Ambiente ed Economia, tra ragioni economiche e biopolitica. Intervista ad Ottavio Marzocca.

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Filosofi Precari intervista Ottavio Marzocca che anticipa i temi della lectio magistralis tenuta al Festival della Filosofia 2011 (introducendo alcune tematiche trattate nel suo ultimo libro Il governo dell’ethos. La produzione politica dell’agire economico).

Il riduzionismo razionalistico in economia. Recensione a “Etica ed economia” di Amartya Sen

Lectio, Dino Valls

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Riducendo tutte le diverse virtù a quest’unica specie di proprietà, Epicuro si abbandonava ad una tendenza che è naturale in tutti gli uomini, ma che specialmente i filosofi tendono a coltivare con particolare godimento, quale grande mezzo per mostrare la propria abilità, la tendenza cioè a far risalire tutti i fenomeni al minor numero possibile di principi.
(Adam Smith, 1790, trad. di S. Maddaloni)

Smontare i dogmi della razionalità economica moderna è l’obiettivo di questo opuscolo di Amrtya Sen, originariamente partorito in seguito ad un ciclo di conferenze tenute nel 1986 a Berkeley. In particolare, la razionalità intesa come “massimizzazione dell’interesse personale”. Nel saggio, il premio nobel all’economia dimostra che è avvenuto un distacco netto fra etica ed economia, e mostra il danno che l’ipotesi di un comportamento mosso dall’interesse personale ha recato a questa “pseudo-scienza”.

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15 ottobre 2011, Indignados a Roma – post Manifestazione

Il 15_Ottobre_2011 avrà un seguito. Lo sta già avendo (come è successo, recentemente, al 14_Dicembre_2010). Non solo nella gioiosa e profetica (“ve l’avevamo detto”) vis editoriale (che già sta esplodendo attraversando ogni tipo di supporto tenico) e partitica (è stato aperto il buco nero dove far cadere ogni opposizione). Il Movimento (?) stesso sarà portato a parlarne. Dovrà discutere perchè, ancora una volta, si pone chiaramente il tema delle modalità di partecipazione. Di “postura” all’interno di un percorso politico. La questione non è banalmente il conflitto e le sue molteplici modalità di espressione. Il punto non è il “che fare” ma il “come stare” o, meglio, il “come Esistere” dentro una mobilitazione di Singolarità, di Corpi e di Emozioni. Come Esistere perchè Esistere significa farsi Comune. Non c’è comunità (commons) senza la condivisione di alcune modalità di esistenza. Il nodo è esclusivamente questo. E’ squisitamente politico (ovvero quando la teoria si fa Vita). Non è tutto un indistinto minestrone di esperienze ma esiste chiaramente un dentro ed un fuori. Deve esistere. Non è un dispositivo di esclusione, come generalmente lo sono (o lo diventano) tutte le dicotomie. E’ una modalità di inclusione, una questione di confine. Una scelta. Wu Ming sta già dando spazio a questo dibattito che sarà molto vasto (e si perderà comunque nei mille rivoli della rete). Si scopre che già nelle fasi organizzative della Manifestazione queste modalità di espressione molto differenti erano già venute alla luce. Nulla di nuovo, quindi. Anzi si evidenzia l’impossibilità, a tratti apocalittica, di fare a meno di queste manifestazioni di violenza perchè co-esistenti alla protesta.

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15 ottobre 2011, Indignados a Roma – pre Manifestazione

A distanza di qualche ora dall’inizio della Manifestazione che porterà gli “Indignados” italiani da Piazza della Repubblica a Piazza San Giovanni passeggiamo sul web per raccogliere posizionamenti ed osservazioni.

Il Fatto quotidiano scrive sulla possibilità che questo sabato di mobilitazione possa risolversi in “un nuovo G8” (ricordando implicitamente Genova 2001) anche a causa delle dimensioni estremamente disarticolate delle realtà in campo, senza organizzazione e “direzione” politica (o progettuale). Non a caso si fa riferimento direttamente a Francesco Caruso (parlamentare di Rifondazione Comunista nei recenti anni del “disgelo” dell’antagonismo), che racconta la sua preoccupazione “perché i giovani non hanno un canale per esprimere la loro rabbia […] prima c’erano i partiti e i sindacati che oggi sono stati sostituiti da questa protesta acefala, senza alcuna centrale organizzativa. E la disarticolazione potrebbe generare scontri”. Insomma, Il Fatto quotidiano mette al centro della propria analisi la paura che tutto possa risolversi nella violenza temendo “blitz di provocatori” che potrebbero mettere in discussione la piattaforma sostanzialmente pacifica di questo 15 ottobre 2011. Ed a questo proposito si chiedono lumi anche a Paolo Ferrero, Segretario di Rifondazione Comunista. Perchè quando si parla di violenza, in atto o in potenza, è quasi ovvio dialogare con la sinistra “estrema”. E gli estremisti così rispondono: “Questa storia di cosiddetti ambienti del Viminale che fanno circolare voci su infiltrati e disordini ogni volta che c’è una manifestazione, deve finire, siamo al boicottaggio. Stiamo lavorando pancia a terra per la riuscita, le nostre strutture di partito sono a completa disposizione del movimento che si batte contro il liberismo selvaggio, quello pornografico di Berlusconi e quello in giacca e cravatta dei Montezemolo, Della Valle e Profumo”. La morale del Fatto quotidiano è fin troppo semplice: “sfilate a braccia alzate”, per evitare tutto questo (si citano i commenti di qualche utente dei social network che hanno organizzato la manifestazione).

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FestivalStoria 2011, Torino. Risorgimenti, Ricostruzioni, Rinascite.

E’ in fase di conclusione il FestivalStoria, giunto alla VII Edizione. Come il Festival della Filosofia, un altro appuntamento determinante per la costruzione di un pensiero critico italiano pienamente consapevole delle proprie potenzialità e dei propri sviluppi.
Questi alcuni cenni della prolusione di Angelo D’Orsi. Al riguardo ci viene solo un dubbio. Le profonde contraddizioni del nostro Risorgimento si possono davvero ridurre “banalmente” ad una questione di “Rivoluzione passiva” o, forse, c’è qualcosa di molto più evidente che ci impedisce di fare un ragionamento realmente fuori ogni retorica ideologica e necessità “patriottiche”? L’incapacità di risolvere il problema della diffusione democratica del potere non basta a squalificare il Risorgimento come un movimento di esclusiva colonizzazione?

Quel nostro Risorgimento, dunque, fu cosa importante, benché “rivoluzione passiva” (è ancora Gramsci, che riprende il concetto di un altro grande partenopeo, Vincenzo Cuoco), e incapace di mobilitare le masse, rendendole protagoniste, pur nelle diatribe vivaci, spesso trasformate in forte contrasto, tra moderati e democratici, monarchici e repubblicani, cattolici (ma anche protestanti) e laici (e anche di questo parleremo nei prossimi giorni), malgrado tutto ciò, quel moto ha rappresentato il momento fondativo dell’Italia con le sue pecche, i suoi limiti, certo, ma anche con gli eroismi generosi di quanti, magari suggestionati da Dante e Machiavelli, da Petrarca e Foscolo, immolarono la loro giovinezza. Questa Italia, come quella del “Nuovo Risorgimento”, la Resistenza (a cui non abbiamo, forse colpevolmente, dedicato un apposito incontro), è quella che ci sta a cuore, e non è un caso che nell’età risorgimentale, o immediatamente successiva, si studiò con particolare cura, e vorrei dire accanimento, il Rinascimento: erano due momenti di rinascenza (e anche qui abbiamo un approfondimento specifico, particolarmente originale), che seguivano a fasi di prostrazione della nazione.
Ricostruire dalle macerie, risorgere dalla malattia, rinascere dalla morte del corpo politico: “come può sorgere o rinnovarsi una nazione”. Così recita il sottotitolo dell’edizione, che reca in fondo un augurio sotteso all’Italia, in questa sua fase storica che non esito a definire precatastrofica. Ma la catastrofe può e deve (così insegna la tragedia classica greca), essere l’inizio della rinascita, sia pure a duro prezzo. Un augurio sarebbe necessario anche per la nostra Europa, che, sempre più pare dimostrarsi una unione di banchieri e non di popoli; qui, doverosamente, considerata la sede, ma anche per il suo significato paradigmatico, affronteremo, oggi stesso, con un diplomatico, Jürgen Bubendey, e uno storico, Gian Mario Bravo, il tema del rapidissimo (all’epoca si disse troppo rapido, esempio di artificialismo politico estremo) passaggio dalle due Germanie alla Repubblica Federale unita. Si è trattato di un buon affare per tutti? Sono stati più i vantaggi che gli svantaggi, si direbbe, a giudicare dalla orgogliosa tenuta della nuova Germania nella crisi del Continente, e dalla sua rigogliosa ripresa economica. Ma è tutt’oro quel che riluce? Domani, sempre qui, con un altro studioso tedesco, Karl Schloegel, forse potremo anche cogliere il risvolto della medaglia. Ma guarderemo più largamente al Vecchio Continente, ai suoi incessanti sforzi di costruzione e decostruzione, passati attraverso guerre mondiali e guerre locali, che in certi suoi angoli continuano anche mentre noi siamo qui a parlarne.
E, tornando all’Europa, non sarà che sacri egoismi stanno avendo la meglio sui generosi disegni unitari dei padri fondatori (e persino dei lontanissimi progenitori, come quel Carlo Magno, di cui parleremo a Savigliano domenica, con Giuseppe Sergi e Germana Gandino)?

Persona, Territorio e Comunità

Persona, Territorio e Comunità dal punto di vista neoliberale
Per una grammatica del Potere
(2010)

1.   “Crisi” come paradigma di Governo

Il discorso neo-liberale ha definitivamente dispiegato il proprio mantra (dopo una lunga fase di transizione che dura, più o meno, dagli anni Ottanta del secolo scorso). Si tratta di un ritornello costituente che parla ossessivamente di responsabilità, dono e solidarietà. Niente di nuovo sul fronte del Pensiero occidentale, se non fosse per la critica profonda e distruttiva alla “vecchia ideologia” del Welfare State, descritto come un modello degenerativo, un mix implosivo e socialmente pericoloso di assistenzialismo, paternalismo e immobilismo sociale.

D’altronde un certo approccio di “etica della responsabilità” del discorso liberale si potrebbe far risalire alla Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith. Si pensi, ad esempio, alla descrizione della “Simpatia” quale possibilità di proiettare la coscienza morale dei singoli individui in una dimensione pienamente “relazionale”, non “innata” e fondamentalmente soggettiva. Attraverso questa capacità simpatetica, infatti, si riuscirebbe a comprendere l’altro, ricevendone apprezzamento ed approvazione “tramite un immaginario scambio di posto con chi soffre” (Smith 1995, 82). Alla base di questo approccio ci sarebbe un “sentimento di partecipazione” che richiamerebbe la radice greca di συμπάθεια, nel significato di “patire insieme” (in relazione ad ogni tipo di sentimento). “La simpatia, perciò, – scrive Smith – non sorge tanto dalla vista della passione, quanto dalla vista della situazione che la suscita” (ivi, 86). È questa l’armonia della società liberale “classica”, il tratto costitutivo dell’individuo moderno successivamente inserito nella Ricchezza delle Nazioni (ovvero Ben-Essere delle Nazioni): “affinché possa esserci qualche corrispondenza di sentimenti tra lo spettatore e la persona principalmente interessata, lo spettatore deve, prima di tutto, tentare, per quanto può, di mettersi nella situazione dell’altro, e ricondurre a sé anche la più piccola occasione di disagio in cui può imbattersi la persona che soffre” (ivi, 102).

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Il tempo come progresso: tra παιδεία e moderno/2 La teoria storiografica

È nella civiltà greca che si crea la congerie di termini e di concetti che prepara alla critica storica, dal primo stabilirsi del problema della verità fino alla questione della tecnica affrontata da Heidegger. Un importante avvio al problema della verità fu dato proprio dall’opera di Heidegger Essere e tempo (1927), in cui il filosofo tedesco accoglieva l’interpretazione di Άλήθεια come non-occultezza, disvelatezza e vedendo in  Άλήθεια il fenomeno originario della verità.

Una corretta definizione strumentale della tecnica la identifica come un mezzo in vista di un fine, ma questa sua strumentalità non dice che cosa sia l’essenza della tecnica, poiché la constatazione non svela necessariamente ciò che le sta davanti nella sua essenza. Sennonché τέχνη non è solo il fare manuale ma si eleva soprattutto verso la produzione e la ποίησις, per cui la tecnica dispiega il suo essere nell’ambito nel quale accade  il disvelamento dell’ἀλήθεια. Ma appunto la tecnica moderna, faceva notare Heidegger, a differenza della τέχνη, è una provocazione e l’essenza della tecnica è impositiva e non è più sufficiente una definizione strumentale della τέχνη. La tecnica non è il pericolo ma il pericolo è nell’essenza della tecnica. L’influenza di Heidegger fu notevole e la sua proposta fu seguita quasi da tutti, ma Detienne si pone in polemica con questo filone della ricerca affrontando il trapasso dal μῦθος al λόγος.

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Comune. Oltre il privato ed il pubblico. Recensione del testo di Hardt e Negri

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Ogni aspetto della produzione sociale (l’archeologico “comando” capitalistico, inteso in senso economico-sociale) sarebbe stato sussunto dal Capitale finanziario che, per Antonio Negri (video-intervista sotto), organizzarebbe (in maniera consapevole e come “valore aggiunto” alla valorizzazione) anche la cooperazione e le opportunità del Comune. Oppurtunità che la Moltitudine dovrebbe cogliere costruendo scientificamente la propria autonomia attraverso l’Esodo dai meccanismi dell’appropriazione capitalistica. Esodo come “lotta di classe” e riappropriazione dei mezzi della produzione/riproduzione della Vita utilizzando il lavoro biopolitico come eccedenza sistematica ai limiti del comando del Capitale.
Comune. Oltre il privato ed il pubblico“, per essere molto sintetici, sembra essere un tentativo concreto di pensare l’autonomia politica e sociale della Moltitudine. Dopo gli anni Settanta, dai ragionamenti sull’autonomia operaia (fondamentale, su questo argomento, il libro di Mario TrontiOperai e Capitale“) qualcuno prova a pensare l’autonomia del Comune. Dopo Impero (2002, Rizzoli) e Moltitudine (2004, Rizzoli), l’ultima parte della trilogia hardtnegriana, a nostro avviso, delude le aspettative anche se l’impianto teorico che mette in gioco è certamente di valore. C’è comunque uno scarto evidente tra Moltitudine (il penultimo libro) e Comune. Circa sei anni di incubazione hanno sicuramente prodotto, negli autori, degli investimenti interessanti in termini di realtà e conoscenza delle dinamiche sociali. Ad ogni modo Comune non è, banalmente, il terzo Capitolo di un percorso già pensato ma si presenta come una ripresa ed una radicale rielaborazione dell’intera impalcatura analitica. Molti commentatori hanno descritto la sequenza di Impero-Moltitudine-Comune quasi come un passaggio “dialettico” che parte da un’analisi generale del comando imperiale (Impero), procede verso l’individuazione di una soggettività politica capace dell’alternativa attraverso un’esegesi della composizione dell’antagonismo (Moltitudine) e, infine, si conclude con la creazione di un’alternativa politica vera e propria che prenda spunto dall’espropriazione della produzione immateriale (Comune). Probabilmente questa lettura non è corretta. Abbiamo la sensazione che “Comune” ecceda la traiettoria di Impero-Moltitudine e si presenti come un compendio autonomo. Per questa ragione lo si dovrebbe leggere senza “l’ombra” (decisamente ingombrante) dei fratelli maggiori.

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Filosofia del fanatismo #2

Quello che c’è di interessante negli Eventi sono le conseguenze. In Norvegia qualcosa è accaduto e noi, come spesso accade, l’abbiamo registrato. Tra i frequentatori di questo spazio (in modo particolare su facebook) si è aperto un bel dibattito, anche con elementi di elaborazione molto interessanti. Ognuno ha avuto modo di esprimere le proprie opinioni. Abbiamo anche riportato degli aggiornamenti, con gli articoli di Magdi “Cristiano” Allam, Belpietro (Libero) e Feltri (Il Giornale).
Oggi, cercando altre notizie su quanto è accaduto, mi sono interessato a due interventi in modo particolare: quello di Fiamma Nirenstein (sempre su Il Giornale) e l’intervista al leghista Borghezio raccolta da Radio24 (inserita su RepubblicaTV). Quello che c’è di interessante in questa “reazione” (non intesa in senso politico, naturalmente) sta nell’affermazione delle proprie certezze e nella costruzione di un fattore ulteriore di politica. Per questo credo che si debbano distinguere nettamente i “fanatici” (come il fanatico di Oslo) da chi cerca di creare forme di Governo delle cose e degli Esseri umani ad uso e consumo di un certo modello ideologico. Perchè il fanatismo è l’Evento ma il Governo si presenta come quotidianità e ci organizza in maniera molto più silenzione e subdola.

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Filosofia del fanatismo. Amos Oz, la coerenza, la follia, la strage di Utoya

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Si chiama Anders Behring Breivik, ha 32 anni, ed è l’autore del massacro della Norvegia. Non è un ceceno, un palestinese, un kamikaze, un seguace di Maometto. E’ alto e biondo, si professa conservatore e cristiano. Soprattutto: non è un pazzo. E’ certo ossessionato dall’idea che l’Islam conquisti la debole e inetta vecchia Europa con le sue patetiche e arrendevoli forme di multiculturalismo e di “politicamente-corretto”. Ma non è un pazzo. Ho anche visionato il suo video-manifesto su youtube. Niente di diverso da altri manifesti al confine fra la sindrome di accerchiamento e di complotto, l’antimarxismo e l’antislamismo di estrema destra (antislamismo che tende spesso a diventare antisemitismo). Ma Andres ha fatto un evidente salto di qualità nel superamento dell’idea nella realtà. Da un punto di vista formale, è un Magdi Allam “estremista”, che ha perso il contatto con la realtà ma che è diventato estremamente coerente con il “principio”: il principio primo è che i laburisti norvegesi, la sinistra o che altro stanno rendendo la Norvegia e l’Europa un territorio di conquista delle orde islamiche. Il secondo, è che la politica partica è un mezzo vecchio e inutile: per svegliare le masse norvegesi dai loro buonismi occorre il terrore. Per qualcuno, per qualche gruppo fanatico dell’estrema destra nordica (e non solo), Anders potrebbe presto diventare un eroe. Nel suo diario, all’idea del massacro, programmato in due interi anni, scrive: “Fallimenti logistici: devo ripensare la questione del silenziatore, l’importatore che avevo contattato ha cancellato tutti gli ordini privati. Non vorrei surriscaldare l’arma, forse devo pensare ad una baionetta. ‘Marxisti infilzati’ diventerebbe un marchio”.

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Dal Ciclo al Kairos. La Storia si rinnova… Prolegomeni per una ricerca sui Commons

Osservazioni a margine della lettura di Toni Negri sull’autostrada, ovvero: tirannia del tempo e momento utopico, da Wu Ming.

Stiamo evidentemente attraversando una fase “mutante”, nel senso che il presente sta subendo delle mutazioni che lo renderanno sicuramente “altro”. Questa fase di trasformazione sembra non essere un banale momento di crisi, intesa come distruzione del presente per anticipare il futuro catastrofico. Sembra di essere immersi in un kairòs (καιρός) costituente. Un evento che si traduce sulla Terra innanzitutto tramite una nuova epoca di enclosures, di privatizzazioni dell’immaginario collettivo, dello spazio politico e dello spazio sociale.
Nella tradizione marxista , a cui qui possiamo solamente fare cenno, la crisi era comunemente intesa come un elemento proprio dello sviluppo del ciclo capitalistico, come il progetto politico che andava a riqualificare il rapporto tra Capitale e Lavoro aprendo nuove possibilità di profitto ed accumulazione. Provocava quasi una attualizzazione del futuro, una sua presentificazione, per evitare la catastrofe annunciata ed abbondantemente analizzata. La caratteristica peculiare della relazione tra Capitale e Lavoro, la sua metafora economica e politica, sarebbe proprio quella del ciclo, che andrebbe periodizzandosi per innovarsi nei momenti di crisi. La forma che assume lo sviluppo, il progresso tecnico-scientifico-economico, sarebbe, quindi, il conflitto tra l’esistenza del movimento operaio dentro il piano capitalistico e la contraddittoria necessità del Capitale di associarsi ed organizzarsi per reprimere o canalizzare questa presenza. La crisi, quindi, intesa come parte integrante del ciclo, è il momento dell’andare oltre, dell’etica del sacrificio. Ma il ciclo è sempre un ciclo storico, una successione ordinata di avvenimenti. È storia. Nella tradizione classica, scrive Antonio Negri, “il tempo è l’immagine mobile dell’immobilità dell’essere. In questa tradizione il tempo è dunque una modalità estrinseca: esso si presenta come illusione o come misura, mai come evento, mai come il questo qui”.

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Pierre Bourdieu: la distinzione. Per una decostruzione sociale e psicologica del gusto e degli intellettuali

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Ma soprattutto, sono sempre stato grato a Pascal, almeno come lo leggo io, della sua sollecitudine, lontana da ogni ingenuità populista, per “la gente comune” e le “sane opinioni del popolo”, come pure della volontà, da tale sollecitudine inseparabile, di cercare sempre la “ragione degli effetti”, la ragion d’essere delle condotte umane in apparenza più gratuite e ridicole – come “correr tutto il giorno dietro una lepre” – invece di indignarsi o di prendere gioco, a guisa dei “mezzo addottrinati”, sempre pronti a “fare i filosofi” e a tentare di stupire con i loro stupori fuori misura circa la vanità delle opinioni di senso comune. (Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane)

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