Foucault e le donne del Premier. Una lettera – recensione a “Filosofia di Berlusconi”

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Filosofia di Berlusconi. L’essere e il nulla nell’Italia del Cavaliere (Culture)

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Articolo dal Corriere della Sera

Quei liberismi tra Foucault e il Bagaglino

In questo modello di emancipazione, le donne ricordano i primi salariati che affrancatisi dalla servitù della gleba misero in vendita la propria forza lavoro

Caro direttore,
c’è una curiosa tendenza, tutta italiana, a oscillare tra le più raffinate posizioni critiche e dissidenti (specie nella sinistra) e la barbarie, tra Foucault e il Bagaglino per intenderci. Mi pare invece che sia giunto il momento di andare in piazza ed essere numerose perché questo non è il tempo dei distinguo, delle raffinate discussioni fra le diverse anime del femminismo italiano, questo è il tempo della piazza. Questo è il tempo delle donne in piazza: l’indignazione, infatti, si dice in molti modi, non solamente annunciando che in Italia esistono donne per bene che studiano e lavorano – e che quindi si distinguono, in maniera autoevidente, da coloro che preferiscono fare altro – ma anche denunciando il semplice fatto che lo scambio fra sesso, denaro e potere sia divenuto il principale ambito di reclutamento «politico» delle donne. Che cosa hanno da dire su questo le donne? Va tutto bene, dunque?

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Politica e società di massa secondo Adorno e Horkheimer

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Alla civiltà dei divi appartiene, come complemento della celebrità, il meccanismo sociale che uguaglia tutto ciò che spicca in qualche modo, e quelli sono solo i modelli della confezione su scala mondiale e per le forbici della giustizia giuridica ed economica, che eliminano anche le ultimi frange. La tesi che al livellamento e alla standardizzazione degli uomini si oppone, d’altro lato, un rafforzamento dell’individualità nelle cosiddette personalità dominanti, in rapporto al loro potere, è sbagliata; fa parte, a sua volta, dell’ideologia. I padroni fascisti di oggi non sono tanto superuomini quanto funzioni del loro stesso apparato pubblicitario, punti d’incrocio delle stesse reazioni di milioni. Se nella pscicologia delle masse odierne il capo non rappresenta più tanto il padre quanto la proiezione collettiva e dilatata a dismisura dell’io impotente di ogni singolo, le persone dei capi corrispondono effettivamente a questo modello. Non per nulla hanno l’aria di parrucchieri, attori di provincia e giornalisti da strapazzo. Una parte della loro influenza morale deriva proprio dal fatto che essi, come di per sé impotenti, e simili a chiunque altro, incarnano – in sostituzione ed in rappresentanza di tutti – l’intera pienezza del potere, senza essere perciò nient’altro che gli spazi vuoti su cui il potere è venuto a posarsi. Essi non tanto sono immuni dallo sfacelo dell’individualità, quanto piuttosto l’individualità in sfacelo trionfa in loro ed è in qualche modo ricompensata dalla sua dissoluzione. I capi sono diventati completamente ciò che erano già stati sempre, un poco, in tutto il corso della storia borghese: attori che recitano la parte di capi. La distanza fra l’individualità borghese di Bismarck e quella di Hitler non è inferiore a quella fra la prosa dei Pensieri e ricordi e il gergo illeggibile di Mein Kampf. Nella lotta contro il fascismo non è il compito meno importante quello di ridurre le immagini gonfiate dei capi alla misura della loro nullità. Almeno nella somilianza fra il barbiere ebreo e il dittatore il film di Chaplin ha colto qualcosa di essenziale.

Adorno – Horkheimer, La dialettica dell’illuminismo, traduzione di Renato Solmi, Einaudi, pp. 254-255

Aggiungo io: purtroppo questa somilianza fra barbieri, attori e politici, ora, non interessa più a nessuno. E’ anzi la chiave del successo. Ecco dove il nuovo fascismo ha vinto, processo che ben Pasolini riconosceva.

Gli Ausmerzen delle isole Marshall

L’amore odio per il corpo tinge di sé tutta la civiltà moderna. Il corpo, come ciò che è inferiore ed asservito, viene ancora deriso e maltrattato, e insieme desiderato come cioè che è vietato, reificato, estraniato. Solo la civiltà conosce il corpo come una cosa che si può possedere, solo in essa esso si è separato dallo spirito – quintessenza del potere e del comando – come oggetto, cosa morta, corpus. […] Col pieno trapasso del dominio alla forma borghese, mediata dal commercio e dal traffico, e ancor più con l’industria, ha luogo un mutamento formale. L’umanità si lascia asservire, anziché dalla spada, dall’apparato colossale, che alla fine, peraltro, torna a forgiare la spada. Così è scomparso il senso razionale dell’esaltazione del corpo virile; i tentativi romantici di rivalutazione del corpo nell’Ottocento e nel Novecento non fanno che idealizzare qualcosa di morto e di mutilo. Nietzsche, Gauguin, George, Klages, videro la stupidità indicibile che è il frutto del progresso. Ma ne trassero una conclusione errata, e invece di denunciare l’ingiustizia di oggi, idealizzarono quella di una volta. L’ostilità alla meccanizzazione è divenuta un semplice ornamento della cultura industriale di massa, che non può fare a meno di un bel gesto. Gli artisti hanno preparato per la pubblicità, senza volerlo, l’immagine perduta dell’unità di anima e corpo. L’esaltazione dei fenomeni vitali, dalla bestia bionda all’isolano dei mari del Sud, sfocia inevitabilmente nel film “esotico”, nei manifesti pubblicitari delle vitamine e delle creme di bellezza, che tengono solo il posto del fine imminente della rèclame: del nuovo, grande e nobile tipo umano, dei capi e delle loro truppe. I capi fascisti riprendono direttamente in mano gli strumenti di morte, abbattono i loro prigionieri a colpi di pistola e di frusta – non in virtù di una forza superiore, ma perché quell’apparato colossale e i suoi veri padroni, che ancora non lo fanno, consegnano loro le vittimi della ragion di stato nei sotterranei degli altri comandi. […] Quelli che in Germania esaltavano il corpo, ginnasti e camminatori, hanno sempre avuto la massima affinità all’omicidio, come gli amici della natura alla caccia. Essi vedono il corpo come un meccanismo mobile, le parti nelle loro articolazioni, la carne come imbottitura dello scheletro. Essi maneggiano il corpo, trattano le sue membra come se fossero già separate. La tradizione ebraica conserva la ripugnanza a misurare l’uomo col metro, poiché si misurano i morti – per la bara. E’ ciò di cui godono i manipolatori del corpo. Essi misurano l’altro, senza saperlo, con lo sguardo del costruttore di bare. Si tradiscono quando enunciano il risultato: dicono che l’uomo è lungo, corto, spesso, pesante. Sono interessati alla malattia, spiano già, durante il pranzo, la morte del commensale, e il loro interesse per tutto ciò che è razionalizzato solo fragilmente con la sollecitudine per la salute. Il linguaggio tiene il passo per loro. Esso ha risolto la passeggiata in movimento ed il vitto in calorie, un po’ come la foresta viva si dice legno (bois, wood) nel francese e nell’inglese corrente. La società riduce, col tasso di mortalità, la vita ad un processo chimico. (Adorno – Horkheimer, La dialettica dell’illuminismo, traduzione di Renato Solmi, Einaudi, pp. 252-254)

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La società dell’Evento

Destoricizzare, fare di tutto il mondo un evento. Di qui, diventa facile fare della cronaca un posto dell’indistinto, dove tutto colpisce ma, misteriosamente, viene dimenticato il giorno dopo. Un rito collettivo della società post-moderna. Un rito della sedicente società desacralizzata che tocca anche e soprattutto la politica. La moltiplicazione mediatica di quei fenomeni che filosofi come Heidegger, Deleuze e Derrida chiamavano “evento”, secondo Marc Augè, fabbrica sempre nuovi inizi. Tutto è condannato alla novità: in questa negazione della storia, in questa macchina che serve per mobilitare e ideologizzare, la memoria si atrofizza. Ecco le parole di Marc Augé (da La Reppubblica 04/12/2010):

Oggi assistiamo a una dittatura degli eventi. Tutto deve essere trasformato in un’ occasione unica e irripetibile, ben diversa da quella trama d’ avvenimenti quotidiani, individualio collettivi, che da sempre tutte le culture hanno messo al centro dei loro sistemi d’ interpretazione. Oggi prevale la dimensione eccezionale. Il paradossoè che questi eventi fuori dal comune, o che si vuole presentare come tali, sono sempre più frequenti, risultato di un’ inflazione che alla fine appiattisce e banalizza tutto. Da un lato, essa drammatizza ciò che non avrebbe ragione d’ esserlo, dall’ altro, svaluta le occasioni che invece meriterebbero veramente un’ attenzione particolare. Così, un evento ne scaccia un altro, e ciò che oggi è eccezionale, domani non lo sarà più. Se oggi viviamo in una sorta di presente perpetuo, vale a dire un tempo bloccato da immagini che si ripetono senza sosta, un tempo immobile che ignora il passato e nega il futuro, ciò è dovuto anche alla moltiplicazione degli eventi e al loro culto diffuso. L’ unicità dell’ evento, infatti, domanda al tempo di arrestarsi. La sua irripetibilità, indipendentemente dal fatto che sia verao meno, nega qualsiasi divenire, rinchiudendo ciò che accade in una parentesi temporale senza memoria e senza prospettive. La moltiplicazione degli eventi più o meno orchestrata dalla società dei consumi implica quindi un accumulo che produce una temporalità senza evoluzione e senza storia. Nello spettacolo come nella politica, nello sport come nella cultura, il sistema in cui viviamo fabbrica eventi a ripetizione, focalizzando su di essi tutta l’ attenzione del pubblico, che così dimentica tutto il resto. Da questo punto di vista, potremmo dire che l’ evento è un nonluogo temporale, dove si celebra un falso carpe diem imposto dalla società dei consumi, che, in simbiosi con la scena mediatica, ha continuamente bisogno di creare nuove occasioni per mobilitare collettivamente i consumatori. L’ impressione d’ irripetibilità, se da un lato si contrappone al divenire storico, dall’ altro però può alimentare una memoria individuale. Una traccia soggettiva che è un elemento di resistenza all’ oblio collettivo oggi dominante e alle debolezze della rappresentazione storica. Se ciò avviene, è anche perché, seppure in termini molto parziali, l’ evento, anche nella sua dimensione più artificiale, può creare l’ impressione che qualcosa di nuovo stia per cominciare, recuperando così almeno una parte della ritualità tradizionale. L’ evento, soprattutto in alcuni ambiti, come la politica, permette di fabbricarsi ogni volta l’ illusione di un nuovo inizio. Naturalmente, la fascinazione collettiva per gli eventi è anche legata all’ impressione d’ impoverimento esistenziale che ci accomuna. Di fronte a una vita percepita come piatta e banale, abbiamo bisogno di momenti intensi ed unici che ci permettano di sentirci più vivi. La dimensione pubblica e collettiva contribuisce al senso di pienezza dell’ esperienza, procurando anche un’ impressione di comunione con gli altri. Più si è in tanti e più si ha l’ impressione di essere al centro di una situazione eccezionale. Nella società dei consumi sono sempre di più coloro che, non potendo consumare per ragioni economiche, si sentono esclusi da un sistema di cui vorrebbero far parte. Il bisogno di consumo viene allora soddisfatto almeno in parte dall’ illusione prodotta dagli eventi collettivi, che in questo diventano un surrogato. Il problema è che oggi, per via delle protesi tecnologiche individuali di cui siamo dotati, troppo spesso ci ritroviamo a vivere gli eventi da soli davanti a uno schermo. Non proprio una situazione eccezionale capace di trasmetterci nuove energie.

sulla Democrazia… #0

Aggiungiamo altro materiale al percorso sulla Democrazia, intesa come “forma di Governo delle cose e degli Esseri umani”, che abbiamo già toccato in altri articoli su questo spazio: La funzione democratica della Cultura nella Società di massa, Come ti governo le cose e gli Esseri umani e vecchio/nuovo Fascismo, una lettura….

Luciano Canfora sulla Democrazia.

Qui una riflessione sulle caratteristiche dell’attuale sistema di Governo “occidentale”, tratta dal libro di Luciano CanforaLa Democrazia. Storia di una ideologia”, Editori Laterza, Roma-Bari 2004 (stralci dal capitolo XV, “Il sistema misto”).

Bloch racconta Munzer, una Recensione.

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Ernst Bloch, Thomas Munzer teologo della rivoluzione, Feltrinelli, Milano (traduzione di Simona Krasnovsky e Stefano Zecchi).

Quella di Ernst Bloch non è semplicemente una biografia. Il suo ritratto di Thomas Munzer (o Muntzer, stando a wikipedia) è piuttosto il racconto di un’Epoca, di una trasformazione che cammina direttamente sulle gambe degli Esseri umani. Bloch, infatti, narra innanzitutto un passaggio, quello dall’homo spiritualis all’homo oeconomicus (“l’uomo piatto che si adatta agli ordini pubblico-giuridici esistenti, troppo tiepidi e poco illuminati”, p. 95), che si snoda nel rapporto tra Religione e Politica, quando entrambe si interessano al “religàre” cioè al mettere insieme una Comunità secondo precise Norme (in ambito Sacro e “civile”). Non è un caso che la prima edizione del libro di Bloch risalga al 1921, contemporaneamente alla pubblicazione del volume “La Dittatura” di Carl Schmitt. Il libro su Muntzer, quindi, sembra inserirsi in un tentativo tutto “tedesco” di rispondere tanto alla Crisi strutturale (economica, sociale, istituzionale…) generata dal primo Conflitto mondiale quanto alla strada rivoluzionaria intrapresa dalla Russia bolscevica. Però se Schmitt, semplificando, giunge a pensare la Dittatura come una forma di “Stato di Eccezione” capace di “sospendere” lo Stato di Diritto per conservare, nella sostanza, l’architettura del Potere “Sovrano”; Bloch riprende il millenarismo di Epoca moderna per tentare di produrre un’Eccedenza, per andare oltre l’impalcatura dello Stato. Entrambi gli autori, però, sembrano interrogarsi sui momenti di Eccezione: che essa si chiami Dittatura (Schmitt) o “Utopia messianica” (Bloch), che altro non è se non un meccanismo di “sospensione” della Storia per percorrere altre strade.

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Mexico. Immagini di una Rivoluzione.

 

Palazzo delle Esposizioni, Roma.
Mexico. Immagini di una Rivoluzione
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Il 5 Ottobre è stata inaugurata al Palazzo delle Esposizioni (Roma) la Mostra fotografica “Mexico. Immagini di una Rivoluzione”. Come si può facilmente intendere, oggetto dell’Esposizione è la Rivoluzione messicana, ufficialmente cominciata con la decisione del liberale Francisco Madero (che, assieme ad altri esiliati negli Stati Uniti, redasse il “Piano di San Luis”) di opporsi militarmente al Regime dittatoriale di Porfirio Diaz (1876-1911).

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vecchio/nuovo Fascismo. Una recensione de l’Uniforme e l’anima

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In Italia sembra essersi riaperta (dall’inizio degli anni Novanta, a dire il vero) una contesa, a tratti controversa e spesso banalmente pletorica (basti considerare la vasta mole di Documentari e fiction che, di tanto in tanto, ingombrano i palinsesti televisivi), sul “Fascismo”. Utilizziamo le virgolette per astrarre il concetto dal suo significato (storico, politico, filosofico…), per rendere la parola piuttosto un significante di qualcos’altro, senza rimanere legati a qualche immagine particolare che spesso si ritrova nei libri (un manganello, il volto crucciato del Duce, il saluto romano, il fascio littorio…). In seconda battuta, quasi per rispettare una certa ritualità, si discute anche sulla ripresa dell’antifascismo da una parte come elemento di memoria storica e, dall’altra, come condensatore di un sempre auspicato “ricompattamento politico”. Si parla, quindi, di “Alleanza democratica” per battere le Destre, richiamandosi al Comitato di Liberazione Nazionale, alla Costituente e quant’altro. Più che parlare di antifascismo si dovrebbe cercare un lessico nuovo, dovrebbero sperimentarsi delle “vie di fuga” dalla realtà, una modalità di lettura e di approccio all’attualità capace di farci fuoriuscire anche dall’avvitamento teorico a cui l’antifascismo, spesso, condanna. Si tratta di ri-elaborare il presente per trovarne il gran rimosso. In tutto questo affannoso confrontarsi l’errore sarebbe quello di rendere il presente un’orma sulla sabbia, cercando di indossare le stesse scarpe utilizzate nel passato. Le scarpe, come tutti sanno, passano di moda o, comunque, si deteriorano con il passare del tempo. Meglio buttarle vie e comprarne di nuove.

Veniamo al dunque. Pensando ai “fascismi”, vecchi e nuovi che siano, si perde spesso di vista un elemento di primaria importanza che ne condiziona, a torto o a ragione, la lettura politica e l’interpretazione storica: la continuità. La continuità descrive e reitera un percorso da seguire. È una melodia, a tratti rassicurante, che salva dal “panico” delle cose nuove, delle immagini violente. La continuità è una cartina di tornasole che permette di distinguere, di dividere, di associare, di paragonare. Per queste ragioni (e per altre ancora) sembra che, per parlare di certe cose, non si possa fare a meno di citare qualcuno, di utilizzare una bibliografia ed un apparato critico di note e noterelle che, a volte, paiono indispensabili. Che cosa sono, spesso, le note se non un ponte sul passato per ottenere una legittimazione del presente? È un po’ la condanna della storiografia, quella che permette la “conservazione”. È la cultura accademica che si fa politica, si fa, appunto, continuità e diventa cultura sic et simpliciter. La continuità è legittimazione, è forza universitaria, è paradigma veritativo. Per stare a questo gioco, per svolgere adeguatamente il nostro ruolo, ci limitiamo solo a citare Antonio Gramsci, dai “Quaderni del Carcere”:

Come è possibile pensare il presente e un ben determinato presente con un pensiero elaborato per problemi del passato spesso ben remoto e sorpassato? Se ciò avviene, significa che si è “anacronistici” nel proprio tempo che si è dei fossili e non esseri modernamente viventi.

In questo modo proviamo ad incrinare la “condanna” della continuità.

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Precarietà, una questione di Terra!

Non è mia intenzione fare una trattazione minuziosa e completa della “precarietà”. Non solo per mancanza di spazio ma, soprattutto, per la debolezza dei riferimenti ermeneutici che, oggi più che mai, sono come fuochi fatui da cogliere con fatica. Probabilmente dovremmo riprendere le lanterne della follia per ricercare queste fiamme ipotetiche, per comprenderle (senza necessariamente vederle) ed averne coscienza. Ci mancano dei riferimenti, ci manca una grammatica, ci manca un linguaggio.

La “precarietà” non è semplicemente una categoria economica attraverso cui leggere le dinamiche sociali che si sviluppano tra il Capitale ed il Lavoro, magari in associazione a poche righe marxiane sul “General Intellect” per costruire su questo asset una nuova elaborazione onnicomprensiva della realtà. Non è, quindi, la caratteristica “unificante” di un’ipotetica nuova soggettività produttiva, che si dovrebbe fare, prima o poi, antagonista (di questo tenore sembra essere la trilogia di Negri ed Hardt). Sono stati spesi decine, forse centinaia, di libri e di articoli su questo argomento. Ma c’è qualche conto che, evidentemente, ancora non torna. Perché nulla è accaduto, nulla è cambiato. Nulla si è organizzato e niente si scorge all’orizzonte. La “precarietà”, a livello meramente contrattuale, si potrebbe associare a diverse forme, nessuna riconducibile ad un modello prestabilito, secondo le infinite fattispecie previste (non a caso) dall’attuale Diritto del Lavoro. A livello esistenziale, invece, non si auto-determina come “precario” semplicemente chi viene definito da un lavoro subordinato, parasubordinato, “a progetto”, “a chiamata” ed affini. Insomma, non accade, oggi, quello che è accaduto durante mezzo secolo di Welfare State, quando la collocazione lavorativa definiva a tutti gli effetti anche i tratti somatici ed ontologici delle soggettività interessata. “Io operaio”, “io dipendente pubblico”, “io funzionario” e via dicendo. Non esiste, quindi, un “io precario” perché la precarietà è una condizione da cui si vuole sempre fuggire. D’altronde non dovrebbe neanche essere considerata come un fenomeno esclusivo dei giorni nostri. Essa, da questo punto di vista, è sempre esistita. Sarebbe sufficiente leggere dei libri di storia economica, ma basterebbe anche sfogliare le pagine del primo libro de “Il Capitale” (soffermandosi in particolare sulle splendide inchieste giornalistiche che vi sono contenute). La “precarietà” è semplicemente stata sospesa e riorganizzata, per un certo periodo di tempo, a causa della forte propulsione politica ingenerata nelle dinamiche sociali ed economiche da alcune organizzazioni novecentesche che hanno costretto una parte di borghesia industriale a scendere “a patti” con i lavoratori, concedendo qualche diritto elementare e strutturando queste “cortesie” attraverso un registro giuridico (lo “Statuto del Lavoro”). Ma questa spinta ha cominciato ad incrinarsi già dalla fine degli anni Settanta, e in maniera più evidente dagli Ottanta, fino a presentarsi come catastrofe ai giorni nostri. La “precarietà”, sempre a livello di rapporto tra Capitale e Lavoro, non è altro che un ritorno al passato.

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La funzione Democratica della Cultura nella Società di Massa

Per Democrazia si potrebbe intendere non tanto il potere (κράτος) del démos (δῆμος) in senso stretto, quanto la possibilità (e la capacità) di un gruppo sociale di “fabbricare” il soggetto/oggetto del proprio Governo. Se provassimo a leggere ogni esperienza “democratica” alla luce di questo nesso (dall’Atene periclea alle Democrazie liberali moderne, passando per i Regimi “totalitari” del Novecento), non è escluso che si potrebbe commentare in maniera diversa la Storia politica dell’Occidente. Si vedrebbe, forse, come il nesso principale del Governo “democratico” non stia solo nella conquista del Potere, ma si potrebbe trovare nella ricerca del consenso di massa. Dove c’è consenso, più o meno diffuso, c’è realmente Democrazia. Solo il leninismo si pose il problema della gestione del Potere con l’esperienza dei Soviet (tradotti in Italia con i “Consigli di Fabbrica” durante il biennio rosso). Anche questo tentativo, però, presto fu ricondotto ai “normali” processi democratici del consenso sviluppatesi in seno alla fondazione dello Stato stalinista (l’Economia di Guerra era funzionale a costruire un consenso politico). Con questo si potrebbe dire, più o meno provocatoriamente, che anche il Fascismo ebbe una propria caratteristica democratica perché, indubitabilmente, poteva contare su un consenso diffuso, derivato principalmente dalle criticità esplosive dello Stato liberale che non riusciva più a dare risposte effettive ad un disagio sociale sempre più ampio. Insomma, la Democrazia non sarebbe tanto il “potere al popolo”, come spesso si dice, quanto il “potere del popolo”. Per “potere del popolo” non s’intende la possibilità di guida “diretta” delle Istituzioni ma la capacità di legittimarne il Governo attraverso il consenso. La capacità di un gruppo, quindi, starebbe nel creare le condizioni politiche, sociali, culturali ed economiche per ottenere consenso e legittimazione.

La Cultura è una delle “camere oscure” in cui si condensa il soggetto/oggetto del Governo perché svolge, nella Società di massa, una funzione direttamente riconducibile alla creazione del consenso. Essa, in particolare, eserciterebbe quest’ufficio non solo in senso propagandistico, bensì ponendo le condizioni per l’unificazione “culturale” del δῆμος su cui esercitare il κράτος. Per porre in evidenza l’importanza “democratica” del consenso, ai fini del raggiungimento del Potere, si è scelto di riprendere la querelle tra Elio Vittorini e Palmiro Togliatti, all’alba della Repubblica italiana, sul rapporto tra Politica e Cultura.

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