Ambiente ed Economia, tra ragioni economiche e biopolitica. Intervista ad Ottavio Marzocca.

Se ordini il libro di Ottavio Marzocca Il governo dell’ethos tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo: Il governo dell’ethos. La produzione politica dell’agire economico (Eterotopie)

— — —

Filosofi Precari intervista Ottavio Marzocca che anticipa i temi della lectio magistralis tenuta al Festival della Filosofia 2011 (introducendo alcune tematiche trattate nel suo ultimo libro Il governo dell’ethos. La produzione politica dell’agire economico).

Il riduzionismo razionalistico in economia. Recensione a “Etica ed economia” di Amartya Sen

Lectio, Dino Valls

Ordinando il libro tramite il seguente link, usufruirai di uno sconto significativo: Etica ed economia (Economica Laterza)

— — —

Riducendo tutte le diverse virtù a quest’unica specie di proprietà, Epicuro si abbandonava ad una tendenza che è naturale in tutti gli uomini, ma che specialmente i filosofi tendono a coltivare con particolare godimento, quale grande mezzo per mostrare la propria abilità, la tendenza cioè a far risalire tutti i fenomeni al minor numero possibile di principi.
(Adam Smith, 1790, trad. di S. Maddaloni)

Smontare i dogmi della razionalità economica moderna è l’obiettivo di questo opuscolo di Amrtya Sen, originariamente partorito in seguito ad un ciclo di conferenze tenute nel 1986 a Berkeley. In particolare, la razionalità intesa come “massimizzazione dell’interesse personale”. Nel saggio, il premio nobel all’economia dimostra che è avvenuto un distacco netto fra etica ed economia, e mostra il danno che l’ipotesi di un comportamento mosso dall’interesse personale ha recato a questa “pseudo-scienza”.

Continua a leggere

FestivalStoria 2011, Torino. Risorgimenti, Ricostruzioni, Rinascite.

E’ in fase di conclusione il FestivalStoria, giunto alla VII Edizione. Come il Festival della Filosofia, un altro appuntamento determinante per la costruzione di un pensiero critico italiano pienamente consapevole delle proprie potenzialità e dei propri sviluppi.
Questi alcuni cenni della prolusione di Angelo D’Orsi. Al riguardo ci viene solo un dubbio. Le profonde contraddizioni del nostro Risorgimento si possono davvero ridurre “banalmente” ad una questione di “Rivoluzione passiva” o, forse, c’è qualcosa di molto più evidente che ci impedisce di fare un ragionamento realmente fuori ogni retorica ideologica e necessità “patriottiche”? L’incapacità di risolvere il problema della diffusione democratica del potere non basta a squalificare il Risorgimento come un movimento di esclusiva colonizzazione?

Quel nostro Risorgimento, dunque, fu cosa importante, benché “rivoluzione passiva” (è ancora Gramsci, che riprende il concetto di un altro grande partenopeo, Vincenzo Cuoco), e incapace di mobilitare le masse, rendendole protagoniste, pur nelle diatribe vivaci, spesso trasformate in forte contrasto, tra moderati e democratici, monarchici e repubblicani, cattolici (ma anche protestanti) e laici (e anche di questo parleremo nei prossimi giorni), malgrado tutto ciò, quel moto ha rappresentato il momento fondativo dell’Italia con le sue pecche, i suoi limiti, certo, ma anche con gli eroismi generosi di quanti, magari suggestionati da Dante e Machiavelli, da Petrarca e Foscolo, immolarono la loro giovinezza. Questa Italia, come quella del “Nuovo Risorgimento”, la Resistenza (a cui non abbiamo, forse colpevolmente, dedicato un apposito incontro), è quella che ci sta a cuore, e non è un caso che nell’età risorgimentale, o immediatamente successiva, si studiò con particolare cura, e vorrei dire accanimento, il Rinascimento: erano due momenti di rinascenza (e anche qui abbiamo un approfondimento specifico, particolarmente originale), che seguivano a fasi di prostrazione della nazione.
Ricostruire dalle macerie, risorgere dalla malattia, rinascere dalla morte del corpo politico: “come può sorgere o rinnovarsi una nazione”. Così recita il sottotitolo dell’edizione, che reca in fondo un augurio sotteso all’Italia, in questa sua fase storica che non esito a definire precatastrofica. Ma la catastrofe può e deve (così insegna la tragedia classica greca), essere l’inizio della rinascita, sia pure a duro prezzo. Un augurio sarebbe necessario anche per la nostra Europa, che, sempre più pare dimostrarsi una unione di banchieri e non di popoli; qui, doverosamente, considerata la sede, ma anche per il suo significato paradigmatico, affronteremo, oggi stesso, con un diplomatico, Jürgen Bubendey, e uno storico, Gian Mario Bravo, il tema del rapidissimo (all’epoca si disse troppo rapido, esempio di artificialismo politico estremo) passaggio dalle due Germanie alla Repubblica Federale unita. Si è trattato di un buon affare per tutti? Sono stati più i vantaggi che gli svantaggi, si direbbe, a giudicare dalla orgogliosa tenuta della nuova Germania nella crisi del Continente, e dalla sua rigogliosa ripresa economica. Ma è tutt’oro quel che riluce? Domani, sempre qui, con un altro studioso tedesco, Karl Schloegel, forse potremo anche cogliere il risvolto della medaglia. Ma guarderemo più largamente al Vecchio Continente, ai suoi incessanti sforzi di costruzione e decostruzione, passati attraverso guerre mondiali e guerre locali, che in certi suoi angoli continuano anche mentre noi siamo qui a parlarne.
E, tornando all’Europa, non sarà che sacri egoismi stanno avendo la meglio sui generosi disegni unitari dei padri fondatori (e persino dei lontanissimi progenitori, come quel Carlo Magno, di cui parleremo a Savigliano domenica, con Giuseppe Sergi e Germana Gandino)?

Comune. Oltre il privato ed il pubblico. Recensione del testo di Hardt e Negri

Se ordini il libro tramite il nostro link usufruisci di uno sconto significativo: Comune. Oltre il privato e il pubblico (Saggi stranieri)
— — —

Ogni aspetto della produzione sociale (l’archeologico “comando” capitalistico, inteso in senso economico-sociale) sarebbe stato sussunto dal Capitale finanziario che, per Antonio Negri (video-intervista sotto), organizzarebbe (in maniera consapevole e come “valore aggiunto” alla valorizzazione) anche la cooperazione e le opportunità del Comune. Oppurtunità che la Moltitudine dovrebbe cogliere costruendo scientificamente la propria autonomia attraverso l’Esodo dai meccanismi dell’appropriazione capitalistica. Esodo come “lotta di classe” e riappropriazione dei mezzi della produzione/riproduzione della Vita utilizzando il lavoro biopolitico come eccedenza sistematica ai limiti del comando del Capitale.
Comune. Oltre il privato ed il pubblico“, per essere molto sintetici, sembra essere un tentativo concreto di pensare l’autonomia politica e sociale della Moltitudine. Dopo gli anni Settanta, dai ragionamenti sull’autonomia operaia (fondamentale, su questo argomento, il libro di Mario TrontiOperai e Capitale“) qualcuno prova a pensare l’autonomia del Comune. Dopo Impero (2002, Rizzoli) e Moltitudine (2004, Rizzoli), l’ultima parte della trilogia hardtnegriana, a nostro avviso, delude le aspettative anche se l’impianto teorico che mette in gioco è certamente di valore. C’è comunque uno scarto evidente tra Moltitudine (il penultimo libro) e Comune. Circa sei anni di incubazione hanno sicuramente prodotto, negli autori, degli investimenti interessanti in termini di realtà e conoscenza delle dinamiche sociali. Ad ogni modo Comune non è, banalmente, il terzo Capitolo di un percorso già pensato ma si presenta come una ripresa ed una radicale rielaborazione dell’intera impalcatura analitica. Molti commentatori hanno descritto la sequenza di Impero-Moltitudine-Comune quasi come un passaggio “dialettico” che parte da un’analisi generale del comando imperiale (Impero), procede verso l’individuazione di una soggettività politica capace dell’alternativa attraverso un’esegesi della composizione dell’antagonismo (Moltitudine) e, infine, si conclude con la creazione di un’alternativa politica vera e propria che prenda spunto dall’espropriazione della produzione immateriale (Comune). Probabilmente questa lettura non è corretta. Abbiamo la sensazione che “Comune” ecceda la traiettoria di Impero-Moltitudine e si presenti come un compendio autonomo. Per questa ragione lo si dovrebbe leggere senza “l’ombra” (decisamente ingombrante) dei fratelli maggiori.

Continua a leggere

La chiave della vita: l’errore. Monod, il caso e la necessità. Una recensione

Se ordini il libro tramite il nostro link usufruisci di un significativo sconto: Il caso e la necessità (Oscar classici moderni)

— — —

“Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto di caso e necessità” (Democrito). Considerate una semplice operazione sul vostro pc: copia-incolla di un programma, o quando masterizzate un cd. Il risultato finale, nonostante le apparenze, non è mai esattamente uguale all’originale. Avvengono degli errori di copiatura del codice binario del programma. Più il progetto che copiate è lungo e complesso, più c’è possibilità che questi errori siano più consistenti. Ebbene, la stessa cosa avviene nel mondo biologico. Il DNA non replica mai se stesso in maniera perfetta. Pensare che la chiave della vita e dell’evoluzione neodarwiniana siano gli errori di replicazione è uno degli spunti più sconvolgenti che vengono dalla lettura de “Il caso e la necessità” di Jacques Monod. In generale, nel mondo che non sia quantistico, si può dire che nulla è uguale ad un’altra cosa. Nella biologia, i contorni di questa “legge” sono netti. Qui non esiste invarianza perfetta, ma solo di principio: dagli organismi più elementari come i virus o i protobatteri fino ai mammiferi, sono le mutazioni “vincenti” la chiave della vita. Se la prima unità vivente del nostro pianeta si fosse riprodotta uguale a se stessa, non ci sarebbe potuto essere l’uomo.

Continua a leggere

Metallo Urlante, Valerio Evangelisti. Una recensione…

Se ordini il libro tramite il nostro link usufruisci di uno sconto significativo: Metallo urlante (Einaudi. Stile libero)

— — —

Nel nostro articolo “Les maitres fous. Le nuove religioni in contesto coloniale e neocoloniale” abbiamo parlato della capacità delle culture “subordinate” di integrarsi con le culture dei “colonizzatori” diventando altro e rimandendo comunque una promessa di libertà (e di liberazione).

Leggendo il libro “Metallo Urlante” di Valerio Evangelisti, nonostante sia stato pubblicato nel “lontano” 1998, ci è tornato alla mente questo concatenamento tra culture. Infatti i quattro racconti del libro (Venom, Pantera, Sepultura, Metallica) trattano esattamente di alcuni modi di (r)esistenza che alcune comunità spendono, generalmente a danno di altre. Non entriamo nel merito dei singoli racconti per provare ad evidenziare piuttosto l’elemento che, più di altri, ne caratterizza il filo conduttore: l’essere sociale.

Infatti nelle narrazioni si tratta essenzialmente della degenerazione delle comunità, della rottura delle relazioni più elementari di solidarietà e dell’implosione di ogni possibilità di emancipazione. I racconti sono distruttivi fino all’eccesso, pieni di una forza evocativa a cui sembra difficile dare torto. Soprattutto alla luce degli Eventi che costellano la nostra attualità. Eppure alcune culture tribali, relegate ai margini della società “civile”, sembrano poter tessere alternative di comunità (sempre destinate al sacrificio ed al martirio “palingenetico”). L’immagine di un ammasso unico di materia vivente che contiene decine di esseri umani e si lancia contro le pareti di un carcere si contrappone alla rappresentazione del Metallo come annichilimento di ogni legame sociale.

E’ nella corporeità che si nasconde la liberazione.

Pantera le si avvicinò e la schiaffeggiò con ponderata violenza. Gli occhi di Gloria si riempirono di lacrime. Lui le sollevò il mento. – Ascoltami bene. Per il paese intero le svergognate siete tu e le tue amiche. In realtà siete ragazze a posto. Ma anche Cindy lo è, solo che è più debole di voi. Guai a chi se la prende coi più deboli, per assomigliare a chi lo umilia. Troverà sempre qualcuno più forte di tutti.

La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz. Una recensione

Se ordini il libro di Mario Praz tramite il nostro link usufruisci di uno sconto significativo: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (Alta fedeltà)

— — —

La ormai classica novità di La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica di Mario Praz (BUR 2009²), pubblicato la prima volta nel 1930, consiste innanzi tutto nel fatto che il libro ripercorre tre letterature, inglese francese e italiana, isolando la sensibilità erotica degli autori romantici, in aperta sfida alla critica idealistica del tempo, e provocando la moralistica stroncatura di Benedetto Croce, che pretendeva una maggiore complessità per il romanticismo e per la vita stessa in cui non doveva prevalere «la patologia sessuale» e che «vuole la distinzione e con ciò l’armonia di tutte le sue parti». Tant’è vero che viene a un certo punto fatto di domandarsi, rileggendo Praz (e questa non è che una delle tante fascinazioni di questo testo, di segno spesso esoterico), quando, e addirittura se, sia davvero finito il Novecento (romantico), dal momento che, in secondo luogo, la più grande e seducente intuizione critica di Praz è stata quella di rimettere radicalmente in discussione le formule storiografiche ricorrenti, dandoci come un unicum indivisibile sia il romanticismo (e non solo le sue propagginazioni più abitualmente riconosciute come tali) sia la scapigliatura sia il verismo sia lo stesso decadentismo, prolungando il periodo romantico come un tutt’uno fino a gran parte della letteratura dello stesso Novecento, o almeno di quello a lui contemporaneo (Praz è morto nel 1982). Secondo Croce, era illegittimo da parte di Praz segnare in modo tanto debole la differenza tra romanticismo e decadentismo, e spingersi a «far consistere il cosiddetto romanticismo nella formazione di una sensibilità nuova, quella appunto che si manifesta nelle tendenze e figurazioni che egli così largamente espone». Nell’Avvertenza alla seconda edizione del 1942 Praz gli risponderà in modo articolato, peraltro basandosi proprio sulla crociana Storia d’Europa nel secolo decimonono, che la sua non è una sintesi del romanticismo tout courtbensì una monografia su particolarità tematiche della sensibilità romantica.

«L’epiteto romantico e l’antitesi classico-romantico sono approssimazioni da lungo tempo entrate nell’uso. Il filosofo le mette solennemente alla porta esorcizzandole con logica che non erra, ed esse rientrano chete chete per la finestra, e son sempre lì tra i piedi, elusive, assillanti, indispensabili.» Comincia così la monografia comparatistica di Praz, e subito segue l’osservazione che critica letteraria presuppone storia della cultura: «storia della cultura d’un ambiente e storia della cultura d’un individuo». Si continua per più di quattrocento pagine fittissime, infarcite di autori, personaggi, citazioni in francese, generi letterari, epoche, ambienti, miti, passioni, ripercorrendo le costanti tematiche della bellezza medusea cantata da Shelley, della metamorfosi diabolica in Byron, di Sade antecedente diretto dei romanzi di Flaubert, della bellezza diabolica celebrata da Keats, della Salomè di Wilde, dell’algolagnia sadomasochistica di Swinburne, dei plagi di D’Annunzio, messe in relazione con le innumerevoli varianti offerte dal contesto di volta in volta analizzato. Un gioco a incastri, aperture, intagli, passaggi sotterranei di cui è impossibile dare un resoconto esaustivo.

Di epicurei dall’immaginazione cattolica risulta piena la grande letteratura decadente a partire da Chateaubriand. Huysmans va d’accordo col marchese de Sade cogliendo una verità da trasgredire proprio in quanto creduta (diversamente non ci sarebbe nulla da violare). C’è il sospetto che Praz tratti la nevrosi di questi autori come un appianamento (o un sollievo) nella delectatio morosa, con un inevitabile residuo di irrisolto nella vita. A questo irrisolto lui sembra aderire perfettamente, perché è anche il suo, e resta il suo quando lo contesta o contestualizza in un’infinità di rimandi, giustamente proiettivi o esclusivi, coinvolgendo i generi minori e le arti figurative, soprattutto la pittura preraffaellita. In altri termini un cristianesimo torbido era già presente in Dostoevskij, investendo l’irrealtà quale giustificazione e soddisfacimento della pulsione: il peccato in convento o rivolgersi alla messa dopo la compulsione sessuale equivale sul piano filosofico ad assumere il sacro come profondità del profano e non come sua necessaria contraddizione. Huysmans predilige il latino post-classico perché si ritrova nella mancanza di equilibrio senecana e nel compiacimento di Petronio, molto più che nel tentativo del periodo cristiano di costringere a una mediazione il paganesimo e la nuova religione. Gide riceve una sostanziale stroncatura, eternamente oscillante tra la paura di compromettersi – a differenza di Wilde, che sfidò quella paura ribaltandola nella provocazione, fino a uno stupido errore di calcolo masochista (l’algolagnia) – e il desiderio di compromettersi. Gide è visto da Praz come un «ermafrodito morale, sospeso tra diverse possibilità e, in conclusione, negativo, sterile.» Ciò che dispiace di questo libro è semmai la considerazione in cui l’autore mostra di tenere Sainte-Beuve (già nell’Avvertenza del ’42, o per i rapporti tra Byron e Chateaubriand, per es., e comunque non sempre portato a modello), che, come è risaputo, non comprese Stendhal.

Quando si parla di Praz non si può non pensare alla sua casa. L’abitazione privata di Praz, oggi museo, era l’oggettivazione dell’io di Mario Praz, come se fosse una casa della morte. Non l’io sperimentale, anagrafico o pratico, bensì un io profondo, che stava al di qua degli oggetti – la sua collezione di arti minori – e al di là anche del suo caro e semplice io. Quella mancanza di vita, in un rispecchiamento dell’io sublime che si riconosceva negli oggetti raccolti nella casa-museo di Praz, era una contemplazione della morte sottoforma di vita, restituita dalle conversation pieces. Era  inconfondibile il sentimento di claustrofobia che doveva venirgli dalle arti minori, dove si rispecchiava e ritrovava quel suo io: «Con i colori più caldi, con l’amorosa sensualità melodica che Tasso e Rubens avevano nutrito nella sua penna, – ha scritto Pietro Citati – provava a immaginare quella vita pura e senza oggetti che forse avrebbe potuto conoscere. Gli sembrava di aver fallito in tutto, riempiendo la casa di cose morte, uccidendo attimi incorporei di tempo possedendo un’esistenza che non gli apparteneva.» Tutto doveva restare immune dalla contaminazione del mondo, a prezzo dell’isolamento, perché tutto fosse perfetto e intangibile nella contemplazione della bellezza.

Ma la vita ha una forza incontrollabile e presenta svolte immoralistiche, completamente imprevedibili. Vicino a Mario Praz, esattamente al piano superiore della casa di via Zanardelli, dopo la lavorazione di Gruppo di famiglia in un interno (1974) di Visconti, per caso andò ad abitare Mario Schifano, che aveva dichiarato di voler abbandonare la pittura e dedicarsi al cinema, da lui giudicata arte viva. Detestava lo psicologismo di Bacon, non gli interessava Morandi, non lo riguardava Pollock, apprezzava Raushemberg come uomo e non come pittore. Amava de Chirico, Boccioni, Balla, Picabia, Picasso, Jasper Johns, Jim Dine. Come artista si dava alle più sperimentali incursioni maledettistiche fin nel mondo delle droghe pesanti e Praz era vistosamente imbarazzato di averlo come vicino. Schifano faceva un gran chiasso, era scomposto assordante ambiguo senza ritegno, inquinava il silenzio della sua solitudine, lo disturbava. Il professore era infastidito, aveva perso la pace, senza neppure ritrovare la vitalità smarrita nella perfetta collezione delle sue conversation pieces. Questa singolare situazione circolò nel mondo artistico-letterario romano dei primi anni Settanta, colpì Luchino Visconti, già malato, dopo la trilogia tedesca, per la portata profetica che il suo film veniva ad assumere in questa determinata circostanza. A Praz come alter-ego del regista e alle sue miniature, alla sua casa-museo, alla sua rinuncia al mondo esterno, alla defunzionalizzazione del suo sapere (e, d’altro canto, a Mario Schifano trasfigurato a posteriori nella volgare e attraente famiglia di inquilini, emblema dell’invivibilità del presente, che vengono a invadergli l’abitazione), si era infatti ispirato Enrico Medioli per il personaggio del professore. Visconti ne fece un Kammerspiel, un film-requiem tutto girato in interni, come a teatro, citando la Recherche, dove si parla di un inquilino immaginario al piano di sopra che si aggira, inquietante, misterioso, come una metafora della morte.

Gli ultimi giorni di Giulio Cesare di Luca Canali. Una recensione

Giulio Cesare soffriva di vertigini, oltreché, come è noto, di epilessia, oggi parleremmo di attacchi di panico che gli davano frequentemente l’impressione di vacillare, come se fosse atterrito dall’altezza cui era arrivato non soltanto come dittatore ma soprattutto come uomo in lotta con la mancanza di equilibrio per la sovrabbondanza di vitalità interiore non a caso riversatasi nello stile dei suoi scritti, tra i più affascinanti dell’età della letteratura latina che porta il suo nome. Questo tratto umano è la spia del destino eccezionale raccontato nel diario che Luca Canali fa scrivere a Cesare stesso nell’ultimo mese di vita a partire dal 6 febbraio nel romanzo intitolato Gli ultimi giorni di Giulio Cesare (Newton Compton), soffermandosi con rigore scientifico e allo stesso tempo con tensione narrativa fino all’epilogo sanguinoso delle Idi di marzo del 44 a. C. (anno 710 ab Urbe condita). Emerge da questo gioiello dell’insigne latinista il carattere letterario, teatrale, di quella tragedia sia personale sia politica: «Non credo nel destino, e tantomeno nel cosiddetto Fato. E disprezzo i filosofi – eccettuato l’atomista e razionalista Epicuro – i quali, di fronte ai misteri ultimi dell’esistenza, dello spazio infinito e del tempo eterno, al pari dei comuni mortali di animo semplice placano la loro inquietudine e rendono più risibile la loro impotenza affidandone la soluzione, o comunque la decifrazione, ai più disparati demiurghi divini comunque denominati.»

Sono qui ripercorse le amicizie coi poeti frequentati e le sue tre mogli, Cornelia, Pompea e l’attuale Calpurnia, insieme ai fatti salienti della tarda repubblica. Cesare di fatto era diventato un re ellenistico senza diadema, pater patriae ma sempre con la corona d’alloro mentre il conio portava la sua immagine incoronata d’oro. Aveva trionfato in Gallia, in Egitto, nel Ponto, in Africa. Nel 46 un senato apparentemente docile, in realtà già ostile, gli ha conferito la dittatura per dieci anni, e solo un mese prima della morte lui rifiuta la corona regale mentre un senatoconsulto lo proclama dittatore a vita. «Sono sulla vetta del potere. Ora comincerà la discesa, che qualcuno cercherà di rendere più veloce. Non è ossessione pessimistica: ricevo continuamente informazioni sul moltiplicarsi di conciliaboli di persone sospette.»

È insomma al vertice della gloria, è ricoperto di onori e padrone del mondo e si sta preparando per una campagna militare contro i Parti. E tuttavia, ed ecco il tranello della storia, almeno da un anno, i segnali dell’ostilità che va crescendo intorno a lui si fanno sempre più inequivocabili e pressanti: «l’infittirsi di questi assalti anonimi comincia a impensierirmi, considerando che la loro frequenza e diffusione territoriale possono avere effetti negativi sull’opinione pubblica finora a me favorevole. È quindi necessario che metta sull’avviso i servizi di vigilanza, capeggiati da Volusio». Ma, pur cogliendo le avvisaglie del pericolo, o per la stanchezza di affrontare le insidie dei nemici o perché comprende a poco a poco di non poterli più sostenere o per semplice disgusto della vita e del potere o per avventato esibizionismo e capriccio, sta di fatto che Cesare, con l’incalzare degli avvenimenti, non si cura più di difendersi e anzi, come per una sfida suprema e ostentando onnipotenza monarchica, congeda la guardia del corpo.

Secondo l’ipotesi riferita da Svetonio, che giustamente lo considera il vero fondatore del principato augusteo e il primo effettivo imperatore romano anche se non lo era nominalmente, – e il suo successore farà di tutto per dare l’impressione di “non” governare che una repubblica apparente piuttosto che un impero che ricopriva gran parte della terra allora conosciuta, – un mese prima dell’attentato del quale non può non essere a conoscenza, Cesare licenzia la guardia del corpo spagnola (etiam custiodias Hispaniorum se removisse) che abitualmente lo proteggeva con tanto di spade sfoderate (cum gladiis adinspectantium). Non si dimentichi che era un letterato atticista, un purista della lingua latina (lo sappiamo anche autore di un piccolo poema, l’Ibris e di una tragedia, l’Oedipus, che non ci sono pervenuti), e non per caso Canali immagina che da ultimo si affidi alla scrittura di questo giornale privato. La sua mente era capace di organizzazione strategico-militare e di ideazione fantasiosa: la fantasia poetica atta a dettare i commentari, l’una e l’altra dimensione riunite come in un doppio cervello, disponendo della geniale facoltà di far sussistere in un’unica personalità entrambi gli estremi opposti della situazione. Del resto è lo stesso Svetonio ad aggiungere letteratura alla storia, insinuando un importante indizio per la risoluzione del mistero che diventa l’atteggiamento del condottiero quando  volle abbracciare la morte o, meglio, non si curò di evitarla: Cesare era malato (quoque valetudine minus prospera uteretur) e sapeva di dover morire presto, quindi tanto valeva accettare, con disprezzo per la vita, che la sorte decretata ormai seguisse il suo corso.

Qualunque sia il caso, non si lasciò sfuggire l’occasione per accelerare la fine e andarle stoicamente incontro. Una fine immediata e senza dolore (repentinum inopinatumque) era quella che preferiva, come aveva dichiarato cenando da Marco Lepido – l’8 marzo, secondo il diario di Canali, il giorno prima delle Idi, e cioè il 14, secondo Svetonio – agli amici che di nuovo lo stavano avvisando, con circospezione, della minaccia incombente. Probabile che fosse isolato al punto che non si sentisse più in grado di gestire politicamente la situazione. Per quanto si vogliano sottolineare i limiti del biografismo svetoniano che è di tipo peripatetico-alessandrino e mai opera storiografica in senso stretto, è dal riferimento del minuto dettaglio quotidiano che la testimonianza di Svetonio, priva di qualsiasi coinvolgimento personale e morale, diventa valida per la ricostruzione delle singole individualità tratteggiate in se stesse, avulse dalla vita dell’impero.

Il cesaricidio non risolveva affatto lo squilibrio causato dall’accentramento di un potere immenso nelle mani di uno solo, la guerra civile che ne deriva durerà ben tredici anni. La crisi della repubblica era ormai irreversibile. Ottaviano avrebbe trionfato facendo in modo che tutta la letteratura d’opposizione anticesariana non ci fosse tramandata.

Sandro De Fazi

Pierre Bourdieu: la distinzione. Per una decostruzione sociale e psicologica del gusto e degli intellettuali

Se ordini tramite il nostro link questo capolavoro della sociologia di Pierre Bourdieu, usufruisci di un significativo sconto: La distinzione. Critica sociale del gusto (Biblioteca)

— — —

Ma soprattutto, sono sempre stato grato a Pascal, almeno come lo leggo io, della sua sollecitudine, lontana da ogni ingenuità populista, per “la gente comune” e le “sane opinioni del popolo”, come pure della volontà, da tale sollecitudine inseparabile, di cercare sempre la “ragione degli effetti”, la ragion d’essere delle condotte umane in apparenza più gratuite e ridicole – come “correr tutto il giorno dietro una lepre” – invece di indignarsi o di prendere gioco, a guisa dei “mezzo addottrinati”, sempre pronti a “fare i filosofi” e a tentare di stupire con i loro stupori fuori misura circa la vanità delle opinioni di senso comune. (Pierre Bourdieu, Meditazioni pascaliane)

Continua a leggere

Religione, male e sofferenza. Mircea Eliade e il mito dell’eterno ritorno. Una recensione critica.

Se ordini il libro tramite il nostro link usufruisci di un significativo sconto (Amazon): Il mito dell’eterno ritorno (Opere di Mircea Eliade)

— — —

Tutta la giusta ambizione umana è riassunta nel verbo “comprendere”. Ciò che comunemente intendiamo per “comprendere” coincide con “semplificare”. Primo Levi, dopo aver studiato sociologia nel laboratorio “umano” di Auschwitz, direbbe che senza una profonda semplificazione della realtà, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema. Tendiamo a semplificare ogni cosa, a farcela amica.
Ogni riduzione è scienza, e ogni scienza è drasticamente semplice, quindi più o meno “irreale”. Questo vale anche per il fenomeno religioso. La maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o almeno, non sono semplici come piacerebbe a noi. Ogni chiave interpretativa sulla religione merita un determinato spazio nell’analisi. Ma bisogna affiancare l’una all’altra chiave interpretativa. Tutte insieme, non una sola. Dunque, il fenomeno religioso reggerà anche alla seguente semplificazione, anzi, ne varrà arricchito. Fenomeno religioso ridotto, da Eliade, a “Cercare un senso al caos della storia” = Richiesta di senso alla sofferenza. Il fenomeno religioso, nella sua interezza, nelle sue innumerevoli espressioni planetarie, può essere ridotto alla ricerca di senso, ad un semplice quanto angoscioso tentativo di “normalizzare la sofferenza“, “sopportare la storia” (cfr. anche le conclusioni, simili a quelle di Eliade, di De Martino ne “La fine del mondo”).

Continua a leggere

Il volto femminile della filosofia. Una recensione

Se ordini il libro tramite il nostro link usufruisci di uno sconto significativo: Il volto femminile della filosofia

— — —

Il “Volto femminile della filosofia” vuole essere più di un libro, saggio o ricerca filosofica: è anzitutto un esame attento delle vite dei grandi pensatori del passato, uno sguardo curioso sulle loro dinamiche familiari, sulle condivisioni affettive ed esperenziali, per carpirne, come e quanto, queste ne abbiano influenzato pensiero e produzione. È un excursus biografico e bibliografico, che vede le donne compagne di viaggio, autrici nascoste di gesti, parole, azioni, che hanno condizionato, qualche volta indirizzato o addirittura educato il pensiero maschile. Eroine silenti di gesta quotidiane: mogli, madri, figlie, sorelle che, a modo loro, spesso come sagge consigliere, alle volte come presenze ingombranti, hanno contribuito a rendere grandi i filosofi.

Socrate, Seneca, Agostino, Immanuel Kant, Sigmund Freud per esempio abbiamo scoperto aver ricevuto ottimi esempi di vita rispettivamente da Fenarete, Elvia, Monica, Anna Regina e Amalie. sono nomi di donne comuni che la storia non ricorda perché non hanno scritto nulla, né tantomeno compiuto niente di eclatante, eppure il loro insegnamento, la loro esemplarità di vita, il loro carattere e pensiero hanno forgiato spiriti attenti, menti geniali e uomini di spessore. E il loro ruolo, non solo di genitrici ma anche di consigliere, viene riconosciuto pubblicamente da molti dei figli. Dirà per esempio Sant’Agostino ne Le Confessioni di Monica: “ci amò come se di tutti fosse stata la madre e ci servì come se di tutti fosse stata la figlia”, e Antonio Gramsci scrive alla madre “tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato tutte le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già nell’unico paradiso reale che esista, che per una madre penso sia il cuore dei propri figli” e ancora Giovanni Gentile dirà della genitrice: “la sua voce ancora e sempre dentro mi suona”.

 Da figli a padri, perché i pensatori hanno avuto vere e proprie lezioni di vita dalle stesse figlie, così per esempio Galileo Galilei, che nel periodo del processo e poi dell’abiura, veniva premurosamente sostenuto dalla figlia suor Maria Celeste, che così scriveva al padre: “considerando io (…) la giustizia della causa e la sua innocenza in questo particolare momento, mi consolo e piglio speranza di felice e prospero successo, con l’aiuto di Dio benedetto, al quale il mio cuore non cessa mai d’esclamare, e raccomandarla con tutto quell’affetto e confidenza possibile. Resta solo ch’Ella stia di buon animo, procurando di non pregiudicare alla santità con il soverchiamente affliggersi, rivolgendo il pensiero e la speranza sua in Dio, il quale, come padre amorevolissimo, non mai abbandona chi in Lui confida e a Lui ricorre”. Altre figlie come Jenny Marx e Anna Freud, calcheranno in tutto per tutto le orme dei loro illustri padri, divenendo attente discepole di un pensiero a cui daranno col tempo il loro contributo femminile.

Un posto nella storia dei filosofi è riservato anche alle sorelle: anime consanguinee, presenze attente alle volte anche fastidiose. Donne che si ritrovano a condividere parte della loro esistenza con uomini insicuri, fragili e desiderosi di consigli (sarà così per esempio per Blaise Pascal nei confronti della sorella Jacqueline), o riottosi, iracondi ed ermetici nelle riflessioni, spesso infastiditi da suggerimenti femminili non richiesti (è notoria a tal proposito l’insofferenza nutrita da Friedrich Nietzsche per la sorella Elisabeth).

E infine ci sono le donne amate, compagne di vita, in grado di lasciare nell’animo del filosofo pensieri malinconici tali da diventare stralci di poesie, così per esempio scriveva di Emilie, Voltaire “Non ho perso un’amante, ho perso la metà di me stesso”, mentre arrabatandosi nel suo dolore Kierkegaard affermava di Regina Olsen “La legge di tutta la mia vita è che lei ritorna in tutti i punti decisivi”; mentre Beccaria scriveva alla moglie Teresa sono in mezzo alle adorazioni, agli encomi, i più lusinghieri, considerato come compagno e collega dei più grandi uomini dell’Europa, guardato con ammirazione e con curiosità […] e pure io sono infelice e malcontento perché lontano da te”. Quando vicine le donne amate diventano invece preziose alleate, stelle polari, punti di riferimento nel cammino esistenziale, amiche che ascoltano e guidano, muse ispiratrici. Uno per tutti Karl Popper disse di Josephine Anna Henninger: “Senza di lei (…) molto di ciò che ho fatto non sarebbe mai stato realizzato“.

Nell’opera di Miriam Rocca, dunque, uomini straordinari di ieri e di oggi sono sempre affiancati da donne: donne che vivono nell’ombra, donne ispiratrici, donne impavide, fredde o generose, perché, come affermava Maritain: “… l’essere umano non è compiuto se non nell’uomo e nella donna presi insieme“.