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In Italia sembra essersi riaperta (dall’inizio degli anni Novanta, a dire il vero) una contesa, a tratti controversa e spesso banalmente pletorica (basti considerare la vasta mole di Documentari e fiction che, di tanto in tanto, ingombrano i palinsesti televisivi), sul “Fascismo”. Utilizziamo le virgolette per astrarre il concetto dal suo significato (storico, politico, filosofico…), per rendere la parola piuttosto un significante di qualcos’altro, senza rimanere legati a qualche immagine particolare che spesso si ritrova nei libri (un manganello, il volto crucciato del Duce, il saluto romano, il fascio littorio…). In seconda battuta, quasi per rispettare una certa ritualità, si discute anche sulla ripresa dell’antifascismo da una parte come elemento di memoria storica e, dall’altra, come condensatore di un sempre auspicato “ricompattamento politico”. Si parla, quindi, di “Alleanza democratica” per battere le Destre, richiamandosi al Comitato di Liberazione Nazionale, alla Costituente e quant’altro. Più che parlare di antifascismo si dovrebbe cercare un lessico nuovo, dovrebbero sperimentarsi delle “vie di fuga” dalla realtà, una modalità di lettura e di approccio all’attualità capace di farci fuoriuscire anche dall’avvitamento teorico a cui l’antifascismo, spesso, condanna. Si tratta di ri-elaborare il presente per trovarne il gran rimosso. In tutto questo affannoso confrontarsi l’errore sarebbe quello di rendere il presente un’orma sulla sabbia, cercando di indossare le stesse scarpe utilizzate nel passato. Le scarpe, come tutti sanno, passano di moda o, comunque, si deteriorano con il passare del tempo. Meglio buttarle vie e comprarne di nuove.
Veniamo al dunque. Pensando ai “fascismi”, vecchi e nuovi che siano, si perde spesso di vista un elemento di primaria importanza che ne condiziona, a torto o a ragione, la lettura politica e l’interpretazione storica: la continuità. La continuità descrive e reitera un percorso da seguire. È una melodia, a tratti rassicurante, che salva dal “panico” delle cose nuove, delle immagini violente. La continuità è una cartina di tornasole che permette di distinguere, di dividere, di associare, di paragonare. Per queste ragioni (e per altre ancora) sembra che, per parlare di certe cose, non si possa fare a meno di citare qualcuno, di utilizzare una bibliografia ed un apparato critico di note e noterelle che, a volte, paiono indispensabili. Che cosa sono, spesso, le note se non un ponte sul passato per ottenere una legittimazione del presente? È un po’ la condanna della storiografia, quella che permette la “conservazione”. È la cultura accademica che si fa politica, si fa, appunto, continuità e diventa cultura sic et simpliciter. La continuità è legittimazione, è forza universitaria, è paradigma veritativo. Per stare a questo gioco, per svolgere adeguatamente il nostro ruolo, ci limitiamo solo a citare Antonio Gramsci, dai “Quaderni del Carcere”:
Come è possibile pensare il presente e un ben determinato presente con un pensiero elaborato per problemi del passato spesso ben remoto e sorpassato? Se ciò avviene, significa che si è “anacronistici” nel proprio tempo che si è dei fossili e non esseri modernamente viventi.
In questo modo proviamo ad incrinare la “condanna” della continuità.
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