Il seguente brano è tratto dall’ultimo libro di Stephen Jay Gould, La struttura della teoria dell‘evoluzione (in questo link puoi ordinare il libro, curato da Telmo Pievani, ad un prezzo scontato). E’ un’opera enciclopedica e pluridisciplinare, una summa di tutta la sua produzione, in cui il noto studioso rivisita in maniera sistematica la teoria dell’evoluzione alla luce degli ultimi studi e delle nuove prospettive (anche grazie ai suoi propri contributi, cioè l’evoluzione multilivello, la teoria degli equilibri punteggiati, l’exattamento). In questo caso, in un pregevole quadro di sociologia della scienza, Gould si sofferma su alcune coordinate del pensiero di Darwin, specie quel retroterra individualistico e sintetico tipico dell’Inghilterra vittoriana, utile certo a partorire la straordinaria teoria dell’evoluzione, ma da analizzare attentamente per poter ristrutturare – in alcuni casi, profondamente – la teoria, dopo circa 150 anni di vita (la traduzione della sezione è a cura di Alessandro Stella).
— — —
Continua a leggere
Helmuth Plessner, Il riso e il pianto. Recensione di Diana Bonsignore.
Concepire il riso e il pianto come forme espressive significa partire dall’uomo come totalità, e non dal particolare – come il corpo, l’anima, lo spirito, il legame sociale – che si lascia separare dalla totalità quasi fosse qualcosa di autonomo (Helmut Plessner)
Di norma, la filosofia si è posta come scopo la ricerca della verità, scientifica o metafisica, mistica o religiosa e, raramente, ha sopportato lo sguardo beffardo tipico del comico. La filosofia ha, spesso, preferito la polemica, il contraddittorio e lo scontro, piuttosto che l’ambivalenza dello humour. In sostanza, anche all’interno della filosofia contemporanea, realtà in cui comunque pochissimi continuano a credere nell’esistenza di una verità universale e necessaria, si continua a preferire qualcosa che ha più affinità con il tragico che con il comico. Come sostiene Ferroni, l’esistenza del comico è stata per secoli relegata in una zona “bassa”, che non poteva venire negata fino in fondo ma restava comunque tollerata perché subalterna ad una seria, quindi alta e nobile. In questi termini, il riso è stato inteso alla stregua di una parentesi, di una momentanea divagazione. A tale proposito, emblematica è la disputa medievale fra coloro i quali affermavano che Cristo, durante la sua vita, abbia potuto ridere in virtù della sua parte umana; o non l’abbia di certo fatto perché ne riconoscono solo la sua natura divina, negando quella umana. Eppure, vari autori hanno dato uno spazio, più o meno ampio, proprio all’indagine del fenomeno comico e, tra di essi, spiccano Platone, Aristotele, Hobbes, Kierkegaard, Nietzsche, Baudelaire, Freud, Bergson, Pirandello ed altri. Inoltre, se uno spazio marginale è stato affidato al riso, possiamo affermare tranquillamente che al pianto si è dato ancor meno rilievo. In questo panorama di studi, particolarmente interessante e originale risulta l’interpretazione che Plessner fornisce delle due manifestazioni.
Hannah Arendt, Il concetto d’amore in Agostino. Una recensione di Angela Del Gesso
“La vita felice è la vita che non può essere perduta. La vita terrestre è una mors vitalis oppure una vita mortalis , una vita inscritta nella morte. Tale vita diventa una costante paura.” E poco oltre: “ove non c’è morte e di conseguenza non c’è futuro, è possibile vivere sine angore curae”
Questo è ciò che si legge in alcune righe del saggio sul concetto di amore in Agostino che Hannah Arendt scrisse in occasione del conseguimento della sua laurea, sotto la tutela di Jaspers. L’incontro con Heidegger era già avvenuto. La Hannah che si approccia all’interpretazione dell’amore agostiniano è già stata segnata intellettualmente ed umanamente dall’incontro con l’autore di Essere e Tempo ed il lavoro a cui ci stiamo riferendo ne è una testimonianza. Tramite la riflessione sui concetti agostiniani, Arendt ,infatti, palesa un’attenzione particolare ai temi cari ad Heidegger: il problema della temporalità, la questione della posizione ontologico-esistenziale della morte, la dimensione intramondana dell’esistenza. Il brevissimo passo sopra riportato è una conferma di tale tendenza arendtiana e, allo stesso tempo, è esemplificativo dell’approccio della Nostra alla questione Agostiniana. Agostino è un autore ed un uomo controverso; le sue opere sono indissolubilmente legate alle fasi della sua vita e ai diversi gradi di consapevolezza che acquisisce rispetto alla propria esistenza e, quindi, rispetto all’esistenza dell’uomo e alla sua posizione nei confronti del creato. Fare un’analisi unitaria della sua opera senza ricostruire cronologicamente le sue idee è un lavoro arduo. Hannah Arendt è la protagonista di tale impresa. Il suo saggio è un’ analisi del concetto di amore che viene affrontato non tanto dal punto di vista metafisico ed ontologico, quanto,invece,nei suoi aspetti fenomenologici ed esistenziali.
Sartre, La nausea. Una recensione di Elisa Scirocchi
Antoine Roquentin e le sue braccia penzoloni.
“[…] Il tempo riprende la sua mollezza quotidiana […].
Bouville, cittadina vezzosa e immaginaria della Francia, anni Trenta del Novecento. Antoine Roquentin è uno storico impegnato nella scrittura della biografia di un tale, vissuto nel Settecento, che risponde al nome di messier De Rollebon. È lui a raccontarci le sue giornate, le sue (dis-) avventure. La nausea (1938) incarna i moderni standard degli scrittori novecenteschi, ove la rottura del tradizionale schema temporale, l’evidente assenza di effettive situazioni narrative e l’incedere dirompente dell’emotività dei personaggi, sono protagonisti indiscussi. Sartre abolisce l’oramai desueto narratore esterno e dona la voce al suo fragile Antoine, donandogli l’esistenza. Antoine trascorre le sue giornate alla ricerca di qualcosa da scrivere, di qualcosa da fare, di qualcuno con cui parlare. La sua solitudine è dilaniante. “[…] Le persone che vivono in società hanno imparato a vedersi, negli specchi, esattamente come appaiono ai loro amici. Io non ho amici […]”.
Il suo rapporto con il mondo appare univoco, e unicamente basato su ciò che egli vede. Lo sguardo di Antoine è attento a cogliere in maniera minuziosa, a tratti maniacale, ogni dettaglio. E così, il color malva (poco deciso), delle bretelle di un cameriere, diviene per Antoine fonte d’irritazione, tanto che egli avrebbe voglia di gridare loro di assumere il colore viola, di ammettere la loro falsa umiltà, il loro essere “[…] ostinate nel loro sforzo incompiuto […]”. La desolazione delle vie cittadine rispecchia l’animo di Antoine. Ogni cosa lo colpisce: Gli occhi vividi di due giovani amanti, il vento che sibila tra le abitazioni, il fumo delle sigarette degli uomini in strada, i denti guasti di quell’uomo seduto dentro il Caffè, le guance rosse di Anny, il gorgoglio (simile a un rantolo) di una fontana, e la radice di quel castagno che s’insinua tra le falde del terreno. Tutto ciò che esiste, irrompe nella sua vita, lo schiaccia. “[…] Quando si vive non accade nulla. Le scene cambiano, le persone entrano ed escono, ecco tutto […]. Alla maniera di un fotogramma del cinema, lo sguardo del protagonista seleziona la realtà da includere nell’inquadratura del suo teleobiettivo. L’immagine della realtà, raccontata dagli occhi di Antoine, risulta a noi che leggiamo, come assorbita dal suo sguardo, quasi pietrificata, come dagli occhi di Medusa. Allo stesso tempo in cui sorprendiamo lo sguardo di Antoine a oggettivare la realtà, è la realtà stessa a rendere Antoine un oggetto di sé. Egli riconosce di esistere. Egli è lì nel mondo della contingenza. Egli è un corpo. Per questo esiste ancor prima di essere. Le sue braccia penzoloni, che incontriamo più volte nel romanzo, queste braccia molli, abbandonate a se stesse, descrivono la frustrazione di quest’uomo, e l’agonia che egli prova in questa vita esasperante. Attraverso le parole di Sartre riusciamo a sondare il senso delle cose, comprendiamo il loro essere gratuite, e attraverso di loro ritroviamo noi stessi. La nausea è un romanzo che racconta la nostra condizione priva di senso, una lettura che ci coinvolge da vicino. La nausea siamo noi.
Elisa Scirocchi
“Roma combattente” e “Bastardi senza Storia”, Valerio Gentili. Una recensione.
Scrivere solo oggi un commento a “Roma combattente” e “Bastardi senza Storia” di Valerio Gentili (edizioni Castelvecchi) potrebbe sembrare superfluo perchè, almeno il primo libro, è in commercio dal lontano aprile del 2010 ed a distanza di due anni e mezzo non è scontato che un testo continui a mantenere una certa potenza creativa conservando uguale capacità di analisi. Anche solo per il fatto che le situazioni possano cambiare enormemente. In realtà è proprio in questo momento che l’operazione storiografica promossa dall’autore ci sembra assumere maggiore evidenza. Il deflusso della stagione “no global” (o “new global”, “alter global” e via dicendo come dir si voglia) e la ripresa di un ciclo di conflittualità dalla fine del 2010 fino ad oggi racconta una storia dell’antagonismo estremamente frastagliata e composita. Non solo a livello nazionale ma in tutto il mondo. Naturalmente tra ieri (il periodo preso in considerazione dal libro, dal biennio rosso agli Arditi del Popolo) ed oggi il focus cambia radicalmente. Ieri un elemento di composizione dell’antagonismo poteva essere la difesa operaia contro la violenta esplosione fascista mentre oggi ci potrebbe essere altro (il “rigore”, l’autoritarismo di Emergenza dei governi tecnici…). Il punto è costruire un punto di vista sulla realtà capace di favorire la creazione di una prospettiva di lavoro comune. Se manca un punto di vista non è possibile definire neanche la realtà. Per questo la lettura di “Roma combattente” dovrebbe essere intrecciata a quella di “Bastardi senza Storia” che prova a considerare le stesse dinamiche di difesa antifascista a livello europeo (soprattutto in Germania) con alcune riflessioni sull’aspetto iconografico della conflittualità davvero interessanti. Il dispositivo storiografico che l’autore mette in campo in entrambi i suoi lavori si fonda su un elemento imprescindibile. Gli anni Venti hanno sancito la sconfitta del movimento operaio ed hanno incubato il fascismo (ed il nazismo) nelle forme che a noi saranno tristemente più note. Da questo, a cascata, inizia la narrazione.
“Questo non è un Manifesto”, Negri & Hardt. Una recensione.
Dopo la trilogia è arrivato anche il (non) Manifesto e si presenta un po’ come i titoli di coda di un lavoro lungo circa un decennio. È questo il percorso del ticket Hardt & Negri, che ancora continua a snocciolare teoria per allietare le prospettive del movimento ed estenderne le capacità di conflitto e di organizzazione. Già in “Comune” avevamo notato alcune eccedenze sul terreno dell’analisi per entrare più apertamente nel campo della proposta. Evidentemente c’era bisogno del ciclo di lotte che dal 2011 si è allungato fino ai giorni nostri per dare quel “quid” per avanzare delle prospettive di organizzazione, o semplicemente delle analisi più stringenti. Ed infatti “Questo non è un manifesto”, circa 100 pagine edite da Feltrinelli, si presenta come un tentativo di chiudere il cerchio della teoria per entrare più nello specifico su alcuni problemi lasciati a terra dalla pratica.
Innanzitutto autogestione ed autonomia del Comune. Il tratto “politico” non cambia (almeno rispetto all’ultima, omonima, fatica letteraria). Il discorso ruota, giustamente, tutto intorno ai commons ed al “che fare” per renderli pienamente autonomi e, quindi, effettivamente autogestiti dalle singolarità in lotta. È questa la base del tanto celebrato “processo costituente” che condensa e sostanzia una prospettiva realmente rivoluzionaria dei commoners (ossia i nuovi militanti, gli “agenti del cambiamento”) contro il potere della merce ed il dominio della proprietà privata. “I commoners non sono comuni solo per il fatto di lavorare, ma, piuttosto e soprattutto, perché lavorano sul comune”. Ed in modo particolare lavorano a forme di organizzazione politica “comune”, non temendo lo specialismo perché ogni Essere umano, con la giusta formazione, potrebbe essere messo nelle condizioni di capire ogni cosa. Una delle allegorie più interessanti richiamate nel testo è la “Carta della Foresta” (1217) che, dopo una stagione di privatizzazioni radicali (che trovarono espressione nella ben più nota “Magna Carta”), garantiva e regolava l’accesso dei “commoners” alle risorse comuni. Ma andiamo con ordine.
Emile Cioran: la conoscenza, la storia, la condizione umana
LO SCENARIO DELLA CONOSCENZA (tratto da “Sommario di Decomposizione”)
Continua a leggere
Sigmund Freud, Psicologia della vita amorosa. Una recensione di Maria Chiara Pierbattista
Se ordini il libro tramite il nostro link (Amazon) hai diritto ad uno sconto significativo: Psicologia della vita amorosa
— — —
Nel 1912 Freud affermava: “Non possiamo sottrarci alla conclusione che oggi il comportamento amoroso dell’uomo, del nostro mondo civile, è improntato a impotenza psichica. Solo in una minoranza delle persone colte la corrente di tenerezza e quella sensuale si armonizzano reciprocamente; quasi sempre, nella attività sessuale, l’uomo si sente limitato dal rispetto per la donna e sviluppa la sua piena potenza solo quando ha dinanzi a sé un oggetto sessuale degradato.” Hanno un secolo i paradigmi freudiani sull’eros e se si volesse dare un lettura in chiave moderna lo si potrebbe fare solo constatando la maggiore propensione di oggi a mostrare ed enfatizzare la sessualità, la parte puramente estetica e non psichica, s’intende. I contributi alla psicologia amorosa di Freud rappresentano, per esperti in materia e non, un’analisi precisa e profonda dei meccanismi mentali che influenzano le pratiche amorose. Interessante è il modo in cui i contributi ci portano a riflettere, ad esempio, sulle modalità di scelta del proprio oggetto del desiderio, apparentemente casuali, influenzate sempre da fattori riconoscibili quali “il terzo danneggiato”(un rivale o comunque una figura del suo stesso sesso che in qualche modo sia legata alla donna bramata) e “la dubbia moralità”della donna stessa. Sono dispositivi che si innescano nella psiche di ognuno ogni volta che ci si approccia ad una relazione. Se volessimo ridurre questi teoremi ad un concetto più spicciolo e riscontrabile nel quotidiano però, non è infondo più stimolante possedere qualcuno/qualcosa dopo averlo bramato ardentemente ed aver superato qualche ostacolo? L’eccessiva sicurezza non finisce per assopire i rapporti nella loro ripetitiva e noiosa normalità?
Continua a leggere
Reinhart Koselleck, Storia. La formazione del concetto moderno. Una recensione di Francesca Borsari
Se ordini il libro tramite il nostro link (Amazon) hai diritto ad uno sconto significativo: Storia. La formazione del concetto moderno
— — —
Resta la certezza che il concetto della storia non sarà in grado di sciogliere il cosiddetto enigma della storia (p. 140).
Quello proposto è un testo di non facile lettura, soprattutto per le citazioni che costituiscono una sorta di secondo corpo testuale. Se si prescinde tuttavia da questa difficoltà e se si amano le sfide, si troveranno intuizioni importanti e interessanti che riguardano la storia della storiografia, ma anche i presupposti per uno studio attuale della storia. E’ un testo che non può mancare per gli amanti degli studi sul linguaggio e delle sue connessioni con la storia, la filosofia e la cultura. Introducendo brevemente l’autore di questo libro, lo storico tedesco Reinhart Koselleck nasce nel 1923 a Gorlick in Germania. Dopo aver compiuto i suoi studi in Inghilterra, diverrà professore ordinario di alcune università tedesche quali Bochum, Heidelberg e Bielefeld. Interviene inoltre come visiting professor nelle università di tutto il mondo. Morirà nel 2006 all’età di 83 anni. Tra le opere principali troviamo Critica illuminista e crisi della società borghese, che analizza la critica illuminista allo stato assoluto nella prospettiva di evidenziarne le contraddizioni, in quanto finalizzata alla conquista di potere da parte di nuovi soggetti sociali. Altri testi fondamentali sono La Prussia tra riforma e rivoluzione (1791-1848) e Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici. In quest’ultimo egli si pone due domande di fondo: che cosa sia il tempo storico e quale sia il metodo per applicare correttamente i concetti utilizzati in storiografia. Riguardo la prima, argomenta che non solo il tempo storico è differente da quello della natura, ma che al suo interno sono presenti diversi segmenti temporali costituiti da gruppi e interessi specifici. La seconda domanda rimanda immediatamente al suo originale contributo metodologico. Koselleck propone una “Storia dei concetti” (Begriffgeschichte), distaccata dalla storia delle idee in senso tradizionale, che mira ad individuare gli elementi “costituzionali” dei concetti, cioè quelli che possono essere messi in relazione con le dinamiche strutturali della società.
La Begriffgeschichte, disciplina affermatasi negli anni ’50 del secolo scorso, vede nei concetti non solo il riflesso dell’esperienza del mondo, ma anche gli elementi costitutivi della stessa. Il termine “storia dei concetti” era comparso per la prima volta con Hegel, in riferimento alla storia interpretativa che indirizza la storia in generale alla filosofia. E’ nel XX secolo però che il lemma pervenne ad indicare un autonomo campo per la metodologia della filosofia, prevedendo l’analisi delle variazioni del significato dei concetti in relazione al mutamento delle strutture semantiche in cui vengono di volta in volta storicamente impiegati. L’esposizione di questo metodo trova la sua consacrazione nei volumi dei Geschichtliche Grundbegriffe (concetti storiografici fondamentali), editi da Koselleck, insieme con O.Brunner e W.Conze, riguardanti il lessico dei concetti fondamentali della politica di lingua tedesca. Con essi si intende fornire una complessiva raccolta del vocabolario politico, che permetta un adeguato controllo semantico nell’impiego contemporaneo dei concetti. L’ideologizzazione viene evitata grazie ad indagini logico-genetiche sulla storia dei singoli lemmi. All’interno di questo orientamento Koselleck sviluppa una vera e propria teoria dei tempi storici, che assume come luogo della trasformazione del lessico politico europeo la fase tra la fine del sec. XVIII e la prima metà del XIX. Con essa, il lessico politico europeo, in forza di processi di democratizzazione, ideologizzazione, di politicizzazione del linguaggio politico e di temporalizzazione dell’esperienza storica, vede definitivamente trasformato il significato storico dei propri concetti.
Ilva. Futuro. Casa.
C’era una volta un libro di Felix Guattari. Si chiamava “Le Tre Ecologie” (1989). In questo libro il coautore di Millepiani tracciava una cornice e la fissava bene alle pareti della storia con tre chiodi (decisamente eco-friendly): ecologia ambientale, ecologia sociale ed ecologia mentale. Questa la cornice, quindi. Il quadro che ne viene fuori, oggi, rimanda ad un mosaico interdisciplinare che parla di tutto perchè tutto parla. E potremmo anche provare a definire questo “tutto” come Ecosofia. Riducendo il discorso all’essenziale si potrebbe dire che, quello a cui siamo realmente interessati, sia l’Essere umano in rapporto al suo ambiente molteplice (fisico, sociale e mentale). Le Comunità ed i Territori si costituiscono in mezzo a questi processi di soggettivazione e territorializzazione ed è questo che ci interessa indagare.
Quello che sta accadendo a Taranto è emblematico. Non a caso si parla di Taranto, del Territorio e della Comunità che ospita, e non semplicemente dell’ex Italsider (ora ILVA). Il focus di tutta la vicenda è proprio questo. Perchè tutto parla. Da una parte c’è il ciclo produttivo novecentesco ed una concezione esclusivamente lavoristica delle organizzazioni “democratiche” che dovrebbero difendere la dignità degli Esseri umani; dall’altra c’è il Territorio che chiede di mettere radicalmente in discussione questa concezione e, di conseguenza, anche se stesso perchè scorre nelle sue vene il sangue malato della fabbrica. Non c’è “classe” che tenga a questa lacerazione. E’ l’ultimo passaggio verso la trasformazione radicale del nostro Mondo. Il nuovo Mondo è qui ed ora. La catastrofe è che in questa lacerazione bisogna prendere parte.
Due articoli di Girolamo De Michele per focalizzare la questione e provare a “prendere parte”: “Taranto: la città che non vuole morire a norma di legge” e “Risvegliarsi dal Giorno della marmotta. Chiudere l’Ilva, uscire dal Novecento“.
La Filosofia, il marketing dell’Accademia e la Ricerca. Ma di cosa stiamo parlando?
La querelle che è nata intorno all’intervento di Diego Fusaro non mi ha colpito. Per niente. Nello zaino avevo un libro di Ernesto De Martino che parla della fine del Mondo; qualche euro in un borsellino che solitamente utilizzo a Natale per giocare a carte con gli amici; una postepay da caricare per comprare il viaggio Nord-Sud (e ritorno) per tornare a Vivere almeno qualche ora della quotidianità che amo; un tesserino che identifica la mia appartenenza al Lavoro. Il Lavoro ogni mese mi permette di sopravvivere e di comprare anche una bottiglia di Birra. Questo, per me, è il Beruf (depurato da Weber e dall’Etica calvinista). Beruf è attaccamento alla Vita ed il Lavoro è solo una forma di questo attaccamento (non ne è il paradigma). Dopo i commenti alla querelle quello che avevo ho ancora, nulla si è aggiunto e nulla si è distrutto. Eppure un confronto dovrebbe lasciare qualcosa, dovrebbe arricchire le certezze oppure semplicemente regalare dubbi (che, spesso, valgono molto di più). Niente di tutto questo.
Gould contro il disegno intelligente
Le tesi di Darwin crearono scompiglio fin da subito. Uno degli argomenti più usati contro le sue teorie, anche da quei settori accademici naturalistici più ostili al cambiamento di paradigma (es, Nathaniel Shaler), era l’ “argomento probabilistico” (molto usato dai detrattori anche ora: alcuni autori del disegno intelligente cercano di stabilire, calcolatrice alla mano, congetture sulle remotissime probabilità dell’evoluzione umana). In sintesi, si afferma che l’assoluta improbabilità dell’evoluzione di quello strano animale chiamato uomo debba indicare necessariamente un qualche disegno divino che lo abbia voluto. La confutazione “meglio scritta” che personalmente abbia mai incontrato di questo abbozzo di principio antropico l’ho trovata in alcune pagine di Stephen Jay Gould (“Risplendi grande lucciola”), nelle quali il grande naturalista cita una lettera di un darwinista ottocentesco, William James:
Non sapremo mai quali fini non hanno potuto realizzarsi, poiché i morti non possono parlare. Il testimone superstite trarrebbe in ogni caso, qualunque cosa egli fosse, la conclusione che l’universo fu progettato in vista del successo suo e dei suoi simili, visto che così sono andate le cose. Ma il tuo ragionamento che ci sono milioni di probabilità contro una che le cose non siano andate così per caso non si applica. Esso si applicherebbe se il testimone fosse preesistito in una forma indipendente e avesse elaborato il suo progetto, e poi il mondo lo avesse realizzato. Una tale coincidenza dimostrerebbe che il mondo ha una mente affine alla sua. Ma una coincidenza del genere non c’è stata. Il mondo si è formato una volta sola, il testimone è arrivato dopo il fatto e si limita semplicemente ad approvare. Là dove è in discussione un solo fatto, non c’è alcun rapporto di “probabilità”.
Ecco il commento di Gould a queste parole:
I ragionamenti vecchi e infondati non muoiono mai (e neppure scompaiono a poco a poco), specialmente quando corrispondono alle nostre speranze. L’erroneo ragionamento della probabilità di Shaler è ancora molto in voga fra coloro che desiderano trovare una giustificazione cosmica per l’importanza dell’uomo. E la replica di James rimane oggi altrettanto brillante e valida di quando egli la formulò la prima volta nella lettera a Shaler. Noi potremmo salvarci da molte assurdità correnti se ogni devoto del principio antropico (nella sua versione forte), se ogni tifoso della Noosfera di Teilhard de Chardin, leggesse e capisse la lettera di James a Shaler.