“La scimmia pensante” di R. Dunbar. Una recensione sulla storia evolutiva umana

(Nella foto al lato, un particolare delle Grotte di Lascaux, dette anche “la Cappella Sistina della preistoria”)

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«Le urgenze e i clamori del nostro tempo si placano quando ci ricordiamo della stranezza del tempo in cui viviamo: il periodo che, a partire dalla scomparsa di Neanderthal, 28.000 anni fa, giunge sino a oggi è l’unico, nei cinque milioni di anni di storia della famiglia degli umani, in cui ci sia stata una, e una sola, specie vivente di ominidi. Finora non c’è probabilmente mai stato un periodo di tempo che non abbia visto almeno due (e qualche volta si arriva fino a cinque) specie diverse di ominidi percorrere contemporaneamente le grandi vie di raccordo del mondo – incontrandosi all’improvviso e studiandosi con cautela, di tanto in tanto. […] L’eccezionalità della storia recente dell’umanità ha portato a rafforzare in noi l’impressione di essere assolutamente unici; forse è anche responsabile dell’eccessiva importanza che attribuiamo a noi stessi.» (da “La scimmia pensante“)

Questo libro divulgativo si rivolge ad un pubblico anche non specialista: è la storia molto semplificata di cosa siamo, e dei nostri pregiudizi. Ciò diventa evidente fin dall’inizio, quando, dopo un breve schizzo impressionistico delle origini umane a partire degli australopitechi, Robin Dunbar (professore di Psicologia evolutiva all’Università di Liverpool) respinge in modo inequivocabile quello strano sentimento, bizzarro, dell’unicità umana. O quell’ interpretazione che vede l’uomo di Neanderthal come una specie primitiva e così separata dalla nostra. In realtà è quasi certo che umani moderni abbiano convissuto con i Neanderthal e con i Cro-Magnon per diverse migliaia di anni. Un periodo in cui avremmo incontrato sulla terra strani esseri simili a noi, con lo stesso nostro sguardo, bipedi e produttori, come noi, di raffinate tecniche, arti e arnesi. Forse, anche con una religione. E se i Neanderthal non si fossero estinti, oggi forse saremmo in guerra contro di loro e contro i loro dèi. O forse avremmo cercato di convivere, inventandoci un dio che è loro ma anche nostro. La storia raccontata da Dunbar è a volte un po’ troppo sbrigativa (come si usa spesso nel mondo anglosassone, priva di quello spessore filosofico a cui siamo abituati in Europa continentale) ma è comunque una storia avvincente, che vale la pena di percorrere brevemente, anche perché il suo interesse principale è capire le origini della moderna coscienza umana.

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Post-human, di Roberto Marchesini. Una recensione sulle nuove frontiere della hybris

(il bambino delle stelle, un fotogramma del film 2001 Odissea nello spazio”)

Ordinando il libro di Roberto Marchesini tramite il nostro link usufruisci di uno sconto (Amazon): Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza (Saggi. Scienze)

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Siamo delle macchine, e non in senso metaforico, ma letterale. Siamo macchine fatte di altre macchine. Le proteine di cui siamo composti sono esse stesse delle macchine, dei meccanismi. E il cervello è a sua volta una immensa macchina (Daniel Dennet)

Se siete interessati ad un manuale geniale, completo e specifico dedicato al dibattito sulla crisi dell’umanesimo e dell’antropocentrismo, sulla natura e l’identità umana dopo la rivoluzione darwiniana e l’evoluzione della tecnosfera, sui risvolti filosofici ed etici del postumanesimo e sulla ridefinizione scientifica su ciò che accomuna in chiave coevolutiva l’essere umano ad una macchina o da un altro animale, Post Human di Roberto Marchesini è il classico da non perdere. Oltre a ciò, Marchesini si inserisce nel prezioso dibattito su mente, coscienza e intelligenza artificiale, da sempre nel mirino di filosofi e neuroscienziati sempre in lite fra di loro. Ho letto molta letteratura di questo genere, ma posso tranquillamente dire che è un libro che svetta tranquillamente, nel panorama italiano, su tutti quelli dedicati ai medesimi argomenti di frontiera, specie se si è neofiti del campo e si cerca un libro che sia in grado di presentare l’intera questione con chiarezza senza tralasciare l’innegabile complessità degli argomenti. Temi dove la filosofia si sposa con antropologia, zooantropologia, scienza e tecnica, non senza uno sguardo critico e bioetico su alcuni risvolti di questo connubio (come l’iperumanesimo e il tecnognosticimo, gli “estropiani”, i transumanisti ed i risvolti etici sulle nuove biotecnologie). E soprattutto, questo prezioso connubio avviene sfruttando il paradigma della complessità ed evitando quegli odiosi riduzionismi che fanno spesso torcere il naso agli umanisti ed ai filosofi di formazione scientifica.

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“I FRUTTI PURI IMPAZZISCONO”. LETTERALMENTE

(nella foto, Gianluca Cassieri, l’autore della strage di Firenze)

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Ho sempre creduto che il titolo del libro più famoso dell’antropologo James Clifford fosse una metafora, una poesia: “I frutti puri impazziscono”. Un titolo che è già una recensione. Ed in effetti, il titolo fa un verso ad una poesia di Carlos Williams. Ma la strage dei due Senegalesi a Firenze, Samb Modou e Diop Mor, ad opera di Gianluca Cassieri, è uno dei tanti esempi che dimostrano che l’ideologia della purezza fa letteralmente esplodere i più pericolosi istinti umani, al di fuori di ogni metafora. La purezza, in tutte le sue manifestazioni. Piuttosto che metterci a discutere se Cassieri fosse un pazzo o no, siamo comunque convinti che l’ideologia della purezza propagandata dai gruppi di estrema destra come Casapound renda psicolabili. Per cominciare a decostruire questo pericoloso mito, niente di meglio che un brano dell’antropologo Ralph Linton: “L’Americano al cento per cento”.

Non ci sono dubbi sull’americanismo dell’americano medio né sul suo desiderio di conservare ad ogni costo questa preziosa eredità. Tuttavia alcune insidiose idee straniere si sono già insinuate nella sua cultura senza che egli si sia reso conto di quello che stava accadendo. Ecco dunque il nostro insospettabile patriota che indossa il pigiama. Un indumento che ha origine nell’India orientale, e dorme sdraiato su un letto costruito secondo un modello originario persiano o dell’Asia Minore. È coperto fino alle orecchie di stoffe non americane: cotone coltivato per la prima volta in India, lino coltivato in Medio Oriente, lana prodotta da un animale originario dell’Asia Minore, oppure seta, che i cinesi hanno inventato e usato per primi. Tutti questi materiali si sono trasformati in tessuti grazie a un procedimento inventato nell’Asia sud-occidentale. Se fa piuttosto freddo può: dormire sotto un piumone a trapunta inventato in Scandinavia.

Svegliandosi dà un’occhiata alla sveglia, un’invenzione medievale europea, usa una forte parola latina in forma abbreviata, si alza in fretta e si dirige verso il bagno. Qui, se riflette un momento non può non sentire la presenza di una grande istituzione americana; ne ha sentite di storie sulla qualità e sulla diffusione dei servizi igienici nei paesi stranieri e sa che in nessuno di essi l’uomo medio effettua le sue abluzioni in mezzo a tanto splendore. Ma anche qui trova tracce dell’irritante influenza straniera. Il vetro fu inventato dagli antichi Egizi, le piastrelle vetrificate del pavimento e delle pareti nel Medio Oriente, la porcellana in Cina e l’arte di smaltare i metalli dagli artigiani mediterranei dell’età del bronzo. Anche le tubature e la tazza del cesso sono copie appena modificate rispetto agli originali romani. L’unico contributo americano a tutto il complesso è il radiatore. In questa stanza da bagno l’americano si lava con il sapone inventato dai Galli. Poi si lava i denti, una rivoluzionaria pratica europea che non si propagò in America fino agli ultimi anni del diciottesimo secolo. Quindi si fa la barba, rito masochistico la cui origine risaie ai preti dell’antico Egitto e ai sumeri. Il procedimento è reso meno penoso dal fatto che usa un rasoio di acciaio, una lega di ferro e carbonio inventata in India o in Turkestan. Infine si asciuga con un asciugamano turco.

Ritornando nella camera da letto, l’inconsapevole vittima di oscure pratiche straniere prende gli abiti dalla sedia, il cui modello è stato elaborato nel Medio Oriente, e inizia a vestirsi. Si mette un abito attillato le cui forme derivano dalle vesti di pelle degli antichi nomadi delle steppe asiatiche e lo allaccia con dei bottoni i cui prototipi comparvero in Europa alla fine dell’età della pietra. Questo vestito è abbastanza adatto per stare all’aperto in un clima freddo, ma non si addice certamente alle estati americane, né alle case con riscaldamento centrale o alle carrozze ferroviarie. Tuttavia idee e abitudini straniere hanno asservito il poveretto, anche se il buon senso gli dice che il vero abito americano di strisce di pelle e i mocassini sarebbero molto più comodi. Si infila ai piedi delle calzature rigide di cuoio confezionate secondo un procedimento inventato nell’antico Egitto e tagliate secondo un modello che risale agli antichi Greci e si assicura che siano accuratamente lucidate, anche questa un’idea greca. Infine si passa attorno al collo una striscia di stoffa dai colori vivaci, che è un vestigio sopravvissuto dello scialle che indossavano i Croati del diciassettesimo secolo. Si dà un’ultima occhiata allo specchio, vecchia invenzione mediterranea, e scende le scale… .

Si mette in testa un cappello di feltro, materiale inventato dai nomadi dell’Asia orientale e, se sta per piovere, si mette le soprascarpe di gomma, inventate dagli antichi messicani, e prende l’ombrello, inventato in India. Scatta via per prendere il treno, che è un’invenzione inglese (il treno, naturalmente, non lo scatto). Alla stazione si ferma un istante per comprare il giornale e lo paga con delle monete inventate nell’antica Lidia. Una volta in carrozza, si sistema sul retro per fumare una sigaretta, invenzione messicana, o un sigaro, invenzione brasiliana. Intanto legge le notizie del giorno, stampate con caratteri che derivano dagli antichi Semiti, stampati mediante un procedimento inventato in Germania su materiale inventato in Cina. E, mentre legge l’ultimo editoriale che parla dei disastrosi risultati che l’accettazione delle idee straniere produce sulle nostre istituzioni, non potrà fare a meno di ringraziare un Dio ebreo in una lingua indoeuropea di essere al cento per cento (sistema decimale inventato dai greci) americano (da Amerigo Vespucci, navigatore e geografo italiano).

(Ralph Linton, <<The American Mercury>>, 40 [aprile 1937], pp.427-429)

Su questo tema, vedi anche il nostro intervento: LA FILOSOFIA DEL FANATISMO

Comune e Comunità visti dallo specchietto retrovisore

Vladimir Krikhatsky, "Il primo trattore"

La Terra resiste ancora!
Mille conflitti illuminano il cielo dell’attualità come fuochi d’artificio in the dark side della politica, tra processi di espropriazione e messa_in_rendita del Comune (ormai il profitto è lettera morta sulle pagine della storia) e creazione costante di forme alternative di “democrazia” (Comitati territoriali, spazi “liberati” e via dicendo) in dichiarata opposizione alla governance neoliberale. La Vita, ogni singola Esistenza terrestre, si biforca materialmente tra l’essere-Capitale Umano (sotto il comando dispotico della governance, secondo le teorie di Gary S. Becker) ed il divenire-Singolarità (nella condensazione di forme di Vita “comune”). Il concetto dell’Esodo dai processi del comando, come costantemente proposto nella narrazione hardtnegriana (ed approfondito nella trilogia di “Impero”, “Moltitudine” e “Comune”), sembra essere solo vuota retorica se rapportato alla realtà. Nella materialità della Vita ogni Esistenza terrestre si presenta, allo stesso tempo ed in ogni momento in un presente aeternum, come Capitale Umano e Singolarità. Non è un dispositivo da risolvere, una schizofrenia da curare, ma sono scelte concrete da compiere in ordine sparso ed a seconda del momento e del contesto. È una biforcazione, non una contraddizione, da praticare pienamente come opportunità. Il conflitto, in questo caso, non sta tanto nel campo dell’Etica (o, peggio ancora, in quello della morale) quanto in quello dell’organizzazione complessiva della Vita. L’organizzazione complessiva della Vita, infatti, si pone direttamente il problema delle Istituzioni del governo e delle forme della governance. È in questo spazio “materiale” che si situa realmente il conflitto, con tutte le sue potenzialità esplosive, ovvero nella ristrutturazione delle modalità di controllo ed esproprio del valore prodotto dalla cooperazione.
Che il Comune sia con tutt@.

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“Oltre la filosofia”, di Giangiorgio Pasqualotto. Una recensione sui percorsi di saggezza fra Oriente ed Occidente

(nell’immagine, il film “Primavera, estate, autunno,inverno… e ancora primavera“, di Kim Ki-duk)

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La filosofia non parla più della vita. Nella storia della cultura occidentale è avvenuta una frattura (non certo recente) fra vita e pensiero. Ma anche fra filosofia speculativa e pratica. Il libro di Giangiorgio Pasqualotto cerca di rimediare a questo discrimine svolgendo un iter articolato in otto interventi, un viaggio tra occidente ed oriente alla ricerca della saggezza del vivere. Del resto, lo studioso è uno dei massimi esperti italiani di pensiero filosofico orientale e più volte ha affrontato la tematica di un Oriente che avrebbe tanto da raccontare al nostro Occidente, un Occidente grecista ed eurocentrico che crede di aver inventato il pensiero, oltre che la filosofia. Lo studioso segue un cammino intrapreso già da Pierre Hadot (Esercizi spirituali e filosofia antica), Foucault (L’uso dei piaceri, La cura di sé), in parte dalla Nussbaum (Terapia del Desiderio) e da Panikkar: paragona perciò particolari pensieri filosofici orientali e occidentali interpretabili come “stili di vita”, il cui scopo non risiede nella mera acquisizione di dati sulla struttura della realtà, quanto piuttosto nell’annullamento del dolore, nel riconoscimento e nel controllo delle passioni, nella pratica della libertà e del “conosci te stesso” – un “te stesso” che però non è separato da tutto il resto.

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15 ottobre 2011, Indignados a Roma – post Manifestazione

Il 15_Ottobre_2011 avrà un seguito. Lo sta già avendo (come è successo, recentemente, al 14_Dicembre_2010). Non solo nella gioiosa e profetica (“ve l’avevamo detto”) vis editoriale (che già sta esplodendo attraversando ogni tipo di supporto tenico) e partitica (è stato aperto il buco nero dove far cadere ogni opposizione). Il Movimento (?) stesso sarà portato a parlarne. Dovrà discutere perchè, ancora una volta, si pone chiaramente il tema delle modalità di partecipazione. Di “postura” all’interno di un percorso politico. La questione non è banalmente il conflitto e le sue molteplici modalità di espressione. Il punto non è il “che fare” ma il “come stare” o, meglio, il “come Esistere” dentro una mobilitazione di Singolarità, di Corpi e di Emozioni. Come Esistere perchè Esistere significa farsi Comune. Non c’è comunità (commons) senza la condivisione di alcune modalità di esistenza. Il nodo è esclusivamente questo. E’ squisitamente politico (ovvero quando la teoria si fa Vita). Non è tutto un indistinto minestrone di esperienze ma esiste chiaramente un dentro ed un fuori. Deve esistere. Non è un dispositivo di esclusione, come generalmente lo sono (o lo diventano) tutte le dicotomie. E’ una modalità di inclusione, una questione di confine. Una scelta. Wu Ming sta già dando spazio a questo dibattito che sarà molto vasto (e si perderà comunque nei mille rivoli della rete). Si scopre che già nelle fasi organizzative della Manifestazione queste modalità di espressione molto differenti erano già venute alla luce. Nulla di nuovo, quindi. Anzi si evidenzia l’impossibilità, a tratti apocalittica, di fare a meno di queste manifestazioni di violenza perchè co-esistenti alla protesta.

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Il tempo come progresso: tra παιδεία e moderno/2 La teoria storiografica

È nella civiltà greca che si crea la congerie di termini e di concetti che prepara alla critica storica, dal primo stabilirsi del problema della verità fino alla questione della tecnica affrontata da Heidegger. Un importante avvio al problema della verità fu dato proprio dall’opera di Heidegger Essere e tempo (1927), in cui il filosofo tedesco accoglieva l’interpretazione di Άλήθεια come non-occultezza, disvelatezza e vedendo in  Άλήθεια il fenomeno originario della verità.

Una corretta definizione strumentale della tecnica la identifica come un mezzo in vista di un fine, ma questa sua strumentalità non dice che cosa sia l’essenza della tecnica, poiché la constatazione non svela necessariamente ciò che le sta davanti nella sua essenza. Sennonché τέχνη non è solo il fare manuale ma si eleva soprattutto verso la produzione e la ποίησις, per cui la tecnica dispiega il suo essere nell’ambito nel quale accade  il disvelamento dell’ἀλήθεια. Ma appunto la tecnica moderna, faceva notare Heidegger, a differenza della τέχνη, è una provocazione e l’essenza della tecnica è impositiva e non è più sufficiente una definizione strumentale della τέχνη. La tecnica non è il pericolo ma il pericolo è nell’essenza della tecnica. L’influenza di Heidegger fu notevole e la sua proposta fu seguita quasi da tutti, ma Detienne si pone in polemica con questo filone della ricerca affrontando il trapasso dal μῦθος al λόγος.

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Il tempo come progresso: tra παιδεία e moderno/1 Senofane e Esiodo

Nel frammento 18 Diels-Kranz di Senofane, è presente il fondamento dell’idea di progresso nell’Occidente, come scrive Ludwig Edelstein nell’Idea di progresso nell’antichità classica.[1]A proposito di questa idea di progresso – precisa l’autore – non si tratta comunque di progresso in termini moderni.

Nel frammento 18 Diels-Kranz di Senofane si afferma che il tutto non è rivelato dagli dèi, ma, attraverso la ricerca, all’uomo è consentito nel tempo di giungere al meglio.

Nel frammento si afferma precisamente:

«οὔτοι ἀπ’ ἀρχῆς πάντα θεοὶ θνητοῖσ’ ὑπέδειξαν, ἀλλὰ χρόνωι ζητοῦντες ἐφευρίσκουσιν ἄμεινον.»[2]

«Certamente fin dall’inizio non tutto gli dèi svelarono ai mortali, ma nel corso del tempo quelli che ricercano trovano ciò che è meglio.»

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Comune. Oltre il privato ed il pubblico. Recensione del testo di Hardt e Negri

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Ogni aspetto della produzione sociale (l’archeologico “comando” capitalistico, inteso in senso economico-sociale) sarebbe stato sussunto dal Capitale finanziario che, per Antonio Negri (video-intervista sotto), organizzarebbe (in maniera consapevole e come “valore aggiunto” alla valorizzazione) anche la cooperazione e le opportunità del Comune. Oppurtunità che la Moltitudine dovrebbe cogliere costruendo scientificamente la propria autonomia attraverso l’Esodo dai meccanismi dell’appropriazione capitalistica. Esodo come “lotta di classe” e riappropriazione dei mezzi della produzione/riproduzione della Vita utilizzando il lavoro biopolitico come eccedenza sistematica ai limiti del comando del Capitale.
Comune. Oltre il privato ed il pubblico“, per essere molto sintetici, sembra essere un tentativo concreto di pensare l’autonomia politica e sociale della Moltitudine. Dopo gli anni Settanta, dai ragionamenti sull’autonomia operaia (fondamentale, su questo argomento, il libro di Mario TrontiOperai e Capitale“) qualcuno prova a pensare l’autonomia del Comune. Dopo Impero (2002, Rizzoli) e Moltitudine (2004, Rizzoli), l’ultima parte della trilogia hardtnegriana, a nostro avviso, delude le aspettative anche se l’impianto teorico che mette in gioco è certamente di valore. C’è comunque uno scarto evidente tra Moltitudine (il penultimo libro) e Comune. Circa sei anni di incubazione hanno sicuramente prodotto, negli autori, degli investimenti interessanti in termini di realtà e conoscenza delle dinamiche sociali. Ad ogni modo Comune non è, banalmente, il terzo Capitolo di un percorso già pensato ma si presenta come una ripresa ed una radicale rielaborazione dell’intera impalcatura analitica. Molti commentatori hanno descritto la sequenza di Impero-Moltitudine-Comune quasi come un passaggio “dialettico” che parte da un’analisi generale del comando imperiale (Impero), procede verso l’individuazione di una soggettività politica capace dell’alternativa attraverso un’esegesi della composizione dell’antagonismo (Moltitudine) e, infine, si conclude con la creazione di un’alternativa politica vera e propria che prenda spunto dall’espropriazione della produzione immateriale (Comune). Probabilmente questa lettura non è corretta. Abbiamo la sensazione che “Comune” ecceda la traiettoria di Impero-Moltitudine e si presenti come un compendio autonomo. Per questa ragione lo si dovrebbe leggere senza “l’ombra” (decisamente ingombrante) dei fratelli maggiori.

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La chiave della vita: l’errore. Monod, il caso e la necessità. Una recensione

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“Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto di caso e necessità” (Democrito). Considerate una semplice operazione sul vostro pc: copia-incolla di un programma, o quando masterizzate un cd. Il risultato finale, nonostante le apparenze, non è mai esattamente uguale all’originale. Avvengono degli errori di copiatura del codice binario del programma. Più il progetto che copiate è lungo e complesso, più c’è possibilità che questi errori siano più consistenti. Ebbene, la stessa cosa avviene nel mondo biologico. Il DNA non replica mai se stesso in maniera perfetta. Pensare che la chiave della vita e dell’evoluzione neodarwiniana siano gli errori di replicazione è uno degli spunti più sconvolgenti che vengono dalla lettura de “Il caso e la necessità” di Jacques Monod. In generale, nel mondo che non sia quantistico, si può dire che nulla è uguale ad un’altra cosa. Nella biologia, i contorni di questa “legge” sono netti. Qui non esiste invarianza perfetta, ma solo di principio: dagli organismi più elementari come i virus o i protobatteri fino ai mammiferi, sono le mutazioni “vincenti” la chiave della vita. Se la prima unità vivente del nostro pianeta si fosse riprodotta uguale a se stessa, non ci sarebbe potuto essere l’uomo.

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Filosofia del fanatismo #2

Quello che c’è di interessante negli Eventi sono le conseguenze. In Norvegia qualcosa è accaduto e noi, come spesso accade, l’abbiamo registrato. Tra i frequentatori di questo spazio (in modo particolare su facebook) si è aperto un bel dibattito, anche con elementi di elaborazione molto interessanti. Ognuno ha avuto modo di esprimere le proprie opinioni. Abbiamo anche riportato degli aggiornamenti, con gli articoli di Magdi “Cristiano” Allam, Belpietro (Libero) e Feltri (Il Giornale).
Oggi, cercando altre notizie su quanto è accaduto, mi sono interessato a due interventi in modo particolare: quello di Fiamma Nirenstein (sempre su Il Giornale) e l’intervista al leghista Borghezio raccolta da Radio24 (inserita su RepubblicaTV). Quello che c’è di interessante in questa “reazione” (non intesa in senso politico, naturalmente) sta nell’affermazione delle proprie certezze e nella costruzione di un fattore ulteriore di politica. Per questo credo che si debbano distinguere nettamente i “fanatici” (come il fanatico di Oslo) da chi cerca di creare forme di Governo delle cose e degli Esseri umani ad uso e consumo di un certo modello ideologico. Perchè il fanatismo è l’Evento ma il Governo si presenta come quotidianità e ci organizza in maniera molto più silenzione e subdola.

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