Sigmund Freud, Psicologia della vita amorosa. Una recensione di Maria Chiara Pierbattista

Haynes King, Jealousy and Flirtation (1874)

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Nel 1912 Freud affermava: “Non possiamo sottrarci alla conclusione che oggi il comportamento amoroso dell’uomo, del nostro mondo civile, è improntato a impotenza psichica. Solo in una minoranza delle persone colte la corrente di tenerezza e quella sensuale si armonizzano reciprocamente; quasi sempre, nella attività sessuale, l’uomo si sente limitato dal rispetto per la donna e sviluppa la sua piena potenza solo quando ha dinanzi a sé un oggetto sessuale degradato.” Hanno un secolo i paradigmi freudiani sull’eros e se si volesse dare un lettura in chiave moderna lo si potrebbe fare solo constatando la maggiore propensione di oggi a mostrare ed enfatizzare la sessualità,  la parte puramente estetica e non psichica, s’intende. I contributi alla psicologia amorosa di Freud rappresentano, per esperti in materia e non, un’analisi precisa e profonda dei meccanismi mentali che influenzano le pratiche amorose. Interessante è il modo in cui i contributi ci portano a riflettere, ad esempio, sulle modalità di scelta del proprio oggetto del desiderio, apparentemente casuali, influenzate sempre da fattori riconoscibili quali “il terzo danneggiato”(un rivale o comunque una figura del suo stesso sesso che in qualche modo sia legata alla donna bramata) e “la dubbia moralità”della donna stessa. Sono dispositivi che si innescano nella psiche di ognuno ogni volta che ci si approccia ad una relazione. Se volessimo ridurre questi teoremi ad un concetto più spicciolo e riscontrabile nel quotidiano però, non è infondo più stimolante possedere qualcuno/qualcosa dopo averlo bramato ardentemente ed aver superato qualche ostacolo? L’eccessiva sicurezza non finisce per assopire i rapporti nella loro ripetitiva e noiosa normalità?
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Gould contro il disegno intelligente

Le tesi di Darwin crearono scompiglio fin da subito. Uno degli argomenti più usati contro le sue teorie, anche da quei settori accademici naturalistici più ostili al cambiamento di paradigma (es, Nathaniel Shaler), era l’ “argomento probabilistico” (molto usato dai detrattori anche ora: alcuni autori del disegno intelligente cercano di stabilire, calcolatrice alla mano, congetture sulle remotissime probabilità dell’evoluzione umana). In sintesi, si afferma che l’assoluta improbabilità dell’evoluzione di quello strano animale chiamato uomo debba indicare necessariamente un qualche disegno divino che lo abbia voluto. La confutazione “meglio scritta” che personalmente abbia mai incontrato di questo abbozzo di principio antropico l’ho trovata in alcune pagine di Stephen Jay Gould (“Risplendi grande lucciola”), nelle quali il grande naturalista cita una lettera di un darwinista ottocentesco, William James:

Non sapremo mai quali fini non hanno potuto realizzarsi, poiché i morti non possono parlare. Il testimone superstite trarrebbe in ogni caso, qualunque cosa egli fosse, la conclusione che l’universo fu progettato in vista del successo suo e dei suoi simili, visto che così sono andate le cose. Ma il tuo ragionamento che ci sono milioni di probabilità contro una che le cose non siano andate così per caso non si applica. Esso si applicherebbe se il testimone fosse preesistito in una forma indipendente e avesse elaborato il suo progetto, e poi il mondo lo avesse realizzato. Una tale coincidenza dimostrerebbe che il mondo ha una mente affine alla sua. Ma una coincidenza del genere non c’è stata. Il mondo si è formato una volta sola, il testimone è arrivato dopo il fatto e si limita semplicemente ad approvare. Là dove è in discussione un solo fatto, non c’è alcun rapporto di “probabilità”.

Ecco il commento di Gould a queste parole:

I ragionamenti vecchi e infondati non muoiono mai (e neppure scompaiono a poco a poco), specialmente quando corrispondono alle nostre speranze. L’erroneo ragionamento della probabilità di Shaler è ancora molto in voga fra coloro che desiderano trovare una giustificazione cosmica per l’importanza dell’uomo. E la replica di James rimane oggi altrettanto brillante e valida di quando egli la formulò la prima volta nella lettera a Shaler. Noi potremmo salvarci da molte assurdità correnti se ogni devoto del principio antropico (nella sua versione forte), se ogni tifoso della Noosfera di Teilhard de Chardin, leggesse e capisse la lettera di James a Shaler.

Darwin e l’incendio nella fabbrica di stoffe, di Stephen J. Gould

Herbert Spencer, e alcune operaie dei primi anni del Novecento

Cosa ha a che fare la terribile sorte delle 146 operaie morte nel 1911 a New York con una disputa accademica sul darwinismo? Ce lo racconta Stephen J. Gould, toccando temi come il paradigma del darwinismo sociale (o meglio, “spencerismo” sociale), e cioè l’estensione sistematica delle leggi dell’evoluzione biologica all’ “evoluzione” culturale. Secondo Gould, l’accettazione acritica di tale paradigma ebbe un ruolo teorico e pratico fondamentale nel ritardo con cui vennero approvate le leggi di tutela sociale dei lavoratori e delle lavoratrici nel mondo. Il seguente articolo è apparso, inedito, in Micromega (n. 3, maggio 2008), tradotto da Libero Sosio.

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Christopher Wren, il principale architetto della ricostruzione di Londra dopo il grande incendio del 1666, è sepolto sotto il pavimento dell’edificio più famoso da lui ricostruito, la cattedrale di St. Paul. La chiesa non contiene un suo elaborato monumento sepolcrale, ma solo una semplice tomba nella cripta. Su una lastra di marmo, sul pavimento, si legge il famoso epitaffio scritto da suo figlio: «Si monumentum requiris, circumspice» (Se cerchi il suo monumento, guardati intorno). C’è forse un po’ di magniloquenza, ma io non ho mai letto una testimonianza più bella dell’importanza centrale – si potrebbe dire della sacralità – dei luoghi autentici, rispetto alle repliche, ai simboli o ad altre forme di somiglianza vicaria. Una strana coincidenza della mia vita professionale fece tornare il mio pensiero a questo famosissimo epitaffio quando, per la seconda volta, mi fu assegnato un ufficio in un luogo ricco di storia: un luogo in cui si sentiva ancora la presenza di fantasmi di eventi del passato che avevano un’importanza centrale per la nostra cultura comune e che al tempo stesso erano particolarmente significativi per la mia vita e le mie scelte. Nel 1971 trascorsi un semestre come ricercatore ospite all’Università di Oxford. Ricevetti un piccolo spazio in un ufficio al piano superiore del museo dell’università. Mentre sistemavo i miei libri, le mie chiocciole fossili e il mio microscopio, notai una placca metallica affissa alla parete, dalla quale appresi che quello spazio riconfigurato di scaffali e cubicoli era stato, in origine, il luogo del confronto pubblico più famoso all’inizio della storia del darwinismo. In quello stesso luogo, nel 1860, pochi mesi dopo la pubblicazione dell’Origine delle specie di Darwin, Thomas Henry Huxley aveva estratto la sua spada retorica, infilzando clamorosamente il campione astuto ma superficiale del creazionismo: il vescovo Wilberforce, noto anche come il «saponoso Sam».

Come nella maggior parte delle leggende, la versione ufficiale si presenta come un semplice schizzo sommario di contro a una verità molto più complessa e sfaccettata. Wilberforce e Huxley diedero vita a uno spettacolo splendido e in gran parte spontaneo, ma dallo scontro non emerse un chiaro vincitore, e Joseph Hooke, l’altro campione di Darwin, diede al vescovo una risposta molto più efficace, purtroppo dimenticata dalla storia. In proposito si può vedere il mio saggio Chi ha vinto?, pubblicato nel volume Risplendi grande lucciola (1). Non posso dire che la persistente presenza di tali giganti vittoriani abbia accresciuto il mio impegno o migliorato il mio lavoro, ma mi piaceva il senso di continuità che mi veniva garantito da quella felice circostanza. Apprezzai molto anche le implicazioni etimologiche, poiché circostanza significa «stare intorno» (così come il circumspice di Wren significa «guardati intorno»), e io ero proprio là, forse proprio nello stesso punto in cui Huxley aveva detto, secondo la leggenda, che preferiva essere disceso da un scimmia onesta, piuttosto che da un vescovo che distorceva una verità nota per trarne un vantaggio retorico.

Non molto tempo fa, ricevetti un incarico part-time come visiting professor di biologia e ricercatore all’Università di New York. Mi fu assegnato un ufficio al decimo piano del Brown Building a Washington Place, una struttura indefinibile dell’inizio del Novecento oggi piena di laboratori e altri locali con finalità accademiche. Mentre il decano mi guidava in una visita informale conducendomi al mio nuovo alloggio, fece un’osservazione en passant che nelle sue intenzioni doveva essere poco più che una semplice notazione «turistica», ma che produsse in me una scossa elettrica. Sapevo, mi domandò, che nell’edificio aveva avuto luogo il famigerato incendio del 1911 alla Triangle Shirtwaist Company e che il mio ufficio occupava proprio una posizione d’angolo in uno dei piani in cui si era diffuso l’incendio? Addirittura, come scoprii in seguito, proprio vicino alla via di fuga usata da molte lavoranti della fabbrica di bluse per cercare scampo sul tetto. Il decano mi disse anche che ogni anno il 25 marzo, anniversario dell’incendio, l’International Ladies’ Garment Workers Union tiene ancora una cerimonia in quel luogo e depone corone per commemorare le 146 operaie, in gran parte immigrate, perite nell’incendio.
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Paradigma gerarchico – prima parte

Introduzione

Oggi l’idea stessa che il riflettere e il pensare in filosofia possano dare origine a un sistema di pensiero appare quasi anacronistica. Eppure un testo filosofico è comunque l’esito di un percorso di esperienze e riflessioni dove, pur provvisoriamente, vengono organizzati e esposti gli esiti a cui quelle riflessioni sono approdate. Questo testo si occupa di paradigmi. Cosa sono i Paradigmi? Schemi? Strutture a priori? Aperture? Orizzonti? Forse il termine migliore per caratterizzarli è “organizzazione”, anche se l’ambito semantico di questo termine è troppo ampio e impreciso. Del resto, se si dovesse caratterizzare la differenza tra corpo e pensiero, tra spirito e materia, il discorso più appropriato sarebbe proprio centrato su quella vasta area semantica coperta dal termine “organizzazione”. Insensato sarebbe ora cercare una maggior precisione e forse altrettanto insensato sperare di pervenire ad una definizione esplicita.Ogni trattato, ogni teoria ha una visione parziale dell’oggetto teorizzato; Teorizzando si conquista e si perde. Questa conquista e questa perdita assumono un significato profondamente diverso all’interno delle varie concettualità che organizzano i vari paradigmi. All’interno di quel paradigma “vincente”, qui battezzato “gerarchico”, è l’uomo a costruire le teorie e, con esse, la conquista e la perdita, mentre questa semantica risulta del tutto inesprimibile all’interno di un altro paradigma “quello destinale” dove l’attore dell’agire teorico è l’Essere, un termine molto usato da Heidegger e dai filosofi che in qualche modo si richiamano al suo pensiero, che ha però in questo scritto senso molto differente. Del resto l’argomento scelto come strumento e filo conduttore sono le teorie in generale e quelle scientifiche in particolare. Proprio quel tipo di sapere a cui Heidegger non attribuiva neppure lo statuto di aperture di verità. Il nostro vivere e interpretare il mondo, non avviene secondo un unico paradigma ma è indubbio che uno di questi si è costituito come paradigma egemone nell’addivenire della storia biologica e culturale dell’uomo, prefigurando per noi un destino di vissuti dalle teorie. La prima parte si occupa appunto di questo paradigma egemone che, per motivi inerenti al suo funzionamento è stato denominato “paradigma verticale”.

Vengono analizzate successivamente tre forme paradigmatiche: quella gerarchica dell’agire-patire, del soggetto-oggetto, (paradigma vincente), quella circolare e quella destinale. All’interno di ognuna assumono forma, connessioni e significati diversi, concetti quali verità, architettura, complesso, ecc. Nessuno di questi paradigmi è presentato come superiore agli altri: è però evidente la loro diversa efficacia e la diversa maniera di mappare il nostro aggirarci nel mondo, come è altrettanto evidente che, i gli altri paradigmi, agevolando un suo parziale superamento, consentono una diversa apertura verso il mondo. Il nostro accesso al mondo avviene secondo coacervi personalizzati di paradigmi, ma in ogni caso nuove aperture non rinnegano necessariamente le precedenti neppure quando le correggono o le negano.

Il discorso sulle teorie è più ampio rispetto alle normali indagini epistemologiche. Purtroppo si è sempre guardato alle teorie con un atteggiamento asettico e aristocratico. Si è sempre pensato ad esse come a organizzazioni di pensiero spirituali e passive che venivano scoperte o inventate, illustrate o imparate, approvate o smentite ma sempre secondo processi più o meno tranquilli più o meno e incruenti. Il pensiero sulle teorie è sempre stato troppo schizzinoso ignorando proprio la dimensione delle teorie come “soggetti” attivi.
In un certo senso si è pensato alle teorie conformemente a moduli Lamarckiani, secondo i quali le teorie vengono apprese, elaborate, collaudate, trasmesse e non secondo moduli Darwiniani dove le teorie vengono selezionate e ci selezionano. Ma se questo atteggiamento è apparentemente sensato in relazione alle teorie ‘nobili’ nate in un ambiente culturalmente sviluppato, non lo è per nulla in relazione a comportamenti e abitudini di vita sopravvenute nel nostro passato, in forme che solo in tempi successivi e ‘più nobili’, sono state lette e riconosciute come teorie.
Questo atteggiamento, se da una parte ha allontanato le teorie stesse dalla carnalità dell’uomo, dall’altra ha contribuito a vedere l’uomo teorizzante un uomo disincarnato, spirituale, intellettuale.

Ma è chiaro che le teorie non sono solo quelle nobili e istituzionalizzate come la fisica ed è pure chiaro che, se si vuole comprendere l’agire teorico, si debba riflettere anche su quei comportamenti, quelle abitudini, quelle organizzazioni, con cui i nostri progenitori si orizzontavano nel mondo che emersero e si svilupparono molto prima che esistesse la parola “teoria”.  Con questo allargamento si risale ben oltre la cosiddetta “storia” di cui sono sopravvissute testimonianze o manufatti culturali, che ha imposto un confine, indefinito, ma concettualmente significativo, fra storia dell’uomo storico e storia dell’uomo biologico.  Così intese le teorie perdono quell’alone intellettuale di spiritualità che le ha sempre accompagnate e si presentano come quei soggetti che nel lontano passato sono emersi come soggetti agenti e sopravviventi sul dolore e sulla morte dei singoli individui, prefigurando per l’uomo un destino schizofrenico di conquista e di perdita.  Nel saggio si adotta spesso il termine “preteoria”, volendo significare con esso teorie con pochi vincoli ed ampi gradi di libertà. Preteoria ad esempio, è la concezione di un mondo formato da oggetti e fatti, preteoria è l’istintiva fiducia condizionata nei sensi, preteorie sono i linguaggi.

L’esistenza di queste preteorie mette in luce l’esistenza di configurazioni generali di comportamento con ampi gradi di libertà che, presenti ed attive nel nostro modo di vivere come organizzazioni del nostro agire, vengono a costituire un più o meno amalgamato coacervo di linee d’interpretazione che costituiscono l’organizzazione del nostro interagire. Entro le configurazioni di questi paradigmi preteorici si esprimono le teorie, così come entro i sistemi operativi degli elaboratori si esprimono i programmi. Questa similitudine che ha poco dell’analogia e molto della metafora riesce comunque a dare almeno una vaga idea dei rapporti fra teorie e preteorie.  Molte filosofie interpretano il nostro rapporto col mondo come una rappresentazione. Una rappresentazione sensibile o intellettuale, fedele o deformata, ma comunque pur sempre come una rappresentazione, in cui noi, abitando nel mondo, lo guardiamo asetticamente e senza reciproche contaminazioni. In sostanza si è spesso voluto isolare ciò che è il nostro vivere nel mondo carnalmente, un vivere in cui noi respiriamo, lavoriamo, ci nutriamo ecc. da ciò che è il nostro rappresentare il mondo. Ma anche volendo isolare artificialmente questo fantomatico momento di rappresentazione e questa altrettanto fantomatica facoltà rappresentativa, stranamente la si è sempre interpretata e descritta come se il mondo fosse lì di fronte a noi e i nostri sensi in qualche modo lo rispecchiassero e non con un processo dal tutto simile a quello della nutrizione e digestione.  Di fatto noi agiamo nel mondo orientandoci ed agendo su esso, non come osservatori ma come assimilatori che rendono simile il dissimile, ed espellono ciò che non può essere assimilato. L’atto di percepire il mondo è già una colonizzazione del mondo stesso in cui convergono il mondo, gli oggetti, i fatti, i termini, le proposizioni, il pensiero e il linguaggio. Questo è un processo vincente e consolidato, una preteoria stabile e strutturalmente costitutiva del nostro essere: per noi è quasi un binario su cui scorre il treno del nostro guardare/ vivere/ esperire. Un binario di cui abbiamo dimenticato l’esistenza proprio perché è entrato a far parte del nostro mondo colonizzato.

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Fondamentalismo darwiniano, di Stephen Jay Gould

Stephen Jay Gould

Il seguente articolo, tradotto in italiano, è apparso originariamente nel 1997 su “The New York Review of Books” e potete leggerlo in inglese qui. L’articolo s’inserisce in un vasto e laico dibattito internazionale sul significato del neodarwinismo e sul metodo riduzionista, il cui abuso metodologico non è considerato al passo con i tempi a confronto del paradigma della complessità e dell’emergentismo. In particolare Stephen Gould oppone al metodo di John Maynard Smith, Richard Dawkins e Daniel Dennett un approccio pluralista e complesso al fenomeno della vita, pur rimanendo nei laici canoni scientifici e neodarwiniani. Anzi, la sua proposta è quella di tornare  al “vecchio” Darwin, che quanto a pluralità di cause nelle leggi dell’evoluzione avrebbe capito qualcosa in più dei nuovi “ultras” darwiniani, prima ancora che genetica e biologia cercassero di “totalizzare” il discorso neodarwinista. Sullo stesso argomento, prima della morte, Gould è intervenuto in un altro articolo, che potete trovare al seguente link, intitolato Evolution: The Pleasures of Pluralism

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Fondamentalismo darwiniano, di Stephen Jay Gould

Numerosi esempi, dall’arroganza di Platone alle tirate di Beethoven, inducono a concludere che gli individui più brillanti della storia tendono a essere tipi irascibili. Con l’eccezione di Charles Darwin, che deve essere stato il più affabile di tutti i geni; era gentile all’eccesso, persino con gli immeritevoli, e non pronunciò mai parole dure. George Romanes, discepolo di Darwin, espresse stupore per l’unica affermazione aspramente critica che avesse mai incontrato: “Nell’intera gamma di scritti di Darwin, è impossibile trovare un altro brano formulato con tanta risolutezza; esso rappresenta l’unica nota amara nelle migliaia di pagine da lui pubblicate.” Il brano di Darwin che fece tanta impressione a Romanes era rivolto contro coloro che semplificavano e ridicolizzavano la sua teoria sostenendo che la selezione naturale, e soltanto la selezione naturale, è la causa di tutti i cambiamenti evolutivi. Nell’ultima edizione de L’origine delle specie (1872), Darwin scrive: “Poiché in tempi recenti le mie conclusioni sono state molto travisate, e si è dichiarato che io attribuisco la modificazione delle specie esclusivamente alla selezione naturale, mi sia concesso rimarcare che nella prima edizione di quest’opera, e nelle successive, ho posto nella posizione più appariscente – e precisamente a chiusura dell’Introduzione – le seguenti parole:Sono convinto che la selezione naturale è stata la causa principale, ma non l’unica, delle modificazioni“. Non è servito a nulla: grande è il potere del travisamento continuo“.
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Perché la guerra? Carteggio Einstein-Freud. Una recensione

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La reazione di Sigmund Freud di fronte agli avvenimenti della Prima guerra mondiale è quella di un uomo in cui l’iniziale slancio patriottico, avvertito allo scoppio del conflitto, lascia spazio ad un profondo senso di smarrimento di cui il saggio Perché la guerra? costituisce una chiara testimonianza. Del resto, la drammaticità degli eventi – sostiene lo studioso austriaco – costringe tutti gli individui a fare i conti con la perdita di (apparentemente) solidi punti di riferimento, e la gravità di tale perdita è tanto maggiore quanto più elevato è il (presunto) livello di civiltà dei popoli coinvolti. La guerra, però, non ha stravolto soltanto la vita degli uomini: persino il tradizionale modo di concepire la morte è stato investito dal cambiamento; Freud nota che, sebbene l’inconscio spinga da sempre il singolo ad allontanarne il pensiero e a rifiutarne l’indissolubile legame con la realtà, è chiaro che “la morte non può più oggi essere negata; siamo costretti a crederci. Gli uomini muoiono veramente; e non più uno alla volta, ma in gran numero, spesso a decine di migliaia al giorno”.

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Gerald Edelman, Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana. Una recensione

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In questo scritto si prende in esame un’opera scientifica che nonostante non sia di recente pubblicazione – la sua uscita anglofona è del 2006  – non è per tale ragione da considerare obsoleta, quantomeno nello spirito che informa il testo. Gerald M. Edelman, autore del libro in questione, premio Nobel nel 1972 per la fisiologia e la medicina per i suoi lavori sul sistema immunitario, è attualmente direttore del Neurosciences Institute di San Diego e presidente del Dipartimento di Neurobiologia presso lo Scripps Research Institute di La Jolla (California). Nella prefazione del suo Seconda natura. Scienza del cervello e conoscenza umana, (tradotto in lingua italiana nel 2007 per Raffaello Cortina Editore, nella collana diretta da G. Giorello), Edelman afferma la propria convinzione secondo la quale, seguendo William James, «la coscienza è un processo la cui funzione è conoscere»; e, dunque, capire la coscienza è fondamentale per comprendere «quale sia la relazione tra i progressi delle scienze del cervello e i problemi della conoscenza umana». La nascita della fisica moderna, che segna l’inizio del più profondo cambiamento di prospettiva mai affrontato dalla specie umana, e lo sviluppo dell’idea di selezione naturale, che fornì la base teorica per comprendere l’evoluzione degli esseri viventi, tratteggiano un arco che non è ancora compiuto: la scienza, infatti, non ha ancora chiarito le basi cerebrali della coscienza, esperienza irriducibilmente soggettiva, non oggettivabile. Considerando la scienza come «immaginazione al servizio della verità verificabile» – dunque, essendo l’immaginazione dipendente dalla coscienza, anche la scienza è dipendente dalla coscienza – Edelman, all’interno di una prospettiva che potremmo ricondurre all’ecologia intesa come scienza che studia i rapporti tra gli esseri viventi e l’ambiente, sostiene l’assunto che possediamo una teoria scientifica della coscienza soddisfacente, che chiama «darwinismo neurale», secondo la quale la coscienza emerge dalla dinamica celebrale. In altri termini, nell’indagare come funziona il cervello (il quale è incarnato in un corpo, così quest’ultimo influenza ed è influenzato dall’insieme delle relazioni con l’econicchia) è possibile formularne una teoria globale che si possa ampliare fino a spiegare la coscienza, permettendoci di comprendere meglio il nostro posto nell’ordine naturale.

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Il cervello Hegeliano

 

“Questo volume presenta il sapere nel suo divenire. La ricchezza dei fenomeni in cui lo spirito si manifesta, che a un primo sguardo si presenta come caos, è ricondotta a un ordine scientifico, che li presenta secondo la loro necessità…” (GWF Hegel, Annuncio bibliografico della pubblicazione della Fenomenologia dello Spirito, Bamberger Zeitung, 28 Giugno 1807)

Chi si accinge alla lettura del testo hegeliano prima o poi viene preso da un senso di smarrimento, quando non di sconforto… In “presenza” di Hegel è facile ritrovarsi di fronte a un bivio: o si era capito male quello che si credeva di avere ben chiaro almeno nelle linee generali, o si inizia a temere di non essere nella migliore condizione mentale per affrontare la “leggendaria difficoltà” del pensatore di Stoccarda, non per niente indicato dai suoi contemporanei come “l’Eraclito redivivo”, in quanto “oscuro come l’Efesio”.

A me capita invece una cosa strana…

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Krishnananda, A tu per tu con la paura. Una recensione

Thomas Trobe e la compagna, Gitte Demant

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Fra Oriente e Occidente, fra psicanalisi e meditazione

A tu per tu con la paura, di Krishnananda (pseudonimo di Thomas Trobe ) è un viaggio all’interno dell’essere umano, alla scoperta delle sue paure, delle sue difficoltà , delle ferite sepolte che agiscono fattivamente sul presente con tutte le inevitabili conseguenze. Trobe, psichiatra, cresce nello studio antropologico e sociologico del genere umano, seguendo come allievo la guida spirituale di Osho. Da lui impara l’ arte della meditazione e come questa pratica debba diventare esercizio fondamentale e necessario per chiunque voglia superare la superficie per entrare nell’interiore, in quello che considera il vero essere. Questo privilegiare la pratica meditativa lo avvicina ad un noto concetto espresso dal suo maestro: “il centro della tua vita, il tuo essere, è la tua connessione con il cosmo. Da questa porta puoi entrare nel cosmo e diventare tutt’uno con l’ esistenza. Ma anche quando sei nel centro del tuo essere…troverai grande splendore e mistero. Questo stato viene chiamato il buddha, il risvegliato. In questo momento tutti voi siete dei buddha. Potete anche dimenticarlo, ma non importa. Prima o poi ve ne ricorderete di nuovo.”

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Peter Singer, Una sinistra darwiniana. Una recensione critica

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Il darwinismo è di destra o di sinistra? Piegare il darwinismo al progetto di una fondazione di valori laici è uno sogno (e in qualche caso è stato un vero incubo, si ricordi, per esempio, Herbert Spencer  o Francis Galton)  che ha una lunga storia. La sociobiologia, dal dopoguerra ad oggi,  ha percorso una lunga strada. Con l’ausilio di quella disciplina che nei paesi anglosassoni è chiamata “psicologia evolutiva”,  afferma di essere non solo un valido campo d’indagine, ma molto di più, una sintesi completa di biologia e filosofia, una guida per l’etica e la politica. Questo campo di studi, in realtà, si rivela duttile a qualsiasi credo socio-politico, capace di supportare una vasta gamma di conclusioni etiche, come vedremo, anche opposte l’una all’altra. Infatti, anche ammettendo (e la cosa è sicura) che alcuni comportamenti umani abbiano una base evolutiva, nessun “gene egoista”  (la vulgata scientifica di un credo neoliberale?) ci potrà mai dire quali comportamenti siano moralmente buoni e cattivi. Da questo punto di vista, Una sinistra darwiniana  di Peter Singer è un tentativo di piegare gli studi neodarwiniani su di un particolare programma etico e “di sinistra” (la sinistra a cui fa riferimento Peter Singer è ispirata ai modelli americani, australiani e inglesi, non certo a quelli francesi o italiani). Il suo lavoro ha il pregio di portare in Italia un dibattito per noi europei -continentali un po’ distante (e sinceramente, un po’ retrò) ma che nei paesi anglosassoni è molto più presente, e pressante, sull’onda emotiva di noti divulgatori scientifici di lingua inglese che combattono la loro “buona battaglia” contro le confessioni religiose, ma si dimenticano purtroppo i loro pregiudizi e credi sociopolitici. Per una volta, noi europei non siamo indietro: anzi, su alcune tematiche toccate da questo libro, la filosofia europea, la nostra epistemologia evoluzionistica e la nostra filosofia della scienza sono di certo più avanti, di certo alle prese con il paradigma della “complessità” più che con una pseudoscientifica “riduzione”. Il filosofo australiano Peter Singer,  noto soprattutto per i suoi ottimi contributi sull’animalismo, sull’ambientalismo e contro lo specismo, in questo libro si dedica al complesso e letteralmente inumano tentativo, fra scienza ed etica, di fondare una nuova politica, suggerendo che “la sinistra” possa e debba abbracciare il darwinismo. Questo rispettabile proposito, però, lo costringe a definire cosa sia la “sinistra”, che cosa debba essere il darwinismo, e cosa sia la natura umana. Tre questioni che cerca di “lavorare” con maestria (e in alcuni parti del libro ci riesce), anche se, come capita ad ogni buon ebanista almeno una volta nella vita, certi pezzi di legno sono troppo duri e nodosi da lavorare. Usando un eufemismo, Peter Singer sbaglia le sue frequentazioni, i suoi “materiali di costruzione”.

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Il cervello della cappella Sistina. Michelangelo fra neoplatonismo e… neuroanatomia

Fece per la chiesa di Santo Spirito della città di Firenze un Crocifisso di legno, che si pose ed è sopra il mezzo tondo dello altare maggiore a compiacenza del priore, il quale gli diede comodità di stanze; dove molte volte scorticando corpi morti, per istudiare le cose di notomia, cominciò a dare perfezione al gran disegno ch’egli ebbe poi“. (Giorgio Vasari, Vita di Michelangelo)

Forse il primo uomo (documentabile) ad avanzare l’ipotesi dell’anatomia del cervello celata nel dipinto di Michelangelo è stato qualche anno fa un medico americano,  Frank Meshberger, notando che le figure dietro Dio e il mantello formano una figura pienamente corrispondente alla sezione sagittale della corteccia cerebrale. E Michelangelo, nel Rinascimento, non era l’unico a studiare l’anatomia dai cadaveri ed a riportarla fedelmente nelle sue opere. Inoltre, al tempo di Michelangelo, gli anatomisti credevano che il prezioso ben dell’intelletto, dono di Dio, avesse la sua sede nel cervello. In base a questa ipotesi, nell’affresco tradizionalmente chiamato “Creazione di Adamo” (qui il link per vedere la Cappella Sistina in 3d), potrebbe essere simboleggiato un messaggio molto particolare.

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