempi a confronto del paradigma della complessità e dell’emergentismo. In particolare Stephen Gould oppone al metodo di John Maynard Smith, Richard Dawkins e Daniel Dennett un approccio pluralista e complesso al fenomeno della vita, pur rimanendo nei laici canoni scientifici e neodarwiniani. Anzi, la sua proposta è quella di tornare  al “vecchio” Darwin, che quanto a pluralità di cause nelle leggi dell’evoluzione avrebbe capito qualcosa in più dei nuovi “ultras” darwiniani, prima ancora che genetica e biologia cercassero di “totalizzare” il discorso neodarwinista. Sullo stesso argomento, prima della morte, Gould è intervenuto in un altro articolo, che potete trovare al seguente link, intitolato Evolution: The Pleasures of Pluralism

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Fondamentalismo darwiniano, di Stephen Jay Gould

Numerosi esempi, dall’arroganza di Platone alle tirate di Beethoven, inducono a concludere che gli individui più brillanti della storia tendono a essere tipi irascibili. Con l’eccezione di Charles Darwin, che deve essere stato il più affabile di tutti i geni; era gentile all’eccesso, persino con gli immeritevoli, e non pronunciò mai parole dure. George Romanes, discepolo di Darwin, espresse stupore per l’unica affermazione aspramente critica che avesse mai incontrato: “Nell’intera gamma di scritti di Darwin, è impossibile trovare un altro brano formulato con tanta risolutezza; esso rappresenta l’unica nota amara nelle migliaia di pagine da lui pubblicate.” Il brano di Darwin che fece tanta impressione a Romanes era rivolto contro coloro che semplificavano e ridicolizzavano la sua teoria sostenendo che la selezione naturale, e soltanto la selezione naturale, è la causa di tutti i cambiamenti evolutivi. Nell’ultima edizione de L’origine delle specie (1872), Darwin scrive: “Poiché in tempi recenti le mie conclusioni sono state molto travisate, e si è dichiarato che io attribuisco la modificazione delle specie esclusivamente alla selezione naturale, mi sia concesso rimarcare che nella prima edizione di quest’opera, e nelle successive, ho posto nella posizione più appariscente – e precisamente a chiusura dell’Introduzione – le seguenti parole:Sono convinto che la selezione naturale è stata la causa principale, ma non l’unica, delle modificazioni“. Non è servito a nulla: grande è il potere del travisamento continuo“.
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Amartya Sen, Identità e violenza, una recensione a cura di Valeria Villa

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“Kader Mia, un bracciante musulmano, fu accoltellato mentre si recava in una casa vicina, per lavorare in cambio di una paga esigua. Fu accoltellato sulla strada da persone che neanche lo conoscevano e che molto probabilmente non lo avevano mai visto prima. Per un bambino di undici anni, quell’evento oltre a rappresentare un autentico incubo, era profondamente sconcertante. Perché una persona da un momento all’altro veniva ammazzata? E perché veniva ammazzata da persone che neanche la conoscevano, persone a cui la vittima non avrebbe potuto fare alcun male? Il fatto che Kader Mia potesse essere ridotto ad una identità soltanto – quella di membro della comunità “nemica” – che “doveva” essere attaccato e se possibile ucciso – appariva totalmente incredibile. Agli occhi sbalorditi di un bambino, la violenza dell’identità era qualcosa di straordinariamente difficile da comprendere. Non è particolarmente facile nemmeno per un adulto anziano, che ancora si sbalordisce. Mentre mio padre lo portava in ospedale con la nostra macchina, Kader Mia gli disse che sua moglie gli aveva chiesto di non andare in un quartiere ostile in quel periodo di scontri intercomunitari. Ma lui doveva andare a cercare  lavoro per guadagnare qualcosa, perché la sua famiglia non aveva niente da mangiare. Il prezzo di questa necessità, causata dalla miseria, sarebbe stato la morte. Il terribile legame tra la povertà economica a la totale mancanza di libertà (perfino la libertà di vivere) fu una presa di coscienza, assolutamente scioccante, che colpì la mia giovane mente con forza sconvolgente”.  [ed. it. p. 176, p. 173 ed. ingl.]

Quasi in procinto di chiudere il suo libro, Identity and Violence. The Illusion of Destiny, Amartya Sen condivide con i suoi lettori l’esperienza drammatica del suo primo incontro con la morte. Per il lettore di Sen non è nuovo imbattersi in vicende biografiche. Ciò che, tuttavia, ogni volta sorprende è la constatazione dell’influenza che queste esperienze hanno esercitato sul suo pensiero. Leggendo la sua filosofia, il lettore ha la costante sensazione di essere a contatto diretto con la vita: non c’è pensiero lontano dalla realtà, ma una realtà che si fa pensiero; ovvero, Sen trasforma in ragionamento, in analisi, in stimolo per portare la mente verso curiose profondità, gli eventi della concretezza quotidiana. È rilevante sottolineare questo aspetto del suo scrivere e del suo pensare, poiché dice molto della forza teorica e dei fini a cui la sua teoresi aspira. E qui, in Identity and Violence – come aveva già fatto precedentemente in Equality Reexamined e Development as Freedom – il pensiero di Sen è animato dall’esperienza scioccante e diretta con la morte per conflitti di identità, della povertà e dell’ineguaglianza; queste muovono il suo pensiero verso l’analisi precisa delle cause ed effetti della miniaturizzazione delle persone in identità chiuse e non comunicanti. Prima di entrare nel vivo della discussione delle tematiche che Sen propone penso sia interessante condividere con voi come è nato il mio interesse per questo testo; ciò dice molto del mio approccio a Sen che qui propongo e dei sentimenti che hanno guidato la mia lettura. Stavo passeggiando per le vie centrali di Cambridge. Era una domenica mattina di metà Giugno. Il centro città era affollato di turisti che scattavano foto agli edifici storici e di studenti che passeggiavano tranquilli godendosi finalmente le bellezze di Cambridge, i colleges e il fiume, dopo un anno accademico di studio. Io passeggiavo come loro insieme ad alcuni amici che si preparavano per tornare in Italia avendo concluso il proprio progetto di studio. Di fronte alla Senate House cammina Amartya Sen. Indico ai miei amici la sua figura e li rendo partecipi dell’importanza che egli trascina insieme ai suoi passi da intellettuale, maturato dagli incontri e dalla vita di studio: “È il premio nobel Amartya Sen!”.
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Recensione a Martin Heidegger-Eugen Fink, Eraclito, a cura di Matteo Giangrande

Eraclito l' "oscuro" (Skoteinòs), in un dipinto di Hendrick ter Brugghen, 1628

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Il fulmine governa ogni cosa (fr. 64)

Ascoltando non me, ma il lógos, è saggio convenire che tutto è uno (fr. 50)

Le cose della più grande importanza non dobbiamo giudicarle a caso” è il motto proposto da Heidegger per il seminario su Eraclito, condotto insieme all’allievo e amico Fink, la cui trascrizione costituisce il testo, edito da Laterza all’interno della collana “I libri dell’Ascolto” diretta da Vittorio Tamaro, che qui viene recensito. Il tentativo del seminario è quello di spingersi fino alla «cosa stessa del pensiero», oscura nella sua modalità d’essere e d’accesso, che stava dinanzi allo sguardo spirituale di Eraclito, pensatore storicamente imponente, che, nonostante dimori all’origine dell’Occidente, non è stato nella storia del pensiero mai raggiunto. Il seminario è una “pratica del pensare”, ovvero è un meditare pensieri pre-meditati da Eraclito, è uno sforzo di «interpretazione speculativa» della lingua di Eraclito, che possiede un’intima polivocità e multidimensionalità e che non conosce per nulla la differenza tra pensiero interiore e dire esteriore: interpretazione – “non più” in maniera metafisica di un testo che “non è ancora” metafisico – che prende le mosse dal contenuto espresso in modo immediato ed ingenuo e, nel corso del pensare-attraverso, perviene a un dire che non si lascia riempire da un’intuizione immediata, effettuando la transizione, indirizzata in modo selettivo dal percorso dell’interpretazione stessa, da un enunciato conforme alla percezione ad un enunciato non sensibile (ma non sovrasensibile). La proposta di Fink di un possibile “ordinamento speculativo” ha la sua ragion d’essere nell’esigenza di trovare –  restando all’interno della fondamentale difficoltà del circolo ermeneutico, nella quale ci muoviamo costantemente – un intima connessione di senso attraverso una molteplicità di frammenti. E’ bene dire subito che tutto il seminario gioca intorno ad una questione fondamentale, quella di individuare il significato dell’ap-par-tenenza di en e panta, che, come ci segnala l’eccellente Avvertenza di Adriano Ardovino, si configura come una “distinzione senza separazione”.
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Il Nietzsche classista, razzista, illiberale, antimoderno, reazionario…

Hitler visita l'archivio Nietzsche e stringe la mano di Elisabeth Foster,  la sorella del filosofo (Weimar, 1933)

Hitler visita l'archivio Nietzsche e stringe la mano di Elisabeth Foster, la sorella del filosofo (Weimar, 1933)

quello che non avreste mai voluto leggere

«Lo “sfruttamento” non compete a una società guasta oppure imperfetta e primitiva: esso concerne l’essenza del vivente, in quanto funzione organica, è una conseguenza di quella caratteristica volontà di potenza, che è appunto la volontà della vita. – Ammesso che questa, come teoria, sia una novità – come realtà è il fatto originario di tutta la storia: si sia fino a questo punto sinceri con se stessi»  (Al di là del bene e del male).

Spesso si dice che il “genio” esca fuori dalla storia, sia in grado di trascenderla per andar oltre i suoi schemi culturali. La “revisione” nietzschiana degli anni Sessanta ha contribuito a far tornare questo mito romantico dalla stessa finestra del nichilismo ermeneutico, da cui sembrava svanito. Ma  niente di tutto questo è possibile. Friedrich Nietzsche, che pure è stato il più grande innovatore filosofico del suo tempo, risulta anch’egli un prodotto socio-culturale. Il filosofo che ha distrutto ogni dogma viveva di dogmi. Anche il filosofo che ha combattuto la storia lineare e progressiva cristiana e  illuministica viveva nella storia. L’ermeneutica contemporanea, che pure ha contribuito a fondare, ci assicura del fatto che il “prodotto” (Nietzsche) ha contribuito a creare cultura, e storia. Ma  questo non toglie che di un prodotto si parli. E non è possibile capire e interpretare Nietzsche senza il darwinismo sociale, il positivismo più becero, la Germania ed il pangermanismo di Bismarck, senza la filosofia tedesca (e la sua peculiare ma sfaccettata riscoperta della grecità come rifugio contro la modernità), l’imperialismo europeo, l’avversione al socialismo, al liberalismo e ai contenuti più egalitari dell’illuminismo. E, per esempio, non si può capire a pieno la sua distinzione fra morale dei signori e degli schiavi,  fra schiavitù e uomini liberi (che coltivano l’aristocratico e letterario otium) senza tener presente anche la biografia di Nietzsche, che si arruolò come volontario nella guerra franco-prussiana; inoltre, a soli 34 anni si dimise dall’insegnamento ricevendo una pensione e frequentando, quasi apolide, un genere di vita del tutto privo di problemi economici. Nietzsche respinge con sdegno gli sviluppi della società industriale e del liberalismo, e accusa  i liberali e i socialisti di odiare l’antichità classica, fondata sul riconoscimento della necessità di affidare il lavoro ad una classe di schiavi, la cui terribile condizione renderebbe possibile a un ristretto numero di uomini “olimpici” la produzione e la fruizione del mondo dell’arte. Tutto ciò è, anche, Friedrich Nietzsche. Ma a determinare il suo pensiero vi è anche la solitudine, la sofferenza, la sua famiglia, le sue emicranie (sifilide?), la sua quasi cecità e la gelosia (Lou von Salomé, la “superdonna” con cui intraprese un menage à trois, gli procurerà una depressione).  Questo lo si scopre leggendo i suoi testi, studiando la sua biografia, e fermandosi su quei temi “tetri” che le (relativamente) recenti letture del filosofo tedesco  hanno volutamente trascurato, snobbato o marginalizzato, per dare maggior risalto alle sue indubitabili e magistrali intuizioni. Nietzsche, in sintesi, è il più radicale antimoderno dell’Ottocento, e al contempo il meno dogmatico, fascinoso e imprevedibile degli antimoderni.

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