E’ in fase di conclusione il FestivalStoria, giunto alla VII Edizione. Come il Festival della Filosofia, un altro appuntamento determinante per la costruzione di un pensiero critico italiano pienamente consapevole delle proprie potenzialità e dei propri sviluppi.
Questi alcuni cenni della prolusione di Angelo D’Orsi. Al riguardo ci viene solo un dubbio. Le profonde contraddizioni del nostro Risorgimento si possono davvero ridurre “banalmente” ad una questione di “Rivoluzione passiva” o, forse, c’è qualcosa di molto più evidente che ci impedisce di fare un ragionamento realmente fuori ogni retorica ideologica e necessità “patriottiche”? L’incapacità di risolvere il problema della diffusione democratica del potere non basta a squalificare il Risorgimento come un movimento di esclusiva colonizzazione?
Quel nostro Risorgimento, dunque, fu cosa importante, benché “rivoluzione passiva” (è ancora Gramsci, che riprende il concetto di un altro grande partenopeo, Vincenzo Cuoco), e incapace di mobilitare le masse, rendendole protagoniste, pur nelle diatribe vivaci, spesso trasformate in forte contrasto, tra moderati e democratici, monarchici e repubblicani, cattolici (ma anche protestanti) e laici (e anche di questo parleremo nei prossimi giorni), malgrado tutto ciò, quel moto ha rappresentato il momento fondativo dell’Italia con le sue pecche, i suoi limiti, certo, ma anche con gli eroismi generosi di quanti, magari suggestionati da Dante e Machiavelli, da Petrarca e Foscolo, immolarono la loro giovinezza. Questa Italia, come quella del “Nuovo Risorgimento”, la Resistenza (a cui non abbiamo, forse colpevolmente, dedicato un apposito incontro), è quella che ci sta a cuore, e non è un caso che nell’età risorgimentale, o immediatamente successiva, si studiò con particolare cura, e vorrei dire accanimento, il Rinascimento: erano due momenti di rinascenza (e anche qui abbiamo un approfondimento specifico, particolarmente originale), che seguivano a fasi di prostrazione della nazione.
Ricostruire dalle macerie, risorgere dalla malattia, rinascere dalla morte del corpo politico: “come può sorgere o rinnovarsi una nazione”. Così recita il sottotitolo dell’edizione, che reca in fondo un augurio sotteso all’Italia, in questa sua fase storica che non esito a definire precatastrofica. Ma la catastrofe può e deve (così insegna la tragedia classica greca), essere l’inizio della rinascita, sia pure a duro prezzo. Un augurio sarebbe necessario anche per la nostra Europa, che, sempre più pare dimostrarsi una unione di banchieri e non di popoli; qui, doverosamente, considerata la sede, ma anche per il suo significato paradigmatico, affronteremo, oggi stesso, con un diplomatico, Jürgen Bubendey, e uno storico, Gian Mario Bravo, il tema del rapidissimo (all’epoca si disse troppo rapido, esempio di artificialismo politico estremo) passaggio dalle due Germanie alla Repubblica Federale unita. Si è trattato di un buon affare per tutti? Sono stati più i vantaggi che gli svantaggi, si direbbe, a giudicare dalla orgogliosa tenuta della nuova Germania nella crisi del Continente, e dalla sua rigogliosa ripresa economica. Ma è tutt’oro quel che riluce? Domani, sempre qui, con un altro studioso tedesco, Karl Schloegel, forse potremo anche cogliere il risvolto della medaglia. Ma guarderemo più largamente al Vecchio Continente, ai suoi incessanti sforzi di costruzione e decostruzione, passati attraverso guerre mondiali e guerre locali, che in certi suoi angoli continuano anche mentre noi siamo qui a parlarne.
E, tornando all’Europa, non sarà che sacri egoismi stanno avendo la meglio sui generosi disegni unitari dei padri fondatori (e persino dei lontanissimi progenitori, come quel Carlo Magno, di cui parleremo a Savigliano domenica, con Giuseppe Sergi e Germana Gandino)?