Jan Patočka, Il mondo naturale come problema filosofico. Una recensione

a cura di Guelfo Carbone *

Pubblicato a Praga nel 1936, Le monde naturel comme problème philosophique (Nijhoff, La Haye 1976) è lo scritto di abilitazione del giovane Jan Patočka, che fu, come è noto, allievo diretto sia di Husserl che di Heidegger. Del primo assistette nel 1929 a quei Discorsi parigini che formano il nucleo delle Meditazioni Cartesiane, del secondo nel 1933 seguì a Friburgo i corsi universitari posteriori a Essere e Tempo, non rinunciando però a proseguire gli studi privatamente con Husserl e Fink. Decisive, in particolare per il Mondo naturale, furono le conferenze di Vienna e Praga del 1935, quest’ultime confluite nella I e II parte della Krisis, le uniche pubblicate da Husserl, l’anno successivo, proprio nel 1936, contemporaneamente a una recensione dello stesso Patočka. Patočka dunque visse in prima persona il conflitto aperto tra il padre della fenomenologia e il suo «miglior allievo» eretico, e quel suo primo significativo contributo alla filosofia fenomenologica ne porta tutti i segni evidenti. Ma non è questo il merito del suo libro. O perlomeno non è questo il motivo dell’interesse per uno studio che per forma e contenuti si presenta, a prima vista, con intenti principalmente divulgativi e riepilogativi della fenomenologia. È l’intuizione che sta al fondo, o a monte, del lavoro di Patočka che risveglia l’interesse – fenomenologico, in primo luogo, ma non solo – per il tema di cui si fa portatore, quello appunto della costituzione del mondo in cui ognuno di noi vive e può vivere, quel mondo «unico e comune» di cui parlava Eraclito (fr. 89, Diels-Kranz), al centro delle riflessioni husserliane nella Krisis.

Il problema del mondo, che secondo Fink era la questione «centrale» della fenomenologia, ha – nell’opinione di chi scrive – provocato in maniera determinante l’esigenza della «nuova fenomenologia» che mosse le Meditazioni Cartesiane di Husserl e ciò che ne seguì. Ed è un filo rosso del pensiero del suo allievo eretico, che si dipana dall’inizio (i primi corsi pubblici a Friburgo) alla fine (il Mondo-Quadro del dominio tecnologico), oltre che un compito del pensiero odierno. Sta dunque qui la ragione principale dell’interesse per il libro di Patočka: averne sospettato l’importanza al punto da farne un polo di gravitazione dei temi fondamentali della fenomenologia e del suo metodo (l’intenzionalità, la riduzione, l’empatia, la costituzione intersoggettiva), che vengono qui discussi in relazione alla riabilitazione del mondo naturale operata dalla fenomenologia husserliana in aperto contrasto con le altre filosofie sue contemporanee, e pure, in particolare, con le scienze.
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Ceci n’est pas un pope

 

Iconografie vecchie e nuove, ibridi postmoderni

Il mito dell’Abbé Pierre dispone di una carta preziosa: è la sua testa.  E’ una bella testa, che presenta chiaramente tutti i segni dell’apostolato: lo sguardo buono, il taglio francescano, la barba missionaria, tutto ciò completato dal giubbotto prete-operaio e dalla canna del pellegrino. In tal modo si uniscono le cifre della leggenda e quelle della modernità” (Roland Barthes, Iconografia dell’Abbé Pierre in Miti d’Oggi)

Novità, gesto rivoluzionario? Un ulteriore gesto titanico? Ritorno al passato?  Parliamone. Della filosofia e teologia dell’ultimo binomio di papi della Chiesa Cattolica ci siamo già occupati qui e qui. Tutto cambia, tutto resta uguale. Ma ora si tratta di un inaspettato colpo di coda del pastore tedesco. Qualcuno ha paragonato queste quasi laiche “dimissioni” (quasi fosse un lavoro “profano”, tanto il linguaggio stesso è rimasto spiazzato) al gesto di Celestino V, l’ingenuo monaco eremita contemporaneo di Dante  costretto al “rifiuto” dall’animale politico Bonifacio VIII, che di lì a poco divenne uno dei principali burattinai d’Europa. Forse, Celestino V fu addirittura assassinato da Bonifacio VIII nella sua reclusione coatta di Fumone. Se vogliamo riferirci alla storia, essa è piena di figure che rompono l’iconografia moderna pontificia. Piena di papi atipici: anti papi, papi guerrieri,  papi con figli, papi avvelenati, papi avvelenatori, papi cospiratori, papi eretici, papi astrologi,  papi rapiti, catturati e detenuti, e morti in cattività lontani da Roma. Papi scomunicati da imperatori, umiliati da generali, da eserciti e re, papi scomunicati da anti papi. Papi, al contrario, che umiliano i potenti. Specie prima del concilio di Trento. Nel caso di Ratzinger, non è possibile fare paragoni storici, e ogni paragone storico è funzionale a costruire modelli più o meno impropri, mitologici o, al contrario, irriverenti. Quel che però si può dire da laici del gesto di Ratzinger è in realtà un ricorso storico più generale: un tornare a  quella umanità sempre maledetta e sempre esorcizzata, individuale certo, ma anche funzionale, politica e machiavellica del ruolo papale, così adombrata (almeno al grande pubblico popolare) negli ultimi secoli dell’era tridentina della Chiesa Cattolica, quando seguendo un certo storico trend si è addirittura arrivati a proclamare dogmaticamente, in chiave antimoderna, antidemocratica e antilluminista, contro il demone del liberalismo, l’infallibilità ex cattedra del papa.

Lo stesso  Giovanni Paolo II, l’ultimo grande comunicatore della Chiesa, da buon polacco aveva esaltato, e non diminuito, l’iconografia eroica e mistico-passionale del papato, anche grazie al suo tristissimo fine-vita, per giungere alla sua morte cristica trasmessa come un Death-Reality nelle case del mondo cristiano e non. Concetti e miti intramontabili per gruppi considerevoli di cattolici, rappresentati pienamente da dinosauri fossili e passionisti come Stanislaw Dziwisz, che ora dichiara: “Wojtyla restò, riteneva che dalla croce non si scende”. Il teologo e filosofo Ratzinger, l’accademico (di curia) e l’uomo che ha vissuto tutta la vita nei suoi libri, e diciamolo, almeno quelli, i “suoi libri”, li conosceva abbastanza bene (probabilmente più di quanto conoscesse gli squali della sua curia), ha ritenuto che decomporsi in pubblico seguendo il Cristo martire volontario raccontato nei Vangeli, nonché il suo padrino Karol, non è poi così dignitoso né eroico. E pure se fosse eroico, non gli interessava una beneamata. Specie quando non poteva nemmeno difendersi dai suoi maggiordomi e vescovi spioni. Ora di lui si dirà di tutto: letture cospirazioniste o storico-hegeliane, alleandosi, racconteranno che la funzione-Ratzinger (non l’individuo) è stata costretta dalla politica, dalla curia, dalle banche (che ora vanno così di moda) e dal Nanni Moretti nazionale al suo gesto. Altri diranno, al contrario, che è il gesto di un individuo che ha scelto liberamente la sua vita e il suo fine-vita. Mediando fra le due note posizioni (e fra i due stili di pensiero), quel che è certo: è un piccolo passo verso la normalità, un piccolo passo  di una Chiesa ancora modellata su miti archetipi e mediatici come il padre-re-pastore, l’eroe martire,  espiazioni didattiche, sangue, croci e qualche chiodo. Ancora fisso. In estrema sintesi, le sue dimissioni sono uno “straordinario” gesto laico (straordinario perché raro) e antimitico da parte di un teologo-papa-di-biblioteca che da frequentare utilissimi compagni di merenda come Karl Rahner si convertì purtroppo alle paludi del tomismo,  ma che probabilmente è sempre rimasto fedele (e le sue “dimissioni” lo confermano) ad una visione molto umanistica e pratica, decisamente poco mistica, della sua vita e del suo ruolo. Si direbbe uno stile da basso profilo, da anti epopea, da anti santino, senza Valchirie, senza Anelli da gettare nel monte Fato e  Nibelunghi. Tipicamente tedesco, visto che ai cliché siamo abituati. “Beato quel popolo che non ha bisogno di eroi”: era la beatitudine laica di un altro noto tedesco del Novecento.

 

Hannah Arendt, Il concetto d’amore in Agostino. Una recensione di Angela Del Gesso

La foto di una giovane Hannah Arendt

La vita felice è la vita che non può essere perduta. La vita terrestre è una mors vitalis oppure una vita mortalis , una vita inscritta nella morte. Tale vita diventa una costante paura.” E poco oltre: “ove non c’è morte e di conseguenza non c’è futuro, è possibile vivere sine angore curae”

Questo è ciò che si legge in alcune righe del saggio sul concetto di amore in Agostino che Hannah Arendt scrisse in occasione del conseguimento della sua laurea, sotto la tutela di Jaspers. L’incontro con Heidegger era già avvenuto. La Hannah che si approccia all’interpretazione dell’amore agostiniano è già stata segnata intellettualmente ed umanamente dall’incontro con l’autore di Essere e Tempo ed il lavoro a cui ci stiamo riferendo ne è una testimonianza. Tramite la riflessione sui concetti agostiniani, Arendt ,infatti, palesa un’attenzione particolare ai temi cari ad Heidegger: il problema della temporalità, la questione della posizione ontologico-esistenziale della morte, la dimensione intramondana dell’esistenza. Il brevissimo passo sopra riportato è una conferma di tale tendenza arendtiana e, allo stesso tempo, è esemplificativo dell’approccio della Nostra alla questione Agostiniana. Agostino è un autore ed un uomo controverso; le sue opere sono indissolubilmente legate alle  fasi della sua vita e ai diversi gradi di consapevolezza che acquisisce rispetto alla propria esistenza e, quindi, rispetto all’esistenza dell’uomo e alla sua posizione nei confronti del creato. Fare un’analisi unitaria della sua opera senza ricostruire cronologicamente le sue idee è un lavoro arduo. Hannah Arendt è la protagonista di tale impresa. Il suo saggio è un’ analisi del concetto di amore che viene affrontato non tanto dal punto di vista metafisico ed ontologico, quanto,invece,nei suoi aspetti fenomenologici ed esistenziali.

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Emile Cioran: la conoscenza, la storia, la condizione umana

LO SCENARIO DELLA CONOSCENZA (tratto da “Sommario di Decomposizione”)

Le nostre verità non valgono più di quelle dei nostri antenati. Avendo sostituito ai loro miti e ai loro simboli dei concetti, ci riteniamo «progrediti»; ma quei miti e quei simboli non esprimono meno dei nostri concetti. L’Albero della Vita, il Serpente, Eva e il Paradiso non significano meno di Vita, Conoscenza, Tentazione, Incoscienza. Le raffigurazioni concrete del male e del bene nella mitologia non sono meno eloquenti di quanto lo siano il Male e il Bene dell’etica. Il Sapere – in ciò che ha diprofondo – non cambia mai: varia soltanto lo scenario. L’amore continua senza Venere, la guerra senza Marte e, se gli dèi non intervengono più negli avvenimenti, non per questo gli avvenimenti sono più comprensibili o meno sconcertanti: un apparato di formule sostituisce soltanto la pompa delle antiche leggende, senza che le costanti della vita umana ne siano modificate, dato che la scienza non le coglie più intimamente di quanto non facciano i racconti poetici. La presunzione moderna non conosce limiti: ci crediamo più illuminati e più profondi di tutti i secoli passati, dimenticando che l’insegnamento di un Buddha pose migliaia di esseri davanti al problema del nulla, problema che immaginiamo di aver scoperto noi perché ne abbiamo cambiato i termini e vi abbiamo introdotto un pizzico di erudizione. Ma quale pensatore dell’Occidente reggerebbe il confronto con un monaco buddhista? Noi ci perdiamo in testi e in terminologie: la meditazione è un dato sconosciuto alla filosofia moderna. Se vogliamo conservare un certo decoro intellettuale, l’entusiasmo per la civiltà, come la superstizione della Storia, devono essere banditi dal nostro spirito. Per quello che concerne i grandi problemi, noi non abbiamo alcun vantaggio rispetto ai nostri antenati o ai nostri predecessori più recenti: si è sempre saputo tutto, almeno per ciò che riguarda l’Essenziale; la filosofia moderna non aggiunge nulla alla filosofia cinese, indù o greca. D’altronde non potrebbe esserci alcun problema nuovo, malgrado la nostra ingenuità o la nostra infatuazione che vorrebbero persuaderci del contrario. Nel gioco delle idee chi mai ha eguagliato un sofista cinese o greco, chi ha spinto più lontano di lui l’ardimento nell’astrazione? I limiti estremi del pensiero sono stati tutti raggiunti da sempre – e in tutte le civiltà. Sedotti dal demone dell’Inedito, dimentichiamo troppo spesso che siamo gli epigoni del primo pitecantropo che ebbe la pretesa di riflettere.
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Martin Hengel, Ebrei, Greci e Barbari. Una recensione

Tempio di Oropos (Attica). Di qui proviene l'iscrizione del più antico ebreo ellenizzato della storia: "Mosco, figlio di Moschione, giudeo, in seguito a un sogno su ordine del dio Anfiarao e di Igea"

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Il presente studio, editato dall’autore nel 1981, è la meta a cui egli è arrivato dopo anni di intense ricerche compiute sulla storia giudaica; ricerche che hanno trovato forma di espressione nella rivista che da anni accoglie i più importanti studi sul versante storico del giudaismo, la Cambridge History of Judaism. Tale opera dunque non è altro che la riproposizione in forma più vasta, aggiornata e compita dei precedenti contributi che egli pubblicò su tale rivista. Erudito in discipline storiche e filosofiche, l’autore riprende un tema tanto caro nella sua precedente produzione letteraria: l’incontro-scontro culturale del giudaismo con l’ellenismo con particolare riferimento alla Palestina fino alla seconda metà del II sec. a.C. L’autore stesso afferma: “questo lavoro rappresenta in molti punti una continuazione della ricerca svoltavi. I nuovi reperti archeologici che continuano a venire alla luce, come pure i continui progressi della ricerca, forniscono un ricco materiale a questo scopo”. Il presente contributo si colloca perciò nella stessa prospettiva dei precedenti: il tema preso costantemente in questione dall’autore è “l’incontro tra il giudaismo e la cultura ellenistica” in tutti i suoi aspetti, anche filosofici. L’autore, professore di N.T. all’Università di Tubinga, tratta questo argomento con l’intento di chiarire questo tema limitatamente a “quel periodo della storia giudaica tuttora oscuro per la precarietà delle fonti, in quanto egualmente lontano per gli studiosi dell’Antico Testamento come per quelli del Nuovo“, dal momento che proprio in tale periodo “vennero posti i fondamenti decisivi per l’autocoscienza del popolo giudaico dell’«epoca neotestamentaria» e non solo della diaspora nell’area di lingua greca, ma anche della madrepatria, la Palestina”.

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Dodds, pagani e cristiani in un’epoca di angoscia. Una recensione

Apollonio di Tiana, una sorta di Cristo pagano. Le fonti (specie Filostrato) gli attribuiscono poteri, miracoli e vaticini.

Profondo conoscitore delle fonti classiche, l’autore riprende in questo testo edito originariamente nel 1965 un topos caro alla sua precedente produzione letteraria: il cosiddetto “irrazionale” si identifica fortemente col modello greco-ellenistico inteso come esperienza del mistico e dell’esoterico (1). L’autore, in quest’opera, pur essendo un fervente razionalista di larghe vedute, presenta il mondo delle paure e delle stravaganze del periodo tardo romano: si avvertono in filigrana determinati stati modificati di coscienza, di esperienze esoteriche e mistiche, nonché nuovi modi di pensare e di vivere. Nel periodo cruciale che va dall’ascesa al trono di Marco Aurelio alla conversione di Costantino, rileva i principali aspetti dell’esperienza religiosa; è periodo in cui il mondo precipita nella decadenza materiale, in cui fioriscono i nuovi e più intensi sentimenti religiosi e in cui si assiste a un mutamento di prospettiva intellettuale. È una vera e propria epoca di angoscia, perché ciò che conta per l’uomo di quel tempo non sono più i valori materiali e morali, ma l’idea di infinito e di salvezza; cristiani e pagani, secondo una nota tesi storiografica, sono impegnati a pensare più a se stessi che alla realtà esteriore: “gli uomini stavano cessando di osservare il mondo esterno e di cercare di capirlo, utilizzarlo o migliorarlo: essi erano portati a pensare a se stessi…L’idea della bellezza dei cieli e del mondo passò di moda, e fu sostituita da quella dell’infinito”. L’autore tratta questo argomento con l’intento di poter essere di interesse specialmente a chiunque non abbia ancora “una conoscenza specifica del pensiero antico o della teologia cristiana”.

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Werner Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci. Una recensione

Statua di Zeus, copia di originale greco (IV secolo AC)

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Il  titolo e l’intero libro rispecchia la traduzione italiana, curata da Ervino Pocar, dell’opera originale dello Jaeger che è la seguente: Die Theologie der frühen griechischen Denker, Stuttgart, 1953. Nella precedente produzione letteraria dell’autore, relativa ai pensatori greci, erano già presenti alcuni temi afferenti alla loro spiritualità (1) e paideia (2), nonché la sua piena versatilità verso la filosofia greca, in particolare verso Platone e Aristotele, non mancando qualche digressione su Posidonio e Demostene (3). Se da un lato il presente contributo si colloca nella stessa prospettiva dei precedenti, perché l’ambito della sua ricerca orbita intorno ai filosofi greci, dall’altro supera o meglio completa i precedenti, perché l’oggetto del presente contributo – che è la teologia – non è altro, per l’autore, che la meta finale del progresso spirituale e formativo dello stesso spirito greco.

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Cinzia Randazzo, Lettura filosofico-teologica di Giovanni nel commento di Origene. Una recensione

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Lettura ermeneutica e filosofico-teologica di Gv 1,1, nel commento di Origene al Vangelo di Giovanni

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La suddetta monografia scritta dalla dottoressa Cinzia Randazzo, cultrice in materie storico-religiose, offre al lettore un’interessante lettura ermeneutica e filosofico-teologica riguardo al Commento di Origene limitatamente al primo versetto del vangelo di Giovanni, analizzando passo dopo passo la progressione del pensiero di Origene. L’autrice tratta questo argomento con l’intento di chiarire, da un lato, i capisaldi della interpretazione origeniana  del primo versetto del vangelo di Giovanni e, dall’altro, di presentare i punti nevralgici del suo pensiero filosofico e teologico al contempo: “l’intento, quindi, di questo nostro lavoro è quello di presentare i tratti peculiari della esegesi di Origene; tratti che, come vedremo, danno adito ad una vera e propria progressione concettuale del pensiero dell’autore sulla verità del Logos. Per riuscire in questo nostro intento, ci siamo proposti di confrontarci con la filosofia medio-platonica e neoplatonica, delle quali l’autore è stato fortemente impregnato” (p.8)

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Cinzia Randazzo, Dall’archè all’eschatos. La figura di Cristo nell’A diogneto. Una recensione

Epigrafe di Irene ("pace" in greco), Catacombe di S.Callisto (Roma)

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Dall’Archè all’Eschatos. La figura di Cristo alle sorgenti dell’esistenza cristiana nell’A Diogneto

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Nella precedente e posteriore produzione letteraria dell’autrice, relativa ad alcuni documenti cristiani dei primi secoli, erano già presenti alcuni temi afferenti alla figura di Cristo. Il presente contributo si colloca nella stessa prospettiva del precedente (1) e del posteriore (2) : l’identità di Cristo e la sua funzione nel mondo a partire dall’arché fino all’eschatos. L’autrice, collaboratrice al Pontificio Ateneo Salesiano di Roma, tratta questo argomento con un duplice intento:

1) quello di chiarire la figura di Cristo in rapporto alla filosofia medio-platonica e medio-giudaica del tempo.

2) quello di mostrare la volontà dell’anonimo autore di costruire un dialogo fra Giudei  e i Cristiani da un lato, e fra i Pagani e i Cristiani dall’altro, senza escludere il messaggio attuale dell’opera che si presta ad instaurare un possibile dialogo tra Ebrei e non Ebrei.

L’autrice quindi affronta la questione cristologica nell’A Diogneto – un documento che, all’unanimità degli studiosi, risale alla seconda metà del II secolo – partendo dalle principali tappe in cui si dispiega l’economia della salvezza.

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Jurgen Habermas, Tra scienza e fede. Una recensione

La secolarizzazione dell’autorità statale e la libertà positiva e negativa dell’esercizio della religione sono due facce della stessa medaglia. Esse hanno protetto le comunità religiose non soltanto dalle conseguenze distruttive dei sanguinosi conflitti fra di loro, ma anche dallo spirito antireligioso di una società laicistica. È vero che lo Stato costituzionale può proteggere i suoi cittadini religiosi e non religiosi gli uni dagli altri soltanto quando questi non solo trovano un modus vivendi nella reciproca frequentazione, bensì vivono per convinzione in un ordinamento democratico. Lo Stato democratico si nutre di una solidarietà che non si può imporre con le leggi, fra cittadini che si considerano reciprocamente membri liberi ed eguali della loro comunità politica” (Jurgen Habermas, Tra scienza e fede)

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La traduzione del titolo in italiano di questo libro è già di per sé un’eloquente estremizzazione di un conflitto, ed una riduzione del conflitto a temi che evocano un problema ideologico più settoriale. Il titolo originale tedesco è infatti “Zwischen Naturalismus und Religion” , cioè “tra naturalismo e religione”, e si sa, un titolo simile evoca battaglie del tutto diverse (e vende molti meno libri). Guidato dalla sua ben nota tesi della “razionalità comunicativa”, il più noto filosofo tedesco contemporaneo, Jurger Habermas, in questo libro percorre un tracciato che si dipana tra lo scientismo e l’intransigenza religiosa, due correnti opposte che ritiene possano minacciare la coesione civica. Ma, come avverte nell’introduzione, i capitoli del libro sono stati scritti in occasioni diverse e non costituiscono un insieme sistematico. Habermas negli ultimi anni si è in effetti occupato di numerose tematiche contemporanee, dal multiculturalismo fino al confine tra la fede e la scienza, compresi temi legati al diritto internazionale. Il volume sarà di sicura utilità per tutti coloro che s’interessano di filosofia sociale, morale e politica così come di filosofia della religione e di filosofia della scienza, e sarà più adatto a coloro che hanno già familiarità con l’autore e hanno il desiderio di conoscere gli ultimi sviluppi del suo pensiero.

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Eric Dodds, I Greci e l’irrazionale. Una recensione (di Francesco Di Matteo)

Gli uomini che hanno creato il primo razionalismo europeo non sono mai stati – fino all’età ellenistica – “semplici” razionalisti: vale a dire, erano profondamente e mentalmente consapevoli del potere, della meraviglia e del pericolo dell’irrazionale. Ma potevano descrivere quello che succedeva sotto la soglia della coscienza solo nel linguaggio mitologico o simbolico; non avevano nessuno strumento per capirla, ancora meno per controllarla” (Dodds, I Greci e l’irrazionale)

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Dionisio e Apollo erano così rivali in Grecia? Razionalità greca, un mito o un modello per i “moderni”? Qual è stata la vera mentalità degli antichi Greci? Differiva dalla nostra? Abbiamo ricevuto un’idea distorta dei Greci da generazioni di studiosi classici? La filosofia greca si basava davvero (come ci è stato insegnato) sulla netta divisione fra mito e storia, razionale/irrazionale? E qual è il significato di queste domande per la nostra società? Queste sono le questioni a cui tenta di rispondere Dodds in questo libro, pubblicato mezzo secolo fa, ma ancora attuale, fresco e pieno di rilevanze per noi postmoderni, storiograficamente meno ingenui rispetto a qualche anno fa. Dodds però non opera in un contesto di valorizzazione del mito e di qualificazione, come per esempio ha fatto un certo filone irrazionalisitico o come ha fatto Károly Kerényi nei suoi lavori sulla mitologia greca e sulla religiosità classica. Il suo scopo è più propriamente rivalutare una grecità costruita a tavolino dagli storiografi, e mostrarne contraddizioni e complessità.

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Il problema del Male

“Si Deus est unde Malum?”

(Boezio, De consolatione philosophiae)

La domanda su Dio, che è poi la domanda sul Male, esiste da tempo immemorabile: basti pensare alla Bibbia stessa, nel libro di Giobbe o nel Qohèlet (Ecclesiaste), o semplicemente le parole di Gesù Cristo sulla croce: Elì, Elì, lamà sabactanì?” (Mt 27,46; cfr. Mc 15,34), ovvero “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Si pone nella storia inevitabilmente il problema delle domande su e a Dio, ma il quesito che più tormenta i pensatori è quello ben espresso da Epicuro : «La divinità o vuol togliere i mali e non può o può e non vuole o non vuole né può o vuole e può. Se vuole e non può, è impotente; e la divinità non può esserlo. Se può e non vuole è invidiosa, e la divinità non può esserlo. Se non vuole e non può, è invidiosa e impotente, quindi non è la divinità. Se vuole e può (che è la sola cosa che le è conforme), donde viene l’esistenza dei mali e perché non li toglie?» .
Nella storia in particolare un evento ha messo in risalto il problema del Male : Auschwitz. Auschwitz è stato il mostrarsi del Male assoluto, privo di motivazione, il Male finalizzato al Male e accolto nel silenzio da Dio; si crea perciò un problema teologico, filosofico, o più semplicemente “umano”: alla luce di un evento come Auschwitz, chi non voglia rinunciare sic et simpliciter a credere nell’esistenza di Dio, deve per forza rivederne il concetto.

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