La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz. Una recensione

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La ormai classica novità di La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz (BUR 2009²), pubblicato la prima volta nel 1930, consiste innanzi tutto nel fatto che il libro ripercorre tre letterature, inglese francese e italiana, isolando la sensibilità erotica degli autori romantici, in aperta sfida alla critica idealistica del tempo, e provocando la moralistica stroncatura di Benedetto Croce, che pretendeva una maggiore complessità per il romanticismo e per la vita stessa in cui non doveva prevalere «la patologia sessuale» e che «vuole la distinzione e con ciò l’armonia di tutte le sue parti». Tant’è vero che viene a un certo punto fatto di domandarsi, rileggendo Praz (e questa non è che una delle tante fascinazioni di questo testo, di segno spesso esoterico), quando, e addirittura se, sia davvero finito il Novecento (romantico), dal momento che, in secondo luogo, la più grande e seducente intuizione critica di Praz è stata quella di rimettere radicalmente in discussione le formule storiografiche ricorrenti, dandoci come un unicum indivisibile sia il romanticismo (e non solo le sue propagginazioni più abitualmente riconosciute come tali) sia la scapigliatura sia il verismo sia lo stesso decadentismo, prolungando il periodo romantico come un tutt’uno fino a gran parte della letteratura dello stesso Novecento, o almeno di quello a lui contemporaneo (Praz è morto nel 1982). Secondo Croce, era illegittimo da parte di Praz segnare in modo tanto debole la differenza tra romanticismo e decadentismo, e spingersi a «far consistere il cosiddetto romanticismo nella formazione di una sensibilità nuova, quella appunto che si manifesta nelle tendenze e figurazioni che egli così largamente espone». Nell’Avvertenza alla seconda edizione del 1942 Praz gli risponderà in modo articolato, peraltro basandosi proprio sulla crociana Storia d’Europa nel secolo decimonono, che la sua non è una sintesi del romanticismo tout courtbensì una monografia su particolarità tematiche della sensibilità romantica.

«L’epiteto romantico e l’antitesi classico-romantico sono approssimazioni da lungo tempo entrate nell’uso. Il filosofo le mette solennemente alla porta esorcizzandole con logica che non erra, ed esse rientrano chete chete per la finestra, e son sempre lì tra i piedi, elusive, assillanti, indispensabili.» Comincia così la monografia comparatistica di Praz, e subito segue l’osservazione che critica letteraria presuppone storia della cultura: «storia della cultura d’un ambiente e storia della cultura d’un individuo». Si continua per più di quattrocento pagine fittissime, infarcite di autori, personaggi, citazioni in francese, generi letterari, epoche, ambienti, miti, passioni, ripercorrendo le costanti tematiche della bellezza medusea cantata da Shelley, della metamorfosi diabolica in Byron, di Sade antecedente diretto dei romanzi di Flaubert, della bellezza diabolica celebrata da Keats, della Salomè di Wilde, dell’algolagnia sadomasochistica di Swinburne, dei plagi di D’Annunzio, messe in relazione con le innumerevoli varianti offerte dal contesto di volta in volta analizzato. Un gioco a incastri, aperture, intagli, passaggi sotterranei di cui è impossibile dare un resoconto esaustivo.

Di epicurei dall’immaginazione cattolica risulta piena la grande letteratura decadente a partire da Chateaubriand. Huysmans va d’accordo col marchese de Sade cogliendo una verità da trasgredire proprio in quanto creduta (diversamente non ci sarebbe nulla da violare). C’è il sospetto che Praz tratti la nevrosi di questi autori come un appianamento (o un sollievo) nella delectatio morosa, con un inevitabile residuo di irrisolto nella vita. A questo irrisolto lui sembra aderire perfettamente, perché è anche il suo, e resta il suo quando lo contesta o contestualizza in un’infinità di rimandi, giustamente proiettivi o esclusivi, coinvolgendo i generi minori e le arti figurative, soprattutto la pittura preraffaellita. In altri termini un cristianesimo torbido era già presente in Dostoevskij, investendo l’irrealtà quale giustificazione e soddisfacimento della pulsione: il peccato in convento o rivolgersi alla messa dopo la compulsione sessuale equivale sul piano filosofico ad assumere il sacro come profondità del profano e non come sua necessaria contraddizione. Huysmans predilige il latino post-classico perché si ritrova nella mancanza di equilibrio senecana e nel compiacimento di Petronio, molto più che nel tentativo del periodo cristiano di costringere a una mediazione il paganesimo e la nuova religione. Gide riceve una sostanziale stroncatura, eternamente oscillante tra la paura di compromettersi – a differenza di Wilde, che sfidò quella paura ribaltandola nella provocazione, fino a uno stupido errore di calcolo masochista (l’algolagnia) – e il desiderio di compromettersi. Gide è visto da Praz come un «ermafrodito morale, sospeso tra diverse possibilità e, in conclusione, negativo, sterile.» Ciò che dispiace di questo libro è semmai la considerazione in cui l’autore mostra di tenere Sainte-Beuve (già nell’Avvertenza del ’42, o per i rapporti tra Byron e Chateaubriand, per es., e comunque non sempre portato a modello), che, come è risaputo, non comprese Stendhal.

Quando si parla di Praz non si può non pensare alla sua casa. L’abitazione privata di Praz, oggi museo, era l’oggettivazione dell’io di Mario Praz, come se fosse una casa della morte. Non l’io sperimentale, anagrafico o pratico, bensì un io profondo, che stava al di qua degli oggetti – la sua collezione di arti minori – e al di là anche del suo caro e semplice io. Quella mancanza di vita, in un rispecchiamento dell’io sublime che si riconosceva negli oggetti raccolti nella casa-museo di Praz, era una contemplazione della morte sottoforma di vita, restituita dalle conversation pieces. Era  inconfondibile il sentimento di claustrofobia che doveva venirgli dalle arti minori, dove si rispecchiava e ritrovava quel suo io: «Con i colori più caldi, con l’amorosa sensualità melodica che Tasso e Rubens avevano nutrito nella sua penna, – ha scritto Pietro Citati – provava a immaginare quella vita pura e senza oggetti che forse avrebbe potuto conoscere. Gli sembrava di aver fallito in tutto, riempiendo la casa di cose morte, uccidendo attimi incorporei di tempo possedendo un’esistenza che non gli apparteneva.» Tutto doveva restare immune dalla contaminazione del mondo, a prezzo dell’isolamento, perché tutto fosse perfetto e intangibile nella contemplazione della bellezza.

Ma la vita ha una forza incontrollabile e presenta svolte immoralistiche, completamente imprevedibili. Vicino a Mario Praz, esattamente al piano superiore della casa di via Zanardelli, dopo la lavorazione di Gruppo di famiglia in un interno (1974) di Visconti, per caso andò ad abitare Mario Schifano, che aveva dichiarato di voler abbandonare la pittura e dedicarsi al cinema, da lui giudicata arte viva. Detestava lo psicologismo di Bacon, non gli interessava Morandi, non lo riguardava Pollock, apprezzava Raushemberg come uomo e non come pittore. Amava de Chirico, Boccioni, Balla, Picabia, Picasso, Jasper Johns, Jim Dine. Come artista si dava alle più sperimentali incursioni maledettistiche fin nel mondo delle droghe pesanti e Praz era vistosamente imbarazzato di averlo come vicino. Schifano faceva un gran chiasso, era scomposto assordante ambiguo senza ritegno, inquinava il silenzio della sua solitudine, lo disturbava. Il professore era infastidito, aveva perso la pace, senza neppure ritrovare la vitalità smarrita nella perfetta collezione delle sue conversation pieces. Questa singolare situazione circolò nel mondo artistico-letterario romano dei primi anni Settanta, colpì Luchino Visconti, già malato, dopo la trilogia tedesca, per la portata profetica che il suo film veniva ad assumere in questa determinata circostanza. A Praz come alter-ego del regista e alle sue miniature, alla sua casa-museo, alla sua rinuncia al mondo esterno, alla defunzionalizzazione del suo sapere (e, d’altro canto, a Mario Schifano trasfigurato a posteriori nella volgare e attraente famiglia di inquilini, emblema dell’invivibilità del presente, che vengono a invadergli l’abitazione), si era infatti ispirato Enrico Medioli per il personaggio del professore. Visconti ne fece un Kammerspiel, un film-requiem tutto girato in interni, come a teatro, citando la Recherche, dove si parla di un inquilino immaginario al piano di sopra che si aggira, inquietante, misterioso, come una metafora della morte.

Cos’è un dogma? La riflessione di Hans Jonas (di Alessio Perigli)

Jonas cerca di comprendere se il concetto di dogma sia analizzabile da un punto di vista ermeneutico. Paolo Nepi nel suo saggio su Jonas “La responsabilità ontologica” riepiloga la visione del dogma di Hans Jonas: «Nel saggio su Sant’ Agostino, Jonas ricostruisce le tre fasi attraversate dalla speculazione agostiniana sulla libertà: la fase antimanichea, quella paolina e, da ultimo, la fase antipelagiana. La riflessione di Agostino sulla libertà si trova tuttavia a seguire un percorso segnato dai due dogmi del peccato originale e della predestinazione. Come si conciliano temi apparentemente contraddittori, come quello della libertà, da una parte, e del peccato originale e della predestinazione dall’altra? Jonas affronta tali questioni nell’appendice al suo studio su sant’Agostino, dal titolo significativo Sulla struttura ermeneutica del dogma. Cosa significa parlare di “struttura ermeneutica del Dogma”?. Significa riconoscere che la proposizione dogmatica ha almeno due livelli di comprensione.

Primo livello. Si tratta di quello immediato, legato al contenuto materiale delle affermazioni contenute nelle verità che i dogmi definiscono e propongono alla fede del credente. Nel linguaggio stesso in cui sono formulati, i dogmi rispecchiano la struttura razionale della comunicazione apofantica1, quella in cui un predicato attribuisce i contenuti ad un soggetto determinandone l’identità cognitiva. Per questo il linguaggio dei dogmi viene definito da Jonas “dialettico”, nel senso che non esiste nessun livello cognitivo che trascenda il piano dell’affermazione contenuta nella definizione dogmatica. Secondo livello. Se analizziamo tuttavia la struttura ermeneutica del dogma in tutta la sua estensione e profondità, ci dice Jonas, notiamo che la verità dogmatica non esaurisce tutta la complessità esistenziale che ha prodotto le affermazioni apofantiche contenute nelle proposizioni dogmatiche. I dogmi non sono altro che l’oggettivazione di qualcosa che ha a che fare con l’esperienza vissuta del Dasein, e che ad essa rimandano se vogliono essere compresi in tutta la ricchezza del loro significato.»2 Il dogma non può essere scorporato dal suo fondamento ontologico e metafisico. Jonas individua due caratteristiche fondamentali che identificano il dogma:

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Religione, male e sofferenza. Mircea Eliade e il mito dell’eterno ritorno. Una recensione critica.

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Tutta la giusta ambizione umana è riassunta nel verbo “comprendere”. Ciò che comunemente intendiamo per “comprendere” coincide con “semplificare”. Primo Levi, dopo aver studiato sociologia nel laboratorio “umano” di Auschwitz, direbbe che senza una profonda semplificazione della realtà, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema. Tendiamo a semplificare ogni cosa, a farcela amica.
Ogni riduzione è scienza, e ogni scienza è drasticamente semplice, quindi più o meno “irreale”. Questo vale anche per il fenomeno religioso. La maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o almeno, non sono semplici come piacerebbe a noi. Ogni chiave interpretativa sulla religione merita un determinato spazio nell’analisi. Ma bisogna affiancare l’una all’altra chiave interpretativa. Tutte insieme, non una sola. Dunque, il fenomeno religioso reggerà anche alla seguente semplificazione, anzi, ne varrà arricchito. Fenomeno religioso ridotto, da Eliade, a “Cercare un senso al caos della storia” = Richiesta di senso alla sofferenza. Il fenomeno religioso, nella sua interezza, nelle sue innumerevoli espressioni planetarie, può essere ridotto alla ricerca di senso, ad un semplice quanto angoscioso tentativo di “normalizzare la sofferenza“, “sopportare la storia” (cfr. anche le conclusioni, simili a quelle di Eliade, di De Martino ne “La fine del mondo”).

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Il volto femminile della filosofia. Una recensione

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Il “Volto femminile della filosofia” vuole essere più di un libro, saggio o ricerca filosofica: è anzitutto un esame attento delle vite dei grandi pensatori del passato, uno sguardo curioso sulle loro dinamiche familiari, sulle condivisioni affettive ed esperenziali, per carpirne, come e quanto, queste ne abbiano influenzato pensiero e produzione. È un excursus biografico e bibliografico, che vede le donne compagne di viaggio, autrici nascoste di gesti, parole, azioni, che hanno condizionato, qualche volta indirizzato o addirittura educato il pensiero maschile. Eroine silenti di gesta quotidiane: mogli, madri, figlie, sorelle che, a modo loro, spesso come sagge consigliere, alle volte come presenze ingombranti, hanno contribuito a rendere grandi i filosofi.

Socrate, Seneca, Agostino, Immanuel Kant, Sigmund Freud per esempio abbiamo scoperto aver ricevuto ottimi esempi di vita rispettivamente da Fenarete, Elvia, Monica, Anna Regina e Amalie. sono nomi di donne comuni che la storia non ricorda perché non hanno scritto nulla, né tantomeno compiuto niente di eclatante, eppure il loro insegnamento, la loro esemplarità di vita, il loro carattere e pensiero hanno forgiato spiriti attenti, menti geniali e uomini di spessore. E il loro ruolo, non solo di genitrici ma anche di consigliere, viene riconosciuto pubblicamente da molti dei figli. Dirà per esempio Sant’Agostino ne Le Confessioni di Monica: “ci amò come se di tutti fosse stata la madre e ci servì come se di tutti fosse stata la figlia”, e Antonio Gramsci scrive alla madre “tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato tutte le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già nell’unico paradiso reale che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri figli” e ancora Giovanni Gentile dirà della genitrice: “la sua voce ancora e sempre dentro mi suona”.

 Da figli a padri, perché i pensatori hanno avuto vere e proprie lezioni di vita dalle stesse figlie, così per esempio Galileo Galilei, che nel periodo del processo e poi dell’abiura, veniva premurosamente sostenuto dalla figlia suor Maria Celeste, che così scriveva al padre: “considerando io (…) la giustizia della causa e la sua innocenza in questo particolare momento, mi consolo e piglio speranza di felice e prospero successo, con l’aiuto di Dio benedetto, al quale il mio cuore non cessa mai d’esclamare, e raccomandarla con tutto quell’affetto e confidenza possibile. Resta solo ch’Ella stia di buon animo, procurando di non pregiudicare alla santità con il soverchiamente affliggersi, rivolgendo il pensiero e la speranza sua in Dio, il quale, come padre amorevolissimo, non mai abbandona chi in Lui confida e a Lui ricorre”. Altre figlie come Jenny Marx e Anna Freud, calcheranno in tutto per tutto le orme dei loro illustri padri, divenendo attente discepole di un pensiero a cui daranno col tempo il loro contributo femminile.

Un posto nella storia dei filosofi è riservato anche alle sorelle: anime consanguinee, presenze attente alle volte anche fastidiose. Donne che si ritrovano a condividere parte della loro esistenza con uomini insicuri, fragili e desiderosi di consigli (sarà così per esempio per Blaise Pascal nei confronti della sorella Jacqueline), o riottosi, iracondi ed ermetici nelle riflessioni, spesso infastiditi da suggerimenti femminili non richiesti (è notoria a tal proposito l’insofferenza nutrita da Friedrich Nietzsche per la sorella Elisabeth).

E infine ci sono le donne amate, compagne di vita, in grado di lasciare nell’animo del filosofo pensieri malinconici tali da diventare stralci di poesie, così per esempio scriveva di Emilie, Voltaire “Non ho perso un’amante, ho perso la metà di me stesso”, mentre arrabatandosi nel suo dolore Kierkegaard affermava di Regina Olsen “La legge di tutta la mia vita è che lei ritorna in tutti i punti decisivi”; mentre Beccaria scriveva alla moglie Teresa sono in mezzo alle adorazioni, agli encomi, i più lusinghieri, considerato come compagno e collega dei più grandi uomini dell’Europa, guardato con ammirazione e con curiosità […] e pure io sono infelice e malcontento perché lontano da te”. Quando vicine le donne amate diventano invece preziose alleate, stelle polari, punti di riferimento nel cammino esistenziale, amiche che ascoltano e guidano, muse ispiratrici. Uno per tutti Karl Popper disse di Josephine Anna Henninger: “Senza di lei (…) molto di ciò che ho fatto non sarebbe mai stato realizzato“.

Nell’opera di Miriam Rocca, dunque, uomini straordinari di ieri e di oggi sono sempre affiancati da donne: donne che vivono nell’ombra, donne ispiratrici, donne impavide, fredde o generose, perché, come affermava Maritain: “… l’essere umano non è compiuto se non nell’uomo e nella donna presi insieme“.

Antropologie negative, modernismo e antimodernismo. La filosofia di Giovanni Paolo II

(Nell’immagine al lato, un quadro di William Blake)

Sul tema della filosofia di Giovanni Paolo II abbiamo già pubblicato recentemente un intervento (link). Aggiungo sull’argomento una interessante pubblicazione di Micromega, intitolata Karol Wojtila. Il grande Oscurantista, con interventi di Kung, Franzoni, Gigante, Flores d’Arcais, Coda, Severino, Bianchi, Vattimo, Riccardi, Cacciari, Galimberti, Savater, Kolakowski, Marchesi, Viano, Paglia, Pavanelli. A parte il titolo un po’ sensazionalista, ed il taglio di Flores d’Arcais secondo me un po’ troppo impegnato a mostrare un Giovanni Paolo II scagliato contro l’illuminismo, il libro offre un’ottima panoramica filosofica/teologica sul pontefice. Riguardo il suo anti illuminismo, affrontato più volte da Flores d’Arcais, vanno aggiunte delle precisazioni: non è certo Giovanni Paolo II più di altri pontefici contro l’illuminismo. Tesi forte del mio intervento, di cui verrà data spiegazione, è che la Chiesa è per sua essenza, ideologia e struttura, anti illuminista e antimodernista, per le tre ragioni che vedremo in seguito.

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Il Manzoni eretico. La sua filosofia e la sua teologia

“Ogni tanto tra mezzo al ronzio continuo di quella confusa moltitudine, si sentiva un borbottar di tuoni, profondo, come tronco, irresoluto; [..] que’ tempi, forieri della burrasca, in cui la natura, come immota al di fuori, e agitata da un travaglio interno, par che opprima ogni vivente, e aggiunga non so quale gravezza ad ogni operazione, all’ozio, all’esistenza stessa. Ma in quel luogo destinato per sé al patire ed al morire, si vedeva l’uomo già alle prese col male soccombere alla nuova oppressione; si vedevan centinaia e centinaia peggiorar precipitosamente; e insieme, l’ultima lotta era più affannosa, e nell’aumento de’ dolori, i gemiti più soffocati: né forse su quel luogo di miserie era ancora passata un’ora crudele al par di questa”. (I promessi sposi – 1840, cap XXXV, descrizione del lazzaretto)

Alessandro Manzoni è il letterato romantico italiano che più di tutti avverte la tremenda dicotomia tra fede cristiana e ragione, ma non solo; lo studio attento delle sue opere tradisce più volte la rassicurante lettura cattolica che per molto tempo ha dominato la sua interpretazione critica. Il messaggio più nuovo e moderno di Manzoni, il suo insegnamento problematico, angosciante e tutt’altro che autoritario e dogmatico, sta nel porre il lettore di fronte all’ignoto ed al segreto della vita senza rinunciare alle armi della ragionevolezza, della filosofia, del pensiero e del buon senso, ma tuttavia indicandone la debolezza, la fallacia. La fallacia di ogni tentativo di indicare un senso precostituito della vita, un “sugo della storia”, e soprattutto, un senso razionale al male. Sotto i colpi del Manzoni maturo, non cade solo la rassicurante ragione illuminista delle sue prime opere, o il teleologico idealismo hegeliano, ma anche la rassicurante fede cattolica e la sua teodicea: crolla cioè ogni legittimità di interpretare i legami tra mondo divino e storia umana. Manzoni cioè opera una vera e propria decostruzione, anche ironica, dell’idea cattolica di provvidenza.

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La filosofia di Giovanni Paolo II: un bilancio nel giorno della sua beatificazione

La fede e la ragione sono come due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. E’ Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo ed amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stessoGiovanni Paolo II nell’enciclica “Fides et Ratio” (1998). Questa citazione, riportata un po’ ovunque, sembrerebbe esemplificare il nodo centrale della teologia e della filosofia di Giovanni Paolo II, di chiara ispirazione tomista. Leggendo però meglio la Fides et Ratio, ci si accorge del primato della rivelazione sulla filosofia. Oggi, primo maggio 2011, nel giorno della sua beatificazione, un bilancio della suo pensiero è quasi obbligato.

Sempre nella Fides et Ratio, il papa polacco, dopo aver elogiato e ringraziato la filosofia per aver guidato nel corso dei secoli il pensiero umano verso la verità, commenta:

La filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull’essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che l’uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti. Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. Di recente, poi, hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino quelle verità che l’uomo era certo di aver raggiunte. La legittima pluralità di posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull’assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto contemporaneo. A questa riserva non sfuggono neppure alcune concezioni di vita che provengono dall’Oriente; in esse, infatti, si nega alla verità il suo carattere esclusivo, partendo dal presupposto che essa si manifesta in modo uguale in dottrine diverse, persino contraddittorie tra di loro. In questo orizzonte, tutto è ridotto a opinione. Si ha l’impressione di un movimento ondivago: la riflessione filosofica mentre, da una parte, è riuscita a immettersi sulla strada che la rende sempre più vicina all’esistenza umana e alle sue forme espressive, dall’altra, tende a sviluppare considerazioni esistenziali, ermeneutiche o linguistiche che prescindono dalla questione radicale circa la verità della vita personale, dell’essere e di Dio. Di conseguenza, sono emersi nell’uomo contemporaneo, e non soltanto presso alcuni filosofi, atteggiamenti di diffusa sfiducia nei confronti delle grandi risorse conoscitive dell’essere umano. Con falsa modestia ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale. E’ venuta meno, insomma, la speranza di poter ricevere dalla filosofia risposte definitive a tali domande.

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Il tempo fra Oriente ed Occidente. La relatività del tempo…

Cos’hanno incomune il filosofo indiano Shankara e il filosofo occidentale Agostino?

Un occidente che contrappone tempo ed eternità, un oriente che li identifica. L’apparente esistenza sostanziale del tempo è un errore di prospettiva della filosofia e teologia occidentale. In realtà, sembra dire Coomarasmamy, tutto è divenire, il tempo è solo una illusione prospettica. Tempo come mera unità di misura del divenire. Ecco alcune righe di Ananda Kentish Coomaraswamy, in Tempo ed eternità, Luni editrice, 2003, pp. 14-15, un libro di cui fornire una recensione esaustiva appare davvero difficile.

Esamineremo la dottrina del Tempo e dell’Eternita nei contesti vedico, buddhista, greco, cristiano e islamico. Entrambi i termini sono ambigui. Il Tempo è sia la totalità, o una parte, del continuum della durata passata e futura, sia questo punto presente del tempo (nunc fluens) che distingue fra loro le due durate. L’Eternità è sia, dal nostro punto di vista temporale, una durata senza inizio né fine sia, in se stessa, quel punto inesteso del tempo che è Ora (nunc stans). Dal punto di vista che si puo chiamare esteriore o letteralista, si concepisce che il tempo, nel primo senso, abbia avuto un inizio e proceda verso una fine; esso viene pertanto contrapposto all’eternità considerata come una durata perpetua senza inizio né fine.

L’assurdità di queste posizioni diventa manifesta se ci domandiamo con S. Agostino: “Che cosa faceva Dio (l’Eterno) prima di creare il mondo”; la risposta è, naturalmente, che essendo il tempo e il mondo interdipendenti — o, in termini di “creazione”, concreati — la parola “prima” non ha alcun senso in una tale questione. E’ per questo che l’esegesi cristiana afferma abitualmente che “en archè” in principio, non implica un “inizio nel tempo” bensì un’origine nel Principio Primo; ne consegue logicamente che Dio (l’Eterno) crea il mondo ora e sempre. La dottrina metafisica contrappone semplicemente il tempo in quanto continuum all’eternità, che non è nel tempo e che non può essere propriamente chiamata durata perpetua, poiché essa coincide con il presente reale, l’istante, di cui non si può avere esperienza nel tempo. Qui la confusione sorge solo per una coscienza che riflette in funzione del tempo e dello spazio, poiché, per essa, un “istante” succede a un altro “istante” senza interruzione e sembra che vi sia una serie indefinita d’istanti, collettivamente assommati nel tempo. Questa confusione può essere dissipata se ci rendiamo conto che nessuno di questi istanti ha durata e che, quanto alla misura, essi sono tutti degli zero la cui somma è impensabile. E’ una questione di relatività: siamo noi ad essere in movimento, mentre l’ora è immutabile anche se sembra spostarsi – proprio come il sole sembra levarsi e tramontare a causa della rotazione della terra.
 

Cos’è la Laicità? Il concetto di un Dio non più necessario

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(Nel disegno, l’interferometro del celebre esperimento di Michelson-Morley)

Il 20 settembre 2010 ricorrrevano i 140 anni dalla breccia di Porta Pia, e qui a Roma si è festeggiata la capitale d’Italia. Una ghiotta occasione per parlare di laicità e religione. Ma cosa centra l’interferometro di Michelson con Dio? Niente di esoterico, niente a che fare con la spazzatura stile Dan Brown o Giacobbo!

Per secoli si era creduto che la luce, per propagarsi, avesse bisogno di un substrato, l’etere appunto. L’esperimento di Michelson-Morley dimostrò che questo ente postulato, l’etere, non esistesse, o che, più diabolicamente, quando anche ammettendo la sua possibile esistenza, esso non avesse nessuna influenza sulla luce e sulla sua propagazione.

Con l’ente Dio, a livello di storia delle idee, accade la stessa cosa. Il mondo, la scienza, e le istituzioni laiche si sono sviluppate partendo dalla convinzione che non sia più un tassello indispensabile. In questo, più recentemente,  ha avuto un ruolo fondamentale Darwin; per primo ha parlato di vita ed evoluzione, con un sistema suffragato dai fatti, senza  la necessità di alcun intervento provvidenziale o divino. E’una idea troppo “blanda”, questa, di laicità? Libri come quello di Monod, Caso e necessità, teorizzano invece non certo una “prudente” inutilità di Dio, ma di più, un Suo ostacolo sia Etico, sia Logico che Epistemologico allo sviluppo di una mentalità laica.

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Piccola critica a René Girard.

René Girard, chi è costui? Fra i filosofi teoretici, da alcuni anni, è scoppiata una vera e propria girard-mania (Vattimo docet). Tutti lo studiano, tutti lo citano (ai miei tempi, anche io lo studiai, e di certo ha fascino, il fascino di un narratore che crede, nel suo romanzo, di aver risolto tutti i misteri dell’universo). Certo, citarlo non significa condividerne il pensiero tout court, ma io ci penserei due volte a citare un autore simile, non vorrei legittimarlo troppo.  Molto ma molto sinteticamente, ecco le mie principali ragioni sul perché il sistema proposto dal tuttologo francese sia uno dei nuovi miti del mondo filosofico, e si basi su dei profondi equivoci, molto spesso sulla non conoscenza di questo autore.

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Filosofia al femminile e fallocentrismo vaticano

Ho visto al cinema  il film di Amenabar, Ipazia, dedicato alla filosofa più famosa della storia. Davvero, considero delle vere e proprie genialate del regista le inquadrature che dalla città di Alessandria si perdevano nello spazio, in orbita, a relativizzare gli eventi di quelle formiche, lì in basso, tutte prese a combattersi in nome di dèi e divinità, in nome di appartenenze, sottocategorie di appartenenze. La stessa eroina  Ipazia, tutta protesa a capire i misteri dell’ellisse e delle orbite planetarie, tutta protesa ad ascoltare la pitagorea musica dell’universo, piuttosto che a sedare i rumori di folle barbare ed infeoricite che la circondavano. Un film abbastanza falso, piuttosto una bella messa in archetipo su cosa sia la ricerca filosofica, cosa il dogma, cosa la speranza, cosa la fede. Una delle frasi più significative del film è di Ipazia, che risponde ad un vescovo, altro archetipo di talebano: Voi non potete dubitare, io devo.

A proposito di fede, oggi leggo questo articolo sulla Repubblica; è significativo per capire cosa sia l’appartenenza fideistica ad un gruppo, ad un partito, ad una chiesa, cosa, per opposto, sia la filosofia:

LE NUOVE LEGGI DEL VATICANO
Chi ordina prete una donna finisce
a giudizio nei tribunali del Sant’Uffizio

Insieme all’eresia, all’apostasia e allo scisma, sarà tra i delitti più gravi. Inasprimento anche sui preti pedofili

MILANO – L’ordinazione sacerdotale delle donne, l’eresia, l’apostasia e lo scisma. Nuovi delitti del foro ecclesiastico saranno contenuti nell’aggiornamento del Delicta graviora, il documento che accompagnava il Motu proprio «Sacramentorum sanctitatis tutela», firmato nel 2001 da Giovanni Paolo II. Il nuovo documento conterrà anche procedure più restrittive sulla pedofilia. Secondo fonti informali – per ora non confermate nè smentite dal Vaticano – l’aggiornamento cui sta lavorando la Congregazione per la Dottrina della Fede e che sarà reso pubblico la settimana prossima, prevederà che coloro che conferiranno l’ordinazione sacerdotale a esponenti del sesso femminile potranno essere giudicati dai tribunali dell’ex Sant’Uffizio.

SCOMUNICA -L’ordinazione sacerdotale di donne è già proibita dal Vaticano. Il 29 maggio del 2008 l’Osservatore Romano ha pubblicato un decreto firmato dal prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, card. William Jospeh Levada, che disponeva la scomunica «latae sententiae» cioè automatica per chi ordina donne prete e per le donne che ricevano l’ordinazione. Ora, secondo le indiscrezioni raccolte, con l’aggiornamento dei Delicta graviora, l’ordinazione delle donne dovrebbe essere«elevata a delitto più grave». I delitti contro la fede più gravi contemplati dal Delicta graviora attualmente previsti sono essenzialmente tre: l’attentato contro l’eucaristia, l’attentato contro la santità della confessione e l’abuso sessuale su un minore.