L’altra India (Amartya Sen), una recensione. Le origini della filosofia, il laicismo e lo stato laico

Se ordini il libro tramite il nostro link usufruisci di uno sconto significativo: L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radice della cultura indiana (Oscar saggi)

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Amartya Sen, nel suo interessante studio intitolato “L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radice della cultura indiana”, intraprende un filone di studi assai poco battutto qui in Europa, o magari, di scarsa visibilità. Nella citazione riportata in questo articolo, parla del sovrano indiano musulmano Akbar – fine del XVI secolo -, e cioè nel felice tempo in cui noi Europei ci scannavamo per questioni importantissime, tipo le religioni (ma la vera posta in gioco era ben altra), e mentre bruciavamo Giordano Bruno a Campo de Fiori. Ciò che riporto del nobel bengalese è anche utile a smitizzare la tutta da dimostrare e arcinota equazione “radici cristiane = stato laico”, quell’equazione che vede solo nelle radici giudaico/cristiane la possibilità dell’instaurarsi di uno Stato inteso in senso moderno (tesi, peraltro, già smentita, tra gli altri, da Federico Chabod, in tempi non sospetti). Nella sua semplicità stilistica ma anche nella sua competenza, l’autore offre, anche per non specialisti, una visione chiara e demitizzata, direi, non esotica, dell’India, della sua cultura e storia, dei suoi innumerevoli problemi.

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La filosofia è morta? Recensione di Eco all’ultimo libro di Stephen Hawking

Se ordini il libro tramite il nostro link usufruisci di uno sconto sigificativo: Il grande disegno (Saggi stranieri)

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La filosofia non è Star Trek (da L’Espresso online)

Sulla “Repubblica” del 6 aprile scorso era apparsa un’anticipazione del libro di Stephen Hawking e Leonard Mlodinow, “il grande disegno” (Mondadori, euro 20) introdotto da un sottotitolo che peraltro riprendeva un passaggio del testo, “la filosofia è morta, solo i fisici spiegano il cosmo”. La morte della filosofia è stata annunciata varie volte, e quindi non c’era da impressionarsi, ma mi pareva che un genio come Hawking avesse detto una sciocchezza. Per essere sicuro che “Repubblica” non aveva riassunto male sono andato a comprare il libro, e la sua lettura mi ha confermato nei miei sospetti.

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La conoscenza in una Società libera, riflessione di Gianni Vattimo

Una riflessione di Gianni Vattimo sul libro “La Conoscenza in una Società libera“, un lavoro collettivo di Marino Centrone, Vito Copertino, Rossana de Gennaro, Massimiliano Di Modugno e Giacomo Pisani.

La conoscenza in una società libera è stato il tema di un seminario che un gruppo di ricercatori ha svolto nel corso del 2009-2010 nei Giardini di Avalon a Molfetta. Nel volumo Marino Centrone analizza la natura dispotica del sapere nella società contemporanea, il sapere come potere; Vito Copertino individua nel paradigma della complessità il carattere della nuova narrazione, della nuova scienza; Rossana de Gennaro affida al pensiero utopico il superamento della miseria del presente; Massimiliano Di Modugno presenta il rapporto fra anarchismo e post-strutturalismo come una nuova filosofia al lavoro; Giacomo Pisani analizza il concetto di alienazione.

Altre recensioni: Zona Franca; Il Fatto (rivista di Molfetta); Quindici.

Filosofia nei manga. Una recensione

Se ordini il libro tramite il nostro link convenzionato, usufruisci di un significativo sconto: La filosofia nei manga. Estetica e immaginario nel Giappone contemporaneo (Il caffè dei filosofi)

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Nell’immaginario comune, il mondo dei manga e degli anime è generalmente ritenuto soltanto uno svago per bambini e adolescenti, privo di contenuti con spessore.

La realtà è però ben diversa, come dimostra efficacemente Marcello Ghilardi, ricercatore e autore di Filosofia nei manga. Estetica e immaginario nel Giappone contemporaneo (Mimesis, pp. 162, € 14).

Dopo aver tracciato un profilo storico-culturale dei manga, comprendente le tappe più importanti (dagli schizzi di Hokusai alle influenze sull’arte di Van Gogh) con riferimenti alla tradizione artistica ed estetica della Cina e del Sol Levante, lo studioso si sofferma su alcuni aspetti significativi dei fumetti del Sol Levante, spesso sfuggenti a un lettore digiuno di rudimenti filosofici e di un’approfondita conoscenza del contesto nipponico. Si pensi, per esempio, ai numerosi accenni  all’etica e alle vicende dei samurai, o ai valori del buddhismo e dello shintoismo, trasparenti solo a una minoranza di occidentali.

Uno dei temi portanti dell’opera è rappresentato da un’approfondita e documentata riflessione sul complesso rapporto intercorrente tra uomini, robot e cyborg, e ai legami intercorrenti fra le tre categorie; da essi Ghilardi tenta di estrinsecare una sorta di ontologia dell’automazione, riflettendo sulle cause che l’hanno generata e sulle ragioni che hanno decretato il suo successo. Nel fare ciò, illustra le teorie di Gomarasca in merito (le storie di robot racchiudono una metafora sociologica, una psicologica e una storica); in parallelo alla trattazione teorica, l’autore presenta  testimonianze concrete, sviscerando alcuni aspetti tanto interessanti quanto poco noti di manga e anime più o celebri (Neon Genesis Evangelion, Gunslinger girl, Ghost in the shell, etc.).Nel denso contributo di Marco Pellitteri, Giappornologie, vengono evidenziati altri elementi caratterizzanti la produzione nipponica contemporanea, vale a dire quelli legati al mondo del sesso e del porno, con un’attenzione particolare verso le loro radici socio-antropologiche e le dinamiche sottese; anche in questo caso, la figura dell’automa (in particolare della donna cyborg) e quella della bambola gonfiabile assumono un significato ben preciso, in quanto esseri passivi, non minacciosi e facilmente controllabili.

Conclude il volume La verità dell’illusione, dedicato al regista Satoshi Kon che, con le sue commistioni di onirico e reale, umano e cibernetico, ha dato vita a nuovi orizzonti cinematografici e semantici, in cui l’apparenza – non di rado dall’impronta postmoderna – si confonde e si sposa con ciò che siamo abituati a chiamare  (riduttivamente?) realtà.

(dal blog www.bibliotecagiapponese.it)

Il cimitero di Praga (Umberto Eco), una Recensione

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Alla radice dell’ultimo libro di Umberto Eco, Il cimitero di Praga, c’è la “Forma Universale del Complotto“. Un impegno di non poco conto tanto per lo scrittore quanto per il lettore. In effetti per Simonino Simonini, protagonista indiscusso del Romanzo (e, per certi versi, della nostra Storia ottocentesca), si tratterebbe solo di scegliere, organizzare, ordinare e comporre tutto quello che, in realtà, sarebbe già di pubblico dominio, perchè “La gente crede solo a quello che sa già“. Ex falso sequitur quodlibet non è semplicemente un teorema (attribuito tradizionalmente a Duns Scoto), citato nel libro, che indica come dal falso possa seguire qualsiasi cosa individuata a piacere, ma è il fil rouge del Romanzo d’Appendice scritto da Umberto Eco (a trent’anni dal Nome della Rosa). A pensarci bene non è neanche qualcosa da far passare completamente inosservata perchè, attraverso questo “percorso” privilegiato, si potrebbe tranquillamente arrivare a certe “storture” della coscienza sociale che si vivono (in maniera sempre più assuefatta) ai “giorni nostri”. E, a pensarci ancora meglio, ci sembra una citazione già ripresa da Giorgio Agamben nelle prime pagine del libro “La Comunità che viene“. Quindi tutto si rende molto interessante, molto attuale.

Non faremo una recensione sistematica, svelando trame e personaggi (interventi di un taglio differente potreste trovarli nei link segnalati, di volta in volta, in coda a questo testo). Ci sembrerebbe ingeneroso nei confronti dello sforzo narrativo e della vitalità editoriale. Le recensioni dovrebbero servire solo a creare dibattito, non a descrivere i libri. Per questo focalizzeremo il nostro interesse solo su un aspetto, forse il più importante, attraverso il quale proveremo a tratteggiare la fisionomia del confronto che si potrebbe creare: lo stretto legame che generalmente si produce tra creazione del “Complotto” ed inviduazione del “Nemico”. Tutto il Romanzo, infatti, sembra essere teso a descrivere le trame, intrecciate tanto dalla casualità quanto dalla necessità, che hanno portato alla diffusione dei “Protocolli dei Savi anziani di Sion“. Nel libro si narrano vicende storicamente accadute (solo il personaggio di Simonino Simonini è prodotto dal nulla, o meglio è la ricostruzione di una serie di trame), si fa una genealogia approfondita del “dispositivo Complotto” e di come esso possa essere utilizzato per costruire e depotenziare (quando non distruggere) il “Nemico”. Si narra della generazione di un paradigma che intreccia pezzi di immaginario collettivo, si astrae dalla Realtà e viene utilizzato, con declinazioni diverse a seconda delle esigenze, per scopi differenti e da organizzazioni anche molto lontane. Ingrediente fondamentale di questa ricetta non è, naturalmente, la Verità ma sono le immaginazioni popolari, gli interessi (alti e bassi) dei sistemi sociali e la comodità storica. Così, attraverso le stesse strutture di accusa, si potrebbero colpire ugualmente gruppi sociali anche contrapposti. Per certi versi si potrebbe considerare una scrittura complementare a “Teoria del Partigiano” di Carl Schmitt.

L’unica vittima sacrificale di tutto questo processo di creazione sembra essere, in modo particolare, proprio la Verità. In questo modo la Storia si confonde con il Presente, un Presente in cui ognuno si sente in diritto/dovere di dare al Mondo la propria opinione, magari riuscendo a dire anche l’esatto opposto a distanza di qualche momento. E’ il Presente veicolato dalla mediatizzazione, dagli strumenti di anonimizzazione che nascondono il Corpo e le azioni dietro fasci digitali ad alta velocità. E’ il Presente in cui andrebbe ricercato un nuovo “patto” tra Verità e Parola.

Si potrebbe inserire Il cimitero di Praga nella vetrina della New Italian Epic perchè, a nostro avviso, ne possiede tutti gli elementi utili. Sembra anche essere sicuramente un testo pop (popular), non solo per il successo di pubblico ma anche per il modo “basso” di narrare una Storia (si entra direttamente a contatto con una certa “tranquillità del quotidiano”, con i suoi canoni e le sue paure condivise).

Alcune recensioni: Giornalettismo.com.

Gesù di Nazaret. Recensione di Flores d’Arcais all’ultimo libro di Ratzinger

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(dal Fatto Quotidiano, 25/03/2011, p. 18)

Gesù non era cristiano

Gesù non era cristiano. Era un ebreo osservante, che mai avrebbe immaginato di dar vita a una nuova religione e meno che mai di fondare una “Chiesa”. Non si è mai sognato di proclamarsi il Messia, e se qualcuno degli apostoli ha ipotizzato che fosse “Cristo”, lo ha fulminato di anatema. All’idea di essere considerato addirittura “Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”, secondo il “Credo” di Nicea, sarebbe stato preso da indicibile orrore.

Gesù era un profeta ebreo itinerante, esorcista e guaritore, che annunciava l’ “euangelion” apocalittico del “Regno” incombente per intervento divino. Ha predicato quasi esclusivamente in Galilea, per pochi mesi se stiamo ai tre sinottici, al culmine dei quali, recatosi a Gerusalemme, avendo provocato qualche disordine, viene condannato alla crocifissione per sedizione. Storicamente, una figura di minore importanza rispetto a Giovanni che battezzava sulle rive del Giordano, e ad altri predicatori apocalittici del suo tempo. Come ha scritto il maggior biblista cattolico italiano del dopoguerra “la vicenda di Gesù, al di fuori di quanti a lui si richiamano, è stata, in realtà, di poca o nessuna rilevanza politica e religiosa: una delle non poche presenze scomode in una regione periferica dell’impero romano, messe prontamente a tacere in modo violento dall’autorità romana del posto con la collaborazione, più o meno decisiva, di capi giudaici” [Giuseppe Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, Bologna 2002, p.39].

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Altai

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[…] – Le ultime volontà di mia madre furono che venissi cresciuto da buon giudeo. A questo mi sono ribellato per tutta la vita, fino a diventare l’opposto, un vessatore della mia gente. Eppure oggi sono qui. Forsa era destino che andasse così, che facessi un giro lungo e tortuoso. Il disegno di Dio è imperscrutabile. Non possiamo sapere in anticipo quali accidenti ci porteranno a essere ciò che siamo, nè possiamo sapere se i mezzi che scegliamo si riveleranno giusti. Quel che so è che stanno accadendo grandi cose, Cipro è il progetto più ambizioso che un ebreo abbia mai immaginato, e io sono stufo di stare qui ad aspettare -. Puntai il dito verso il vecchio. – Le vostre sconfitte non rendono vano il tentativo di riprovarci. Potere scegliere se essere di nuovo utile a una causa, oppure star qui ad attendere che abbocchino i pesci. […]

ALTAI, Wu Ming

“Progetto Locale”, Alberto Magnaghi. Una recensione…

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Un Progetto sul Territorio
Suggestioni alternative per una lettura di “Progetto Locale”


Nonostante la globalizzazione, la circolazione mondiale delle merci e delle comunicazioni, l’istantaneizzazione della Vita e dei rapporti individuali e commerciali ed il dominio del virtuale e dell’aria, la Terra non è scomparsa. Senza Terra non c’è speranza. I punti di partenza e di arrivo sono sempre ben radicati al suolo. Ci si imbarca su un aereo, si accede ai network virtuali, si attraversano i mari e gli oceani (per turismo o per lavoro), sempre a “partire da” e a “finire con” la terraferma. Porti, aereoporti, stazioni, postazioni internet. Sono proprio questi luoghi “terrestri” dell’incontro e della comunicazione, di imbarco e di sbarco delle cose e degli Esseri umani, che cominciano ad assumere un significato diverso. Sono i crocevia della retorica imperiale, spazi di conflitto tra piani e striature. Come le strade disegnate e realizzate dai romani in Età repubblicana, la striatura del Potere che mostrava ai barbari le vie della presenza e della diffusione della cittadinanza romana e della legge, della civitas e dell’ordine. Oltre il limes della pianificazione stradale poteva esserci solo la foresta, con i suoi sentieri oscuri e la sua barbarie da ordinare, disciplinare e controllare. La retorica del potere, quindi, ha ancora entusiasticamente bisogno della Terra per esprimersi e per costruire un discorso che sia visibile, che sia reale. Lo sguardo e l’udito si perdono senza la materialità della Terra. Per questa ragione i Luoghi diventano, più di ieri, potenziali veicoli di diffusione, organizzazione e controllo di massa. Ci ritroviamo nel ben mezzo di quel conflitto-confronto tra “spazio liscio” e “spazio striato” individuato dalle visioni estatiche di Deleuze e Guattari: “Lo spazio liscio e lo spazio striato – lo spazio nomade e lo spazio sedentario – lo spazio dove si sviluppa la macchina da guerra e lo spazio dove si istituisce l’apparato di Stato non sono della stessa natura. Ma a volte possiamo notare un’opposizione semplice tra i due tipi di spazio. Altre volte dobbiamo rilevare una differenza molto più complessa, per cui i termini successivi delle opposizioni considerate non coincidono del tutto. Altre volte ancora dobbiamo ricordare che i due spazi esistono in realtà solamente per i loro incroci reciproci: lo spazio liscio non cessa di essere tradotto, intersecato in uno spazio striato, lo spazio striato è costantemente trasferito, restituito ad uno spazio liscio.” (Deleuze e Guattari 1980, p. 698). Spazio liscio e spazio striato, quindi, non sono una perfetta dicotomia conflittuale ma due elementi in continua interazione, in equilibrio storico precario che potrebbe risolversi per l’uno o per l’altro a seconda delle circostanze. Siamo pienamente inseriti su questa bilancia che ora sembra essere a favore delle striature, laddove ogni spazialità è descritta da norme e funzionamenti processuali. La striatura, ad ogni modo, cerca sempre di chiudere lo spazio mentre “nel liscio ci si ‘distribuisce’ su uno spazio aperto”. (ivi, p. 706). Bisogna tenere in conto le interazioni.

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Bloch racconta Munzer, una Recensione.

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo: Thomas Münzer teologo della rivoluzione (Universale economica. Saggi)

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Ernst Bloch, Thomas Munzer teologo della rivoluzione, Feltrinelli, Milano (traduzione di Simona Krasnovsky e Stefano Zecchi).

Quella di Ernst Bloch non è semplicemente una biografia. Il suo ritratto di Thomas Munzer (o Muntzer, stando a wikipedia) è piuttosto il racconto di un’Epoca, di una trasformazione che cammina direttamente sulle gambe degli Esseri umani. Bloch, infatti, narra innanzitutto un passaggio, quello dall’homo spiritualis all’homo oeconomicus (“l’uomo piatto che si adatta agli ordini pubblico-giuridici esistenti, troppo tiepidi e poco illuminati”, p. 95), che si snoda nel rapporto tra Religione e Politica, quando entrambe si interessano al “religàre” cioè al mettere insieme una Comunità secondo precise Norme (in ambito Sacro e “civile”). Non è un caso che la prima edizione del libro di Bloch risalga al 1921, contemporaneamente alla pubblicazione del volume “La Dittatura” di Carl Schmitt. Il libro su Muntzer, quindi, sembra inserirsi in un tentativo tutto “tedesco” di rispondere tanto alla Crisi strutturale (economica, sociale, istituzionale…) generata dal primo Conflitto mondiale quanto alla strada rivoluzionaria intrapresa dalla Russia bolscevica. Però se Schmitt, semplificando, giunge a pensare la Dittatura come una forma di “Stato di Eccezione” capace di “sospendere” lo Stato di Diritto per conservare, nella sostanza, l’architettura del Potere “Sovrano”; Bloch riprende il millenarismo di Epoca moderna per tentare di produrre un’Eccedenza, per andare oltre l’impalcatura dello Stato. Entrambi gli autori, però, sembrano interrogarsi sui momenti di Eccezione: che essa si chiami Dittatura (Schmitt) o “Utopia messianica” (Bloch), che altro non è se non un meccanismo di “sospensione” della Storia per percorrere altre strade.

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Il riso, il rito, Umberto Eco. Una recensione de Il nome della rosa

Se ordini Il nome della Rosa tramite il nostro link usufruisci di uno sconto significativo: Il nome della rosa (I grandi tascabili)

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(Gli argomenti di Jorge contro il riso ne Il nome della Rosa di Umberto Eco)

Leggevo recentemente un libro di Walter Burket, “Homo Necans”. Si sta parlando del “rituale” e della sua valenza conservativa. Cito letteralmente:

Forte dell’usanza religiosa è il costume dei padri. E’ dal tempo dei presocratici che si dibatte ostinatamente la questione di come l’umanità sia giunta alle prorpie rappresentazioni religiose, mentre tutti gli individui dell’epoca storica e certamente innumerevoli generazioni dell’età preistorica si lasciarono imprimere la loro credenza religiosa dalla generazione anziana. […] evidentemente, l’importanza dei riti per la perpetuazione delle società umane è stata così grande che, da innumerrevoli generazioni, è diventata essa stessa un fattore di selezione. Chi non vuole o non può sottrarsi ai riti della società non ha alcuna chance al suo interno: soltanto chi è integrato vi agisce ed influisce. Il carattere di serietà dei rituali religiosi diventa qui una reale minaccia: una defaillance psichica di fronte a essi significa la catastrofe personale. Per esempio, un bambino che reagisca alla solennità con la voglia di ridere non sopravviverà in una comunità religiosa. Apollonio di Tiana smascherò d’un colpo un siffatto giovane come posseduto dal demonio; fortunatamente lo spirito cattivo abbandonò subito il giovane atterrito… Abati medievali combattevano il diavolo a veri e propri colpi di bastone, e del resto sino in epoca moderna invalse l’uso della “frusta del diavolo”.

Leggendo queste righe mi sono venuti in mente due elementi. Il primo è un dato personale. Il ricordo di un prete, durante una catechesi, nella mia infanzia. Mi misi a ridere mentre parlava, lui mi guardò come volesse strangolarmi, e disse a tutti in tono perentorio: “Ragazzi, cercate di non ridere mentre parlo. Un po’ è perchè mi mancate di rispetto – non a me, ma all’abito che porto – e poi perchè mentre siamo così in preghiera, il riso non viene da Dio”. Ho un po’ ricostruito, ma queste furono le sue parole lapidarie. Parole che mi ricordano un libro che si è capito poco, un best seller triller-medievale: “Il Nome della Rosa” di Umberto Eco. Qui, Guglielmo di Baskervill (chiamato così anche in onore di Guglielmo d’Ockam, il più radicale nominalista antitomistico del medioevo) ha una discussione con il frate anziano dell’abazia, il venerabile Jorge sul riso. Guglielmo gli dimostra, citando la poetica di Aristotele ed i Vangeli, che il riso non è peccato. L’anziano frate obietta,  non sa rispondere, e lancia improperi su Aristotele e sul rivale citando rabbiosamente altri passi della Bibbia. Il libro che poi l’anziano benedettino nasconde, e per il quale uccide, non è altro che il libro perduto dello Stagirita dedicato al “RISO”.

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vecchio/nuovo Fascismo. Una recensione de l’Uniforme e l’anima

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In Italia sembra essersi riaperta (dall’inizio degli anni Novanta, a dire il vero) una contesa, a tratti controversa e spesso banalmente pletorica (basti considerare la vasta mole di Documentari e fiction che, di tanto in tanto, ingombrano i palinsesti televisivi), sul “Fascismo”. Utilizziamo le virgolette per astrarre il concetto dal suo significato (storico, politico, filosofico…), per rendere la parola piuttosto un significante di qualcos’altro, senza rimanere legati a qualche immagine particolare che spesso si ritrova nei libri (un manganello, il volto crucciato del Duce, il saluto romano, il fascio littorio…). In seconda battuta, quasi per rispettare una certa ritualità, si discute anche sulla ripresa dell’antifascismo da una parte come elemento di memoria storica e, dall’altra, come condensatore di un sempre auspicato “ricompattamento politico”. Si parla, quindi, di “Alleanza democratica” per battere le Destre, richiamandosi al Comitato di Liberazione Nazionale, alla Costituente e quant’altro. Più che parlare di antifascismo si dovrebbe cercare un lessico nuovo, dovrebbero sperimentarsi delle “vie di fuga” dalla realtà, una modalità di lettura e di approccio all’attualità capace di farci fuoriuscire anche dall’avvitamento teorico a cui l’antifascismo, spesso, condanna. Si tratta di ri-elaborare il presente per trovarne il gran rimosso. In tutto questo affannoso confrontarsi l’errore sarebbe quello di rendere il presente un’orma sulla sabbia, cercando di indossare le stesse scarpe utilizzate nel passato. Le scarpe, come tutti sanno, passano di moda o, comunque, si deteriorano con il passare del tempo. Meglio buttarle vie e comprarne di nuove.

Veniamo al dunque. Pensando ai “fascismi”, vecchi e nuovi che siano, si perde spesso di vista un elemento di primaria importanza che ne condiziona, a torto o a ragione, la lettura politica e l’interpretazione storica: la continuità. La continuità descrive e reitera un percorso da seguire. È una melodia, a tratti rassicurante, che salva dal “panico” delle cose nuove, delle immagini violente. La continuità è una cartina di tornasole che permette di distinguere, di dividere, di associare, di paragonare. Per queste ragioni (e per altre ancora) sembra che, per parlare di certe cose, non si possa fare a meno di citare qualcuno, di utilizzare una bibliografia ed un apparato critico di note e noterelle che, a volte, paiono indispensabili. Che cosa sono, spesso, le note se non un ponte sul passato per ottenere una legittimazione del presente? È un po’ la condanna della storiografia, quella che permette la “conservazione”. È la cultura accademica che si fa politica, si fa, appunto, continuità e diventa cultura sic et simpliciter. La continuità è legittimazione, è forza universitaria, è paradigma veritativo. Per stare a questo gioco, per svolgere adeguatamente il nostro ruolo, ci limitiamo solo a citare Antonio Gramsci, dai “Quaderni del Carcere”:

Come è possibile pensare il presente e un ben determinato presente con un pensiero elaborato per problemi del passato spesso ben remoto e sorpassato? Se ciò avviene, significa che si è “anacronistici” nel proprio tempo che si è dei fossili e non esseri modernamente viventi.

In questo modo proviamo ad incrinare la “condanna” della continuità.

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TERRONI, una recensione!

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“Il mio paese? È quello che mi accetta”. Pino Aprile, alla fine del suo libro, suggerisce questa domanda ai meridionali. Possiamo dire lo stesso dell’Italia? Il giornalista e scrittore descrive in maniera minuziosa le politiche attuate dal Governo italiano (nordista!) fatta sul Meridione dall’Unità d’Italia fino ai nostri giorni. 150 anni di sfruttamento e pregiudizio che hanno creato un muro economico (e psicologico) tra Nord e Sud.

Partiamo dall’inizio.
Risorgimento: i Savoia “conquistano” il Regno delle due Sicilie e attuano una politica coloniale sul territorio conquistato. Per il “bene dello Stato” drenano tutte le risorse economiche, tutto il meglio che al momento c’era in Italia, da Sud verso Nord. La motivazione? Il pagamento del debito piemontese. Scrive il deputato cavouriano Pier Carlo Boggio nel 1859 “o la guerra o la bancarotta”. Oh! Poverini. Peccato che al momento della conquista, almeno formalmente, i Savoia e i Borboni non erano in guerra. Ma sono dettagli.

Faccio una domanda: I fratelli del nord (così li chiama Pino Aprile) furono effettivamente mossi dai nobili sentimenti di Unità nazionale o dalle più terrene preoccupazioni economiche? Si può rispondere con alcuni fatti.
Il tesoro dell’ex Regno delle due Sicilie sanò il passivo di centinaia di milioni di lire del debito pubblico della nuova Italia. Hmn… come pensavo! Ma non finisce qui. E te pareva! Il nuovo sistema fiscale savoiardo cominciò ad opprimere l’economia Meridionale, facendola diventare una vera e propria colonia da cui attingere risorse economiche e materie prime. Ecco, cominciamo bene. In conseguenza di questa situazione, numerosi meridionali, per circa dodici anni, scelsero la “resistenza armata” contro i presunti liberatori che, di fatto, si palesarono come OPPRESSORI. Chi decideva di non prendere il fucile, sceglieva la valigia. In questo modo cominciò il grande (e quasi ininterrotto) flusso emigratorio del popolo del Sud.

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