Per una questione territoriale, il buco e la Discarica!

Tutto ebbe inizio con un buco. Anzi, si fecero molti buchi. Buchi nella Terra. Terra bucata. In un buco, poi, ci può finire qualunque cosa. Non a caso, nella metafora, il “buco nero” è uno spazio sconosciuto, un non-luogo dove essere risucchiati per poi venire vomitati chissà dove e chissà come. Buchi neri nella Terra. Il buco, inoltre, è sempre un buco interessato, è un buco di qualcuno. È una proprietà, privata. È un buco privato che qualcuno produce, crea, attualizza per qualche motivo. Per togliere o per mettere. Per estrarre o per inserire. La funzionalità dei buchi, quindi, si modifica a seconda delle esigenze. Anche le trincee del primo Conflitto mondiale erano buchi, riempiti dai Rifiuti. Rifiuti umani, perché la Guerra, ogni Guerra, rende l’Essere umano un Rifiuto. Rifiuto di se stesso, innanzitutto. Eppure nessuno rifiuta la Guerra, in ogni Epoca. Solo ed unico Bene comune dell’Umanità. Ma non è questo il nostro caso. O forse si. Perché anche i Rifiuti che quotidianamente produciamo ci appartengono, sono parte di quello che facciamo, di come viviamo. Sono nostri, nostra responsabilità, nostra scelta. È un Rifiuto di noi stessi che va a riempire qualche buco. Siamo noi in qualche buco, il nostro riflesso che riempie la Terra. Terra bucata, appunto. Ma la Terra è condivisione, è pienezza. La Terra ha orrore del buco, per questo tende a riempirlo. Tende a riempirsi. Povera Terra.

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L’altra India (Amartya Sen), una recensione. Le origini della filosofia, il laicismo e lo stato laico

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Amartya Sen, nel suo interessante studio intitolato “L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radice della cultura indiana”, intraprende un filone di studi assai poco battutto qui in Europa, o magari, di scarsa visibilità. Nella citazione riportata in questo articolo, parla del sovrano indiano musulmano Akbar – fine del XVI secolo -, e cioè nel felice tempo in cui noi Europei ci scannavamo per questioni importantissime, tipo le religioni (ma la vera posta in gioco era ben altra), e mentre bruciavamo Giordano Bruno a Campo de Fiori. Ciò che riporto del nobel bengalese è anche utile a smitizzare la tutta da dimostrare e arcinota equazione “radici cristiane = stato laico”, quell’equazione che vede solo nelle radici giudaico/cristiane la possibilità dell’instaurarsi di uno Stato inteso in senso moderno (tesi, peraltro, già smentita, tra gli altri, da Federico Chabod, in tempi non sospetti). Nella sua semplicità stilistica ma anche nella sua competenza, l’autore offre, anche per non specialisti, una visione chiara e demitizzata, direi, non esotica, dell’India, della sua cultura e storia, dei suoi innumerevoli problemi.

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Filosofia del rischio, società del rischio, filosofia del disastro (di ULRICH BECK)

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La faccia oscura del progresso, (da La Repubblica online)

Società mondiale del rischio significa un’epoca nella quale i lati oscuri del progresso determinano sempre più i contrasti sociali. Mentre prima ciò che non stava sotto gli occhi di tutti veniva negato, ora l’autominaccia diventa il movente della politica. I pericoli nucleari, il mutamento climatico, la crisi finanziaria, l’11 settembre, seguono in pieno il copione della Società del rischio, che ho scritto 25 anni fa, prima della catastrofe di Chernobyl. A differenza dai precedenti rischi industriali, essi (1) non sono socialmente delimitabili né nello spazio né nel tempo, (2) non sono imputabili in base alle vigenti regole della causalità, della colpa, della responsabilità e (3) non possono essere compensati, né coperti da assicurazione. Dove le assicurazioni private negano la loro protezione — come nel caso dell’energia nucleare e della tecnologia genetica — viene sempre superato il confine tra i rischi calcolabili e i pericoli incalcolabili. Questi potenziali di pericolo vengono prodotti industrialmente, esternalizzati economicamente, individualizzati giuridicamente, legittimati tecnicamente e minimizzati politicamente. In altri termini, il sistema di regole del controllo “razionale” si rapporta ai potenziali di autodistruzione incombenti come un freno da bicicletta applicato a un aereo intercontinentale. Ma Fukushima non si distingue forse da Chernobyl per il fatto che i terribili eventi giapponesi partono da una catastrofe naturale? La distruzione non è stata provocata da una decisione umana, ma dal terremoto e dallo tsunami.

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Filone di Alessandria, il primo ponte fra ebraismo ed occidente. La filosofia e Vittorio Arrigoni

L’immagine di un ellenismo omogeneo fornita da Droysen (il creatore del termine “ellenismo”), come insegna bene la recente storiografia, è tutta da smitizzare. Già Hans Jonas faceva notare, nel suo famoso studio sullo gnosticismo, quanto questa antica “globalizzazione” provocata dalle conquiste di Alessandro il Grande fosse ostacolata dai particolarismi locali, e al suo interno generasse la così detta “reazione orientale”, che si opponeva alla diffusione della filosofia, dello stile di vita, della lingua greca, di quel modello che in oriente si percepiva come “occidentale”. Fondamentale in questa linea di approfondimento delle reali dinamiche del periodo ellenistico è il testo di Arnaldo Momigliano (Alien Wisdom. The limits of Hellenization) che esemplifica in maniera compiuta l’incontro fra ellenismo e culture che orbitavano intorno il mediterraneo: rispettivamente Celti, Giudei, Romani, Iranici. All’interno di questa analisi è importante sottolineare, alla luce del mio discorso, la particolarissima ed unica, per certi versi, “reazione” ebraica all’incontro con l’ellenismo, con questa “perturbazione” filosofica-culturale (e non scordiamoci, militare) proveniente dal semisconosciuto occidente.

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Attualità e composizione del Comune, considerazioni sparse sul Lumpen

da Action30 (del 3 Febbraio 2009, una Vita fa… per stimolare oggi un dibattito)

Si potrebbe dire che quasi tutte le rivoluzioni, tutte le trasformazioni sociali culturali e politiche, siano state condotte “materialmente” dal LUMPEN (la violenza è affare di pochi). Permettetemi un flash. Pensiamo alla rivoluzione luterana, ad esempio, che di fatto ha creato la Germania (nello specifico la Prussia) più_o_meno come noi la conosciamo (liberandola dall’oppressione della Chiesa “romana”). È stato il LUMPEN che, ad un certo punto della diatriba Lutero-papato, ha sviluppato tutta la violenza che poi è stata canalizzata ed utilizzata dai principi prussiani. Rimanendo al XIX secolo (solo per non ampliare eccessivamente il campo delle osservazioni), mi permetto di riprendere brevemente il 18° brumaio di Luigi Bonaparte, dove Marx affronta la questione del LUMPENPROLETARIAT (tradotto in italiano come sottoproletariato, probabilmente modificandone anche il senso).
Due cose, innanzitutto:
Uno; Marx individua un LUMPENPROLETARIAT “nobile” ed uno “plebeo”. Ovvero per Marx l’aristocrazia finanziaria, nelle sue forme di guadagno come nei suoi piaceri, non è altro che la riproduzione dei sottoproletariato alla sommità della società borghese (riferimento da Lotte di Classe in Francia). Quindi partiamo dal presupposto che il LUMPENPROLETARIAT non è definito semplicemente dalla qualità o dalla quantità del reddito. E, chiaramente, non si vuole confondere neanche con la LUMPENBOURGEOISIE (come l’ha definita qualcuno in relazione all’America latina).
Due; (riporto dal 18° brumaio di Luigi Bonaparte) “[…] col pretesto di fondare un’associazione di beneficenza il sottoproletariato di Parigi era stato organizzato in sezioni segrete; ogni sezione era diretta da agenti bonapartisti; alla testa della Società vi era un generale bonapartista. Accanto a roués in dissento, dalle risorse e dalle origini equivoche; accanto ad avventurieri corrotti, feccia della borghesia, vi si trovavano vagabondi, soldati in congedo, forzati usciti dal bagno, galeotti evasi, birbe, furfanti, lazzaroni, tagliaborse, ciurmatori, bari, ruffiani tenitori di postriboli, facchini, letterati, sonatori ambulanti, straccivendoli, arrotini, stagnini, accattoni, in una parola, tutta la massa confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano la bohème. Con questi elementi a lui affini, Bonaparte aveva costituito il nucleo della Società del 10 dicembre. “Società di beneficenza”, in quanto i suoi membri, al pari di Bonaparte, sentivano il bisogno di farsi della beneficenza alle spalle della nazione lavoratrice. Questo Bonaparte, che si erige a capo del sottoproletariato; che soltanto in questo ambiente ritrova in forma di massa gli interessi da lui personalmente perseguiti, che in questo rifiuto, in questa feccia, in questa schiuma di tutte le classi riconosce la sola classe su cui egli può appoggiare senza riserve, è il vero Bonaparte, il Bonaparte sans phrase“.

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Dai commons al comunismo, dal comunismo ai commons

Riportiamo di seguito la traduzione italiana (a cura della Rivista mensile SU LA TESTA) e, successivamente, il testo originale del contributo redatto per il Web Journal THE COMMONER da Peter Linebaugh (autore, con Marcus Rediker, del libro I RIBELLI DELL’ATLANTICO).

Possiamo definire sinteticamente qualche differenza tra commons e comunismo. Le pratiche di commoning persistono tra lavoratori e contadini, e il comunismo è la generalizzazione di queste pratiche. Uno dei ruoli storici dello stato borghese fu quello di criminalizzare i commons; un’aspirazione dei comunisti era quella di rovesciare lo stato borghese. La testimonianza dei commons spesso appare come aneddotica o come folkloristica o come “crimine”, una storia minore, una piccola trasgressione; qualche episodio di comune può comparire per sbaglio in un altro argomento più importante; prove di beni comuni consuetudinari possono apparire peculiari a località o mestieri, e comunque appartenenti a storie locali o di settore, non alle “grandi narrazioni”. La testimonianza del comunismo, dall’altro lato è data da giornalisti, filosofi, economisti e polemisti, e aspira grandiosamente a divenire la narrazione che pone fine alle narrazioni!

DAI COMMONS AL COMUNISMO
Peter Linebaugh, traduzione a cura di Su la Testa (Marzo 2011)

We can propose some short ated contrasting commons and communism. Commoning practices persist among workers and peasants, communism consists of the generalization of such practices. An historic role of the bourgeois state was to criminalize the commons; an aspiration of the communists was to overthrow the bourgeois state. Evidence of the commons will often appear anecdotal or as folklore or as ‘crime’, just a small story, a minor transgression; evidence of commons may appear incidentally to some other, major theme; evidence of customary commons may appear particular to locale or craft, and belonging thus to trade or local histories, not ‘grand narratives’. Evidence of communism, on the other hand, is provided by journalists, philosophers, economists, and controversialists, and grandiosely aspires to become the narrative to end narratives!

MEANDERING ON THE SEMANTICAL-HISTORICAL PATHS OF COMMUNISM AND COMMONS
Peter Linebaugh, December 2010 su The Commoner

In questo interessante contributo, Peter Linebaugh si interroga principalmente sulla traiettoria concettuale, ma anche pienamente pratico-politica, che dai commons porterebbe al comunismo. Non uno sforzo di poco conto, quindi. Certamente un appunto di questo genere sembra essere quasi indispensabile al dibattito odierno che ruota soprattutto intorno alla questione dei “Beni Comuni“. In Italia capita spesso di usare il rasoio con suggestioni che pure meriterebbero maggiore approfondimento ed attenzione. Linebaugh si approccia all’argomento utilizzando lo stesso modus attraverso cui, con Marcus Rediker, ha scritto I RIBELLI DELL’ATLANTICO. Al centro della trattazione, infatti, ci sono Eventi concreti, momenti di Vita realmente vissuta, porzioni di storia trovati in un calderone di vecchi accadimenti dell’antagonismo (presto dimenticati) e riproposti in una veste differente. Uomini e donne, personaggi e parole, molto spesso si uniscono nell’Emancipazione del corpo e per la Liberazione dello spirito. In questa dimensione del conflitto l’elemento mistico-religioso non può essere epurato da ogni considerazione politica (a tal proposito rimandiamo al nostro Bloch racconta Munzer), anzi diventa quasi determinante. Perchè sempre di Emancipazione si parla. Da queste attualità diffuse sarebbe possibile ricostruire una traccia: la traccia dei commons che diventano altro, si trasformano. Omnia sunt communia, urlava il predicatore Muntzer guidando i contadini tedeschi all’assalto della città di Munster nel XVI secolo, reclamando pane, lavoro e “Beni Comuni”.

L’ipotesi da cui parte Linebaugh si presenta come una provocazione: se il comunismo, almeno così come lo conosciamo oggi, in realtà sia nato (e cresciuto) in ambienti differenti da quelli del socialismo “scientifico” e, successivamente, della pianificazione sovietica? Già si odono in lontananza alcuni strali, non proprio eleganti, degli “scienziati” contro gli “utopisti” durante le prime Assemblee della Prima Internazionale (e della Seconda). Ci sarebbe molto materiale, storico e politico, su questo argomento, eppure non è al centro del contributo che stiamo prendendo in considerazione. Nel suo articolo, Linebaugh, marca un punto di vista a nostro avviso molto importante: “Il pensiero parigino (dove ‘nacque’ il comunismo scientifico, nella seconda metà dell’Ottocento, ndR) era avanzato soltanto nel contesto di una teoria del progresso della storia”. Quindi il valore aggiunto che i moti parigini (e, soprattutto, la Comune del 1871 su cui sia Marx che Lenin hanno scritto molte pagine importanti) hanno dato al Comunismo è stata la Filosofia della Storia, la concezione del progresso e dell’inevitabilità evoluzionistica della palingenesi comunista. In Francia è avvenuto il “primo” passaggio dalla tradizione dei commons, quindi delle lotte contingenti e locali per i “beni comuni” (per la sopravvivenza e l’autonomia di una comunità di Esseri viventi) a quella del comunismo storico: “Possiamo definire sinteticamente qualche differenza tra commons e comunismo. Le pratiche di commoning persistono tra lavoratori e contadini, e il comunismo è la generalizzazione di queste pratiche”. Ed infatti, a ben vedere, già con la “gloriosaRivoluzione inglese e con la successiva conquista dell’Atlantico, interesse degli Stati divenne criminalizzare i commons, privatizzarli e fornire una grande base di manodopera a basso costo da impiegare nelle nuove terre da colonizzare oppure nelle fabbriche in espansione nelle Città.

Concludendo si potrebbe dire che, per Peter Linebaugh, esista una relazione dinamica e quasi gerarchica tra commons e comunismo. Inizialmente i commons erano spazi politici riferibili alle lotte ed alla resistenza contro la pervasività delle logiche economiche di Mercato nella Vita “comune” degli Esseri umani; successivamente il comunismo ha raccolto tutti questi conflitti, unendoli e costruendo una piattaforma politica immaginando un “soggetto” che la caratterizzasse (il “proletario”) ed a cui affidare il compito storico dell’Emancipazione e della Liberazione: “Ora nel XXI secolo la semantica dei due termini sembra essersi rovesciata, con il termine comunismo che appartiene al passato dello Stalinismo, all’industrializzazione dell’agricoltura, e al militarismo, laddove i commons appartengono ad un dibattito internazionale sul futuro planetario di terra, acqua e mezzi di sussistenza per tutti.

Aggiornamenti:
Sull’argomento sarebbe da leggere anche l’articolo di Paolo Cacciari su Carta.

Italiani, brava gente!

Ha scatenato un mese di polemiche questo intervento di Roberto Benigni al Festival di Sanremo, ripreso qualche giorno fa dall’interessante contributo (da noi già citato) di Wu Ming che ricostruisce la Storia del nostro inno nazionale (dimostrando come, in realtà, faccia riferimento ad episodi che con l’Unità d’Italia c’azzeccano poco e niente). La cartina di tornasole utilizzata da Wu Ming è l’articolo di Alberto Mario Banti pubblicato da Il Manifesto il 20 Febbraio (che ha suscitato numerose reazioni, alcune anche molto violente). Banti, in sostanza, accusa: “con la performance di Benigni mi sembra che il rischio di una riattualizzazione del peggior nazionalismo stia diventando reale“. Perchè la sua lezione farebbe discendere il nostro “chi siamo” dai Romani, dalla Lega Lombarda, dai Vespri sicialiani e da Balilla (“ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci“). Tutti Eventi che, con l’Unità d’Italia, non avevano nulla a che vedere. Anzi, in certi casi erano rivolti contro gli stessi Piemontesi. Attenzione al neo-nazionalismo, conclude Banti, perchè si annida sempre nel nostro ventre. E, a vedere i festeggiamenti per il 17 Marzo, forse non ha avuto torto. Evocare con tanta enfasi l’auto-incoronazione di un Re (Vittorio Emanuele II) come momento fondamentale del nostro “chi siamo“, sembra davvero fuori epoca. Siamo così deboli che basta un sventolio di bandiere per riempire il vuoto di Comunità e di Terra che abbiamo.
Criticare Roberto Benigni, però, è un pò come provare a criticare (seppur bonariamente) Roberto Saviano. Quasi impossibile (si farebbe “Lesa maestà“, scrive provocatoriamente Il Fatto Quotidiano). L’immaginario collettivo trasforma troppo facilmente gli Esseri umani in “manifestazioni eroiche dello Spirito”. La ragione è semplice: è fin troppo comodo delegare la propria creatività ad altri piuttosto che praticarla quotidianamente per provare a trovare alternative di Vita. Troppo comodo stare davanti alla TeleVisione, partecipare all’audience oppure leggere un libro, senza esserne direttamente protagonisti.
Ad ogni modo, tornando all’argomento, un filo spinato divide due territori: patriottismo e nazionalismo. Anche assumendo (senza dare nulla per scontato, perchè di dubbi ce ne sono fin troppi) che uno sia cattivo e l’altro buono, il cuore del discorso sembra essere un altro. Come, giustamente, hanno fatto notare molti commentatori: siamo in piena euforia “italiana” senza renderci conto di cosa questo voglia dire. Non abbiamo mai fatto i conti con le nostre brutalità in Grecia, nella ex Jugoslavia ed in Africa. Tutto è stato censurato ed insabbiato, anche grazie (e, forse, a causa) dell’amnistia togliattiana. Wu Ming ricorda che la “Nazione” nasce, romanticamente, dall’intreccio idealtipico di Suolo e Famiglia (anche Engels parla di questo legame ne L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato). Questa è l’idea “conservatrice” della Patria. Ora, è su questo connubio costituente si dovrebbe ragionare. Stato/Patria/Nazione, Suolo e Famiglia sono elementi che si riconfigurano nell’attualità attraverso il Governo neoliberale dell’Emergenza. E’ questa nuova modalità che, da un lato, crea forme sociali di Comunità-Territorio (progressiste, come in Val di Susa; reazionarie, come la Lega Nord) che sostituiscono i legami Suolo-Famiglia e dall’altra genera una sorta di neo-nazionalismo identitario e poco incline alla riflessione. Basta una Bandiera per sentirsi parte di qualcosa, nel bene o nel male.

Di seguito Il Leone del Deserto, film diretto da Moustapha Akkad con Anthony Quinn censurato in Italia nel 1982 perché, secondo l’allora Primo Ministro Giulio Andreotti, “danneggia l’onore dell’esercito“.

Il “capo”: alcune note su Garibaldi (L. Canfora)

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Ho dovuto combattere contro il più grande condottiero; mi è riuscito di mettere d’accordo imperatori, re, uno zar, un sultano ed un papa. Ma nessuno sulla faccia della terra mi ha procurato maggiori difficoltà di un manigoldo di italiano, emaciato, pallido, straccione, ma facondo come l’uragano, rovente come un apostolo, furbo come un ladro, sfacciato come un commediante, infaticabile come un innamorato: il suo nome è Giuseppe Mazzini (Metternich)

«Garibaldi era assolutamente privo di saggezza politica: non era né un maestro della letteratura italiana, come Mazzini, né un profondo statista come Cavour; ma come audace capitano di truppe irregolari, capace di ispirare nei suoi rozzi seguaci gli elementi di una fede politica semplice e appassionata, aveva in sé una omerica grandezza» ha scritto lo storico liberale inglese H. A. L. Fisher nel terzo volume della sua History of Europe (1935). Meno riduttivo un altro storico di ispirazione liberale, Benedetto Croce, il quale esalta più volte nei suoi scritti, di Garibaldi e di Mazzini, per lo meno il ruolo di modelli d’azione per le nazioni oppresse: «e ancora ai nostri giorni quei nomi – scrive nel 1928, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915- risuonano nella lontana India e quegli uomini hanno colà discepoli» . Durante la campagna che portò alla cacciata dei Borboni dal «Regno delle due Sicilie», Garibaldi assunse la dittatura (1860). Certamente egli pensava alla dittatura romana: magistratura che comportava i pieni poteri nelle mani di un’unica persona, ma per un limitato numero di mesi, eventualmente rinnovabile. Aveva alle spalle una lunga esperienza politicomilitare, dal Sud America alla Repubblica romana del 1849, in cui ugualmente aveva rivestito ruoli direttivi: anche se Mazzini, assurto per parte sua alla testa di un «triumvirato», gli aveva piazzato sul capo, come superiore, il generale Roselli, al quale Garibaldi disobbedì tutte le volte che gli parve di farlo. Ad un certo punto Garibaldi aveva proposto a Mazzini di dar vita piuttosto ad una guerriglia tra le montagne che non ad una ostinata, e militarmente perdente, difesa di Roma. Se però ci si ostinava ad optare per questa seconda strategia, chiedeva per sé la dittatura. Insomma la dittatura ritorna nei suoi pensieri come appetibile e necessaria forma del potere. Mazzini cercò di tamponare questa impennata e vi riuscì, ma poco dopo la Repubblica andava a rotoli.

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Filosofia giapponese della catastrofe (2). Film, anime e ambiente

Sembra che le visioni terribili e post apocalittiche di Miyazaki (Conan, Nausicaa) e di Kurosawa (il film Sogni, nell’episodio “Fujiama in rosso” – clicca qui per vedere l’inizio) abbiano trovato una concretizzazione parziale. Scenari da guerra atomica e di devastazione, come se davvero si fosse concretizzato il mostro pop più famoso del Giappone, Gozilla, la somma di tutti i disastri dell’immaginario e dell’esperienza giapponese. A Sendai, dopo tsunami, terremoto e radiazioni della vicina centrale, sembra concretizzarsi anche il tema di ragazzi e bambini senza genitori che camminano fra le macerie: nei fumettisti e negli animatori giapponesi è un topos psicologico più che una moda, un archetipo originatosi dalla tragedia di Hiroshima e dai postumi della seconda guerra mondiale. Basti pensare a cartoni animati con cui siamo cresciuti, come l’Uomo Tigre (il protagonista è un orfano che si prende cura di orfani e scappa da una società militarizzata, Tana delle Tigri), Coccinella (l’eroina, orfana, vive cresciuta dai fratelli maggiori), e tanti altri esempi. Il tema viene portato alla sua massima compiutezza con Miyazaki: i suoi protagonisti sono sempre bambini senza genitori, giovani e forti, sani, che parlano con gli animali, rispettano la natura, sono puri, buoni (Lana in Conan, la stessa Nausica), vivono in nome dell’amicizia e dell’amore, valori sconosciuti agli adulti. Gli adulti (quelli della guerra, i tecnocrati, quelli che hanno distrutto il pianeta) sono sempre malvagi, utilitaristi o incapaci di capire (l’adulto, nei capolavori di Miyazaki, è sempre negativo). Conan è orfano, cresce col nonno che gli muore subito, deve riedificare una civiltà un po’ luddista ma a contatto con la terra, lontana da Indastria e dallo sfrutamento dell’uomo sull’uomo, lontano da quella minacciosa ed avanguardistica “energia solare” (parafrasi di quella atomica), nell’isola idilliaca di Hyarbor (un’isola davvero molto simile all’idillio dell’ultimo episodio di Sogni di Kurosawa) dove si è tornati alla terra e si pratica una particolare forma di socialismo. L’ ultimo residuo di quella umanità malvagia ed egoista che ha devastato il pianeta è il dottor Rao: il suo tremendo segreto sta nel fatto che è lui lo scopritore di quella diabolica energia, quell’energia che lui e altri scienziati volevano adoperare a fin di bene ma che ha sconvolto la storia e lo stesso il pianeta. Sarà proprio lui a riscattarsi ed a sacrificarsi, consegnando il futuro a Conan e Lana, novelli Adamo ed Eva. Indastria, l’ultimo residuo della tecnologia e del potere dispostico della civiltà antica anteguerra, sprofonda in mare in seguito ad un grande Terremoto. Manco a farlo a posta, un maremoto (oggi diremmo uno tsunami) colpisce la stessa Hyarbor, ma del resto il tema del cataclisma purificatore lo si respira nel titolo stesso dell’opera da cui è tratta la serie animata, e cioè La Grande onda (A Big Tidal Wave).

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“Progetto Locale”, Alberto Magnaghi. Una recensione…

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Un Progetto sul Territorio
Suggestioni alternative per una lettura di “Progetto Locale”


Nonostante la globalizzazione, la circolazione mondiale delle merci e delle comunicazioni, l’istantaneizzazione della Vita e dei rapporti individuali e commerciali ed il dominio del virtuale e dell’aria, la Terra non è scomparsa. Senza Terra non c’è speranza. I punti di partenza e di arrivo sono sempre ben radicati al suolo. Ci si imbarca su un aereo, si accede ai network virtuali, si attraversano i mari e gli oceani (per turismo o per lavoro), sempre a “partire da” e a “finire con” la terraferma. Porti, aereoporti, stazioni, postazioni internet. Sono proprio questi luoghi “terrestri” dell’incontro e della comunicazione, di imbarco e di sbarco delle cose e degli Esseri umani, che cominciano ad assumere un significato diverso. Sono i crocevia della retorica imperiale, spazi di conflitto tra piani e striature. Come le strade disegnate e realizzate dai romani in Età repubblicana, la striatura del Potere che mostrava ai barbari le vie della presenza e della diffusione della cittadinanza romana e della legge, della civitas e dell’ordine. Oltre il limes della pianificazione stradale poteva esserci solo la foresta, con i suoi sentieri oscuri e la sua barbarie da ordinare, disciplinare e controllare. La retorica del potere, quindi, ha ancora entusiasticamente bisogno della Terra per esprimersi e per costruire un discorso che sia visibile, che sia reale. Lo sguardo e l’udito si perdono senza la materialità della Terra. Per questa ragione i Luoghi diventano, più di ieri, potenziali veicoli di diffusione, organizzazione e controllo di massa. Ci ritroviamo nel ben mezzo di quel conflitto-confronto tra “spazio liscio” e “spazio striato” individuato dalle visioni estatiche di Deleuze e Guattari: “Lo spazio liscio e lo spazio striato – lo spazio nomade e lo spazio sedentario – lo spazio dove si sviluppa la macchina da guerra e lo spazio dove si istituisce l’apparato di Stato non sono della stessa natura. Ma a volte possiamo notare un’opposizione semplice tra i due tipi di spazio. Altre volte dobbiamo rilevare una differenza molto più complessa, per cui i termini successivi delle opposizioni considerate non coincidono del tutto. Altre volte ancora dobbiamo ricordare che i due spazi esistono in realtà solamente per i loro incroci reciproci: lo spazio liscio non cessa di essere tradotto, intersecato in uno spazio striato, lo spazio striato è costantemente trasferito, restituito ad uno spazio liscio.” (Deleuze e Guattari 1980, p. 698). Spazio liscio e spazio striato, quindi, non sono una perfetta dicotomia conflittuale ma due elementi in continua interazione, in equilibrio storico precario che potrebbe risolversi per l’uno o per l’altro a seconda delle circostanze. Siamo pienamente inseriti su questa bilancia che ora sembra essere a favore delle striature, laddove ogni spazialità è descritta da norme e funzionamenti processuali. La striatura, ad ogni modo, cerca sempre di chiudere lo spazio mentre “nel liscio ci si ‘distribuisce’ su uno spazio aperto”. (ivi, p. 706). Bisogna tenere in conto le interazioni.

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Oratoria, retorica, il saper parlare. Analisi del discorso di Marco Antonio


Retorica di filosofiprecari

Il discorso di Marco Antonio, qui reso in versione cinematografica da uno statuario e olimpico Marlon Brando (italiano, qui doppiato dal grande Emilio Cigoli, voce forse più coinvolgente di quella originale), è uno degli esempi più incredibili dell’uso dell’arte oratoria. E’ uno degli esempi più illuminanti di quello che è il vero fine di un discorso: la gestione dell’emotività dell’interlocutore. Shakespeare, anche in questo caso (come nel Mercante di Venezia, ma in tante altre opere) dimostra che a saper convincere un pubblico sono sempre coloro che usano particolari accorgimenti retorici.

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Cos’è il revisionismo

(nella foto, Goebbels e famiglia)

Joseph Goebbels era solito dire: “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. Vi sono innumerevoli definizioni ed esempi su cosa sia il revisionismo. In estrema sintesi, propongo di definire “revisionismo” l’affermare che tutto ciò che è stato fosse:

1) inevitabile
2) il male minore
3) demoniaco
4) provvidenziale
5) non è stato

Uscendo dalle strette maglie dell’assurda dicotomia libero arbitrio vs determinismo, la storia, come la giurispudenza, parte dal presupposto che l’uomo maggiorenne e sano di mente sia sempre in grado di intendere e volere, e che perciò sia responsabile delle sue azioni. Un’altra dicotomia invece si pone, certo più utile della prima: quella fra comprendere e giustificare. Capire sociologicamente o storicamente le cause alla base di un male storico non equivale certo a renderlo inevitabile o moralmente giustificabile. Certo, dopo Auschwitz, abbiamo davvero bisogno di riformulare il nostro concetto di “male”. Hannah Harendt scrive “La banalità del male” proprio che ricordarci che fra questi “mostri” nazisti, fra queste bestie nazifasciste, vi erano silenziosi assensi, omertà, burocrati ed obbedienti marionette, massificati ed ideologizzati, senza un minimo senso critico, o riluttanti ad utilizzarlo. Tecnici dell’indifferenza, fra i quali ottimi padri di famiglia.

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