John Rawls, Una teoria della giustizia. Una recensione (di Michela Rossi)

Le diseguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni: devono essere legate a funzioni ed a posizioni aperte a tutti, in condizioni di parità equa delle opportunità; devono procurare il più grande vantaggio ai membri più svantaggiati della società”. (John Rawls, Il principio di differenza, par. 46 di “Una teoria della giustizia”, 1971)

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Contro l’utilitarismo classico di Bentham, Mill e seguaci postmoderni, John Rawls propone una nuova soluzione per coniugare giustizia sociale e liberalismo in una nuova, celebre, teoria della giustizia. Teorico del contratto, lo studioso è considerato oggi nel mondo come il massimo esperto della “terza via” tra liberismo e socialismo, e il suo libro è ormai un classico della filosofia politica. Rawls rilegge Aristotele e i classici della filosofia politica inglese (Locke, Hume, Hobbes). Il suo contrattualismo è in parte ispirato a Rousseau, ma senza una teoria dello stato di natura. La sua concezione della morale affonda le sue radici in Kant. Il libro, pubblicato nel 1971, genererò molte critiche ed un dibattito vastissimo: dagli ultra-liberali era ritenuto troppo di sinistra, e dai socialisti troppo di destra. Dal 1971 al 2002, anno della sua morte, Rawls ha pubblicato molti articoli e altri libri per spiegare, ampliare e difendere la sua teoria, diventata nel frattempo un pilastro delle teorizzazioni sociopolitiche del Ventesimo secolo.

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“La scimmia nuda”, di Desmond Morris

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Nella foto sopra, i famosi Macachi giapponesi. Famosi soprattutto per aver imparato la tecnica del bagno caldo e sviluppato una gerarchia classista: solo i parenti del capobranco possono avere accesso ai bagni caldi, indispensabili per sopravvivere al rigido inverno nipponico. Il resto del branco può solo osservare i privilegiati da poco lontano.

Sulle orme di Lorenz Konrad, vi segnaliamo l’interessante lavoro del noto etologo inglese Desmond Morris La scimmia nuda“. Quella che segue è l’introduzione, che vale come una sorta di recensione metodologica dell’intero libro.

Esistono centonovantatré specie viventi di scimmie con coda e senzacoda; di queste, centonovantadue sono coperte di pelo. L’eccezione è costituita da uno scimmione nudo che si è auto-chiamato Homo sapiens. Questa razza eccezionale ed estremamente capace trascorre molto tempo ad esaminare i propri moventi più nobili ed altrettanto ad ignorare accuratamente quelli fondamentali. E’ orgogliosa di possedere il cervello più voluminoso tra tutti i primati, ma cerca di nascondere il fatto di avere anche il pene più grande, preferendo accordare questo onore al possente gorilla. Si tratta di uno scimmione che usa molto i propri mezzi vocali, ha un acuto senso dell’esplorazione ed è rappresentato da molti esemplari, per cui è ormai tempo di esaminare il suo comportamento fondamentale.Io sono uno zoologo e lo scimmione nudo è un animale; esso costituisce un argomento facile per la mia penna e mi rifiuto di continuare ad evitarlo solo perché alcune sue forme di comportamento sono piuttosto complesse e sorprendenti. La mia giustificazione è che pur nel diventare tanto erudito, l’Homo sapiens è rimasto uno scimmione nudo e che nell’acquistare nuovi ed elevati moventi, non ha perso nessuno dei vecchi moventi più bassi. Spesso ciò gli provoca un certo imbarazzo, ma i suoi antichi impulsi gli appartengono da milioni di anni, i nuovi solo da qualche millennio, e non vi è alcuna speranza che egli possa scuotere via rapidamente l’eredità genetica che si è accumulata durante tutto il suo passato evolutivo. Sarebbe un animale molto meno preoccupato e più soddisfatto se solo affrontasse questa realtà. Forse è qui che lo zoologo può aiutarlo.

“La scimmia pensante” di R. Dunbar. Una recensione sulla storia evolutiva umana

(Nella foto al lato, un particolare delle Grotte di Lascaux, dette anche “la Cappella Sistina della preistoria”)

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«Le urgenze e i clamori del nostro tempo si placano quando ci ricordiamo della stranezza del tempo in cui viviamo: il periodo che, a partire dalla scomparsa di Neanderthal, 28.000 anni fa, giunge sino a oggi è l’unico, nei cinque milioni di anni di storia della famiglia degli umani, in cui ci sia stata una, e una sola, specie vivente di ominidi. Finora non c’è probabilmente mai stato un periodo di tempo che non abbia visto almeno due (e qualche volta si arriva fino a cinque) specie diverse di ominidi percorrere contemporaneamente le grandi vie di raccordo del mondo – incontrandosi all’improvviso e studiandosi con cautela, di tanto in tanto. […] L’eccezionalità della storia recente dell’umanità ha portato a rafforzare in noi l’impressione di essere assolutamente unici; forse è anche responsabile dell’eccessiva importanza che attribuiamo a noi stessi.» (da “La scimmia pensante“)

Questo libro divulgativo si rivolge ad un pubblico anche non specialista: è la storia molto semplificata di cosa siamo, e dei nostri pregiudizi. Ciò diventa evidente fin dall’inizio, quando, dopo un breve schizzo impressionistico delle origini umane a partire degli australopitechi, Robin Dunbar (professore di Psicologia evolutiva all’Università di Liverpool) respinge in modo inequivocabile quello strano sentimento, bizzarro, dell’unicità umana. O quell’ interpretazione che vede l’uomo di Neanderthal come una specie primitiva e così separata dalla nostra. In realtà è quasi certo che umani moderni abbiano convissuto con i Neanderthal e con i Cro-Magnon per diverse migliaia di anni. Un periodo in cui avremmo incontrato sulla terra strani esseri simili a noi, con lo stesso nostro sguardo, bipedi e produttori, come noi, di raffinate tecniche, arti e arnesi. Forse, anche con una religione. E se i Neanderthal non si fossero estinti, oggi forse saremmo in guerra contro di loro e contro i loro dèi. O forse avremmo cercato di convivere, inventandoci un dio che è loro ma anche nostro. La storia raccontata da Dunbar è a volte un po’ troppo sbrigativa (come si usa spesso nel mondo anglosassone, priva di quello spessore filosofico a cui siamo abituati in Europa continentale) ma è comunque una storia avvincente, che vale la pena di percorrere brevemente, anche perché il suo interesse principale è capire le origini della moderna coscienza umana.

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La scoperta del giardino della mente, tra scienza e mistica. Una recensione

(Nel video, la straordinaria conferenza della dottoressa Jill Bolte Taylor, sottotitoli in italiano, video 1/2)

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Jill Bolte Taylor ha trentasette anni, una laurea ad Harvard e un lavoro come neuroscienziata e ricercatrice universitaria quando, una mattina, un capillare esplode improvvisamente nell’emisfero sinistro del suo cervello provocandole un danno cerebrale esteso e devastante. «Nelle quattro ore successive, con gli occhi curiosi di neuroanatomista, assistetti al crollo completo della capacità della mia mente di elaborare informazioni. Alla fine di quella mattinata non riuscivo più a camminare, parlare, leggere, scrivere o ricordare eventi della mia vita.

Il suo percorso verso la completa guarigione è durato otto lunghissimi anni, nel corso dei quali ha potuto sperimentare la duplice veste di medico e paziente. E da questo insolito doppio ruolo ha ricavato spunti, consigli e suggerimenti terapeutici utili a chiunque sia rimasto vittima di un ictus o di un trauma cerebrale e a coloro che li curano e li circondano.

Ma La scoperta del giardino della mente non è soltanto la cronaca dettagliata e diretta di una straordinaria ripresa fisica, è soprattutto la testimonianza di un’esperienza umana unica. Jill, infatti, non è più stata la stessa di prima: l’ictus, mettendo temporaneamente fuori gioco il preponderante e razionale emisfero sinistro, ha dato spazio alla creatività e alle sensazioni, emozioni e intuizioni proprie dell’emisfero destro; e oggi, pur continuando a occuparsi di ricerca, la neuroscienziata scrive, canta e realizza sculture in vetro colorato, felice di vivere e forte di una nuova pace interiore.

«Al cuore di questo libro non c’è in realtà l’ictus. Esso è stato soltanto l’evento traumatico che ha portato a un’illuminazione»: ovvero alla consapevolezza che tutti noi possiamo imparare a gestire meglio le potenzialità insite nel nostro cervello (possiamo, per esempio, apprendere come «disattivare» i circuiti dell’ira, della gelosia o della frustrazione per attivare invece quelli della gioia e della felicità), cambiando così le sorti della nostra vita e, di conseguenza, il mondo attorno a noi.”

Recensione tratta da Mondadori.it

Post-human, di Roberto Marchesini. Una recensione sulle nuove frontiere della hybris

(il bambino delle stelle, un fotogramma del film 2001 Odissea nello spazio”)

Ordinando il libro di Roberto Marchesini tramite il nostro link usufruisci di uno sconto (Amazon): Post-Human. Verso nuovi modelli di esistenza (Saggi. Scienze)

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Siamo delle macchine, e non in senso metaforico, ma letterale. Siamo macchine fatte di altre macchine. Le proteine di cui siamo composti sono esse stesse delle macchine, dei meccanismi. E il cervello è a sua volta una immensa macchina (Daniel Dennet)

Se siete interessati ad un manuale geniale, completo e specifico dedicato al dibattito sulla crisi dell’umanesimo e dell’antropocentrismo, sulla natura e l’identità umana dopo la rivoluzione darwiniana e l’evoluzione della tecnosfera, sui risvolti filosofici ed etici del postumanesimo e sulla ridefinizione scientifica su ciò che accomuna in chiave coevolutiva l’essere umano ad una macchina o da un altro animale, Post Human di Roberto Marchesini è il classico da non perdere. Oltre a ciò, Marchesini si inserisce nel prezioso dibattito su mente, coscienza e intelligenza artificiale, da sempre nel mirino di filosofi e neuroscienziati sempre in lite fra di loro. Ho letto molta letteratura di questo genere, ma posso tranquillamente dire che è un libro che svetta tranquillamente, nel panorama italiano, su tutti quelli dedicati ai medesimi argomenti di frontiera, specie se si è neofiti del campo e si cerca un libro che sia in grado di presentare l’intera questione con chiarezza senza tralasciare l’innegabile complessità degli argomenti. Temi dove la filosofia si sposa con antropologia, zooantropologia, scienza e tecnica, non senza uno sguardo critico e bioetico su alcuni risvolti di questo connubio (come l’iperumanesimo e il tecnognosticimo, gli “estropiani”, i transumanisti ed i risvolti etici sulle nuove biotecnologie). E soprattutto, questo prezioso connubio avviene sfruttando il paradigma della complessità ed evitando quegli odiosi riduzionismi che fanno spesso torcere il naso agli umanisti ed ai filosofi di formazione scientifica.

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“Lire 26900” di Frédéric Beigbeder. Recensione del manuale scomodo dei pubblicitari e del marketing

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Siamo il prodotto di un’epoca. O forse no. Così diventa troppo facile dare la colpa ad un’epoca. Più che altro siamo prodotti e basta. Merce posta in uno scaffale. Il mondo neoliberale non discute con degli uomini, non li ha minimamente presente fino a che essi non diventino dei prodotti seriali schematizzabili in note dinamiche del desiderio riproducibili in una macchina di Turing. E’ solo allora che può cominciare a discutere con dei soggetti, che ci ha presente. Le sue regole trasformano le persone in yogurt deperibili, in drogati di spettacoli pubblicitari, show, drammi e commedie. Consumatori di desideri creati a tavolino, consumatori di vite non proprie. L’unico spazio di libertà dalla pubblicità è trascinare il nome del prodotto nel cestino del vostro desktop, e poi selezionare “Svuota cestino”. Sperando, ovviamente, che con esso sparisca pure il desiderio. E qui entra in gioco la filosofia. Il desiderio: l’unico vero mostro che ci appartiene, che possiamo controllare e che dobbiamo forgiare, anche grazie alla filosofia. Quando ho finito di leggere “Lire 26900” di Frédéric Beigbeder ho avvertito sollievo, come se fosse finito un incubo. La stessa sensazione che ho provato dopo aver visto lo straordinario Requiem for a dream di Darren Aronofsky, un film solo un po’ più terribile e nichilista impegnato su un tema simile, la dipendenza (uno dei segreti del marketing è creare dei “dipendenti”). Certo, argomenti triti e ritriti, che la filosofia e la letteratura, il cinema e la musica hanno ampliamente sviscerato. Ma se scritti bene e con uno stile abbastanza originale (come in questo caso), vale ancora la pena di una ripassata. Il libro è una analisi cinica del desiderio, ed un abbozzo pratico e nichilista verso una filosofia della pubblicità. E’ anche un metodo affidato alla letteratura per scoprire la sindrome di Madame Bovary che è in ciascuno di noi, così efficacemente analizzata da quel geniaccio di Gustave Flaubert senza scomodare Lacan e Freud. Magari voi stessi state leggendo questa recensione perché attratti da una immagine, da una parola, o da un aforisma particolare che hanno suscitato curiosità e risvegliato un desiderio. Chiamati qui magari da un social network come facebook dove le nostre vite spesso si riducono a comunicazione pubblicitaria e reality. Come scrive Beigbeder “uno scrittore in pubblicità è l’autore di aforismi che vendono”, se state leggendo vuol dire che vi siete imbattutiti in un bravo pubblicitario (oppure uno fortunato). La prossima volta, pensateci prima di cliccare. La libertà è prima di tutto un atto radicale di anticonformismo.

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“One Big Union”, di Valerio Evangelisti. Una recensione

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One Big Union” è una lettura indispensabile, oggi. Una lettura che contribuisce a creare cultura politica ed a definire soggettività. Insomma, tutto quello di cui abbiamo bisogno. Non sappiamo se il New Italian Epic (NIE), come viene indicato nei memoriali di Wu Ming 1, sia davvero finito nel 2008 con la grande masturbazione della “italian left” (la prima pagina de “il Manifesto” del 15 aprile 2008 rimarrà a lungo un nostro pezzo di storia). In realtà non ci interessa saperlo. One Big Union, come altre pubblicazioni, rientra a pieno titolo in quel potente percorso letterario che contribuisce, ogni giorno (ed ancora oggi), a creare cultura ed a farci Singolarità. Potenza della letteratura. Basta mettere le pagine in contro-luce, cercando l’attualità dietro le parole. Potrebbe essere interessante leggere il 15 ottobre 2011 attraverso questo canale. Si aprono spazi di comprensione e di resistenza. Comprensione della storia e delle sue dinamiche. Consapevolezza del Movimento (più o meno operaio). Perchè, come scriveva Mario Tronti: “ai capitalisti fa paura la storia degli operai, non fa paura la politica delle sinistre. La prima l’hanno spedita tra i demoni dell’inferno, la seconda l’hanno accolta nei palazzi di governo“. E la storia del Movimento operaio è storia di lotte, di antagonismo e di organizzazione. E’ storia di trasformazioni e di adattamenti. E’ storie di lotte di classe e di condensazioni delle soggettività in lotta. One Big Union traccia uno spazio di questa lotta attraverso l’esperienza degli Industrial Worker of the World (IWW), una delle organizzazioni sindacali statunitensi più presenti ed attive nel primo Novecento. Nata dalle ceneri di strutture più “mistiche”, come i Knights of Labor, caratteristica dei wobblies (gli iscritti al IWW) era quella di organizzare i lavoratori orizzontalmente, senza cadere nella verticalità delle divisioni produttive. Sullo stesso piano, nelle stesse lotte, erano coinvolte soggettività con mansioni lavorative anche molto differenti. Tutti erano partecipi di quell’idea di nuova Società che era compresa ed ispirava la vita quotidiana del Sindacato. Inoltre l’organizzazione era aperta a tutti, senza preclusione per i migranti (spesso tenuti fuori dalle strutture “tradizionali”). Il “leit motiv” che rappresentava il senso comune di appartenenza all’organizzazione era: An injury to one is an injury to all.

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“Anatra all’Arancia meccanica” di Wu Ming, una recensione

Anatra all'Arancia meccanica

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Sono passati dieci mesi dalla pubblicazione di “Anatra all’Arancia meccanica“, autore il Collettivo Wu Ming. Questo il thread di “lancio”. Qui, ed anche qui, una raccolta di interventi, opinioni e recensioni. Una panoramica interessante che misura il reale “assorbimento culturale” (dov’è l’opinione pubblica?) dell’ultima fatica dei “senza nome”.

La nostra recensione sarà un’anti-recensione, come al solito, perchè i libri bisogna viverli e non riassumerli. Ed ognuno vive le parole a proprio modo (fortunatamente!). Ognuno crea la sua resistenza a propria immagine e somiglianza. Siamo come piccoli demiurghi diffusi che, attraverso la creatività, producono gioia e rivoluzione. Gioia e Rivoluzione. Saremo, quindi, banali. Estremamente banali. Perchè la banalità rende le cose per quello che sono realmente, senza nasconderle dietro l’ipocrisia del marketing o l’auto-referenzialità della scrittura.

Anatra all’Arancia meccanica è una raccolta ontologica di 16 racconti pubblicati da Wu Ming su vari spazi. Una raccolta “ontologica” (no, non è un refuso) perchè racconta la genesi di un decennio di movimento e di soggettivazione (i fantastici “Anni Zero”). Un decennio di avvenimenti (l’11 settembre americano, Genova 2001, il berlusconismo…) e di nuovi strumenti (internet, le discussioni via mail, i blog, i social network…). Una genesi straordinaria che, dalle allegorie rivoluzionarie, si riproduce in dinamiche “umane, troppo umane“. Perchè non solo tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare.

Queste 16 narrazioni sono la cornice dentro cui viene raccontato un nuovo Mondo. Un Mondo in potenza e la sua potenza fallita. Sono storie che intrecciano la realtà. Sono livelli di realtà che diventano storie. Perchè Anatra all’Arancia meccanica è la critica della Narrazione con la N maiscuola. E’ la critica della Storia con la S grande. E’ una cornice dentro cui le nostre Vite cominciano a vivere in mille modi. Attraverso stili differenti, visioni alternative ed anti-retoriche. Non c’è la grande Città pronta a sussumere ogni meccanismo sociale nelle sue viscere metropolitane (non siamo tutti metropolitani). Ci sono le periferie, le province. Piccoli mondi futuri che urlano le loro contraddizioni e reclamano spazi di visibilità.

E poi c’è la violenza. Un filo conduttore che lega le narrazioni. Violenza dell’Essere umano su se stesso. Violenza dell’Essere umano sugli elementi naturali della Terra. Ma su questo sarebbe meglio far sedimentare qualche altra riflessione.

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“In balia di una sorte avversa”, di B. S. Johnson. Per una “strana” recensione…

"Viandante su mare di nebbia", Caspar David Friedrich

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Una bella serata di fine Novembre. Bella per essere una serata di fine Novembre, in Città. La temperatura non è ancora precipitata e si riesce ad avere le mani scoperte senza il pericolo che la pelle si rompa in cento stigmate laiche. Il cielo è ancora tagliato da una o due nuvole che, durante il mattino, hanno lasciato cadere qualche goccia di pioggia. E’ un chiaroscuro affascinante tra l’oscurità della notte, illuminata timidamente dalle luci gialle di periferia, e le differenti tonalità di grigio che caricano le nuvole. Il vialetto che porta alla fermata del bus è ricoperto di foglie ingiallite che si mischiano al terriccio bagnato. Cerco un guado sicuro mentre sistemo l’auricolare ed alzo il colletto della mia giacca marrone. Cercando di non cadere su quell’intingolo di foglie e terra, le mando un messaggio. Farò qualche minuto di ritardo. La fermata del bus ha il solito aspetto tranquillo. La Chiesa lì davanti sovrasta una piccola Edicola verde. Accanto c’è la segnaletica, la mia segnaletica. Un divieto di sosta. Un appoggio su cui sostare, aspettando di vedere più avanti il mio bus. Una canzone finisce e ne comincia un’altra. Così per altre due o tre volte. Io mi spingo in avanti per cercare di avere una visuale migliore, come se la vista avesse il potere di far accadere le cose. Come se il destino si sentisse spiato e potesse cedere ai miei bisogni. Faccio un giro intorno a me stesso e ritorno a posare la schiena sulla segnaletica. Intano finisce un’altra canzone ed un’altra ancora comincia. Decido di prendere dalla mia borsa nera il libro che sto leggendo. Acquistato qualche giorno prima su consiglio di una brava banditrice letteraria. B. S. Johnson, “In balìa di una sorte avversa“. Prefazione di Jonathan Coe. Di Jonathan Coe non ho letto molto e ricordo a stento qualche titolo, però quel poco che ho letto mi è piaciuto. Un tipo di cui ci si può fidare. Perchè con i libri, ormai, è come con le persone. Costano troppo ed è meglio andare sul sicuro. Meglio non rischiare. L’autore del libro non lo conosco per niente. Ma questa lettura, questo B. S. Johnson, mi provoca ad affrontare un’esperienza nuova. Mi piacciono le provocazioni. E’ come uno sbirro che ti fissa per farti reagire e tu devi essere così bravo da non rispondere. Mi piace rispondere alla provocazioni, o non rispondere. A seconda della provocazione. Ad ogni modo questa provocazione si presenta come un cofanetto che contiene 27 sezioni non rilegate. Un libro fatto razionalmente a brandelli e dato in pasto al lettore che, seguendo una indicazione di massima, può leggere e creare altro dopo aver letto. Non è la solita banalità della conclusione “a scelta” di chi legge. Che idiozia. Le conclusioni sono come la coda di un topo. Troppo lunghe. Troppo insignificanti. Quello che conta è il corpo. La possibilità di modificare la composizione degli organi. Mettere un rene dove Dio ha visto un pene. Sbeffeggiare in questo modo la santità dell’opera d’Arte. Che bella provocazione. Mi mancano poche sezioni. Quattro, o forse tre. Comincio a leggere, ma prima mi guardo intorno provocando il destino. Il numero, il mio numero, non si vede ancora. Ma c’è una ragazza. Comincia un’altra canzone. Comincia un’altra sezione.

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Comune e Comunità visti dallo specchietto retrovisore

Vladimir Krikhatsky, "Il primo trattore"

La Terra resiste ancora!
Mille conflitti illuminano il cielo dell’attualità come fuochi d’artificio in the dark side della politica, tra processi di espropriazione e messa_in_rendita del Comune (ormai il profitto è lettera morta sulle pagine della storia) e creazione costante di forme alternative di “democrazia” (Comitati territoriali, spazi “liberati” e via dicendo) in dichiarata opposizione alla governance neoliberale. La Vita, ogni singola Esistenza terrestre, si biforca materialmente tra l’essere-Capitale Umano (sotto il comando dispotico della governance, secondo le teorie di Gary S. Becker) ed il divenire-Singolarità (nella condensazione di forme di Vita “comune”). Il concetto dell’Esodo dai processi del comando, come costantemente proposto nella narrazione hardtnegriana (ed approfondito nella trilogia di “Impero”, “Moltitudine” e “Comune”), sembra essere solo vuota retorica se rapportato alla realtà. Nella materialità della Vita ogni Esistenza terrestre si presenta, allo stesso tempo ed in ogni momento in un presente aeternum, come Capitale Umano e Singolarità. Non è un dispositivo da risolvere, una schizofrenia da curare, ma sono scelte concrete da compiere in ordine sparso ed a seconda del momento e del contesto. È una biforcazione, non una contraddizione, da praticare pienamente come opportunità. Il conflitto, in questo caso, non sta tanto nel campo dell’Etica (o, peggio ancora, in quello della morale) quanto in quello dell’organizzazione complessiva della Vita. L’organizzazione complessiva della Vita, infatti, si pone direttamente il problema delle Istituzioni del governo e delle forme della governance. È in questo spazio “materiale” che si situa realmente il conflitto, con tutte le sue potenzialità esplosive, ovvero nella ristrutturazione delle modalità di controllo ed esproprio del valore prodotto dalla cooperazione.
Che il Comune sia con tutt@.

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“Oltre la filosofia”, di Giangiorgio Pasqualotto. Una recensione sui percorsi di saggezza fra Oriente ed Occidente

(nell’immagine, il film “Primavera, estate, autunno,inverno… e ancora primavera“, di Kim Ki-duk)

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La filosofia non parla più della vita. Nella storia della cultura occidentale è avvenuta una frattura (non certo recente) fra vita e pensiero. Ma anche fra filosofia speculativa e pratica. Il libro di Giangiorgio Pasqualotto cerca di rimediare a questo discrimine svolgendo un iter articolato in otto interventi, un viaggio tra occidente ed oriente alla ricerca della saggezza del vivere. Del resto, lo studioso è uno dei massimi esperti italiani di pensiero filosofico orientale e più volte ha affrontato la tematica di un Oriente che avrebbe tanto da raccontare al nostro Occidente, un Occidente grecista ed eurocentrico che crede di aver inventato il pensiero, oltre che la filosofia. Lo studioso segue un cammino intrapreso già da Pierre Hadot (Esercizi spirituali e filosofia antica), Foucault (L’uso dei piaceri, La cura di sé), in parte dalla Nussbaum (Terapia del Desiderio) e da Panikkar: paragona perciò particolari pensieri filosofici orientali e occidentali interpretabili come “stili di vita”, il cui scopo non risiede nella mera acquisizione di dati sulla struttura della realtà, quanto piuttosto nell’annullamento del dolore, nel riconoscimento e nel controllo delle passioni, nella pratica della libertà e del “conosci te stesso” – un “te stesso” che però non è separato da tutto il resto.

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Come cambiare il mondo, recensione al libro di Eric Hobsbawm

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Che ci sia, ormai da qualche anno, una proliferazione di libri su Karl Marx e sul marxismo sembra essere abbastanza evidente. Basta fermarsi a leggere i titoli sugli scaffali di molte librerie. Pensiamo sia superfluo indagarne le ragioni, anche perchè andrebbe fatta una valutazione qualitativa (più che quantitativa) di questi titoli. E, generalmente, una valutazione qualitativa è sempre fin troppo “soggettiva” quindi finirebbe per rispecchiare solo il “nostro” desiderio di trovare qualcosa di diverso su quegli scaffali. I criteri sono personali. Di comune opinione, comunque, è che stiamo vivendo una fase storica di estrema crisi (non solo economica ma di “paradigma” in senso molto più ampio) con un vuoto teorico a tratti straordinario rispetto alla critica della società ed alle teorie dell’organizzazione (anche politica). Aggrapparsi a Marx, ovvero all’ultimo grande tentativo organico di rispondere e “comprendere” i mutamenti sociali, è una reazione “difensiva” più che comprensibile ed accettabile.

A proposito della diffusione dei testi su Karl Marx, scrive il giornalista Antonio Caroti sul Corriere della Sera (il 19 maggio 2011):

In Italia questo libro trova terreno fertile, dato che persino alla Luiss, università della Confindustria, si organizzano convegni annuali sul filosofo di Treviri per iniziativa di Corrado Ocone, autore del saggio Karl Marx (Luiss University Press). Mentre nelle librerie abbondano volumi come Marx di Stefano Petrucciani (Carocci), La forma filosofia in Marx di Paolo Vinci (manifestolibri), Karl Marx di Nicolao Merker (Laterza), Marx. Istruzioni per l’uso di Daniel Bensaid (Ponte alle Grazie).
Ad esempio Diego Fusaro, autore del saggio Bentornato Marx (Bompiani), è per molti versi in sintonia con Hobsbawm: «Oggi Marx — sostiene — è un naufrago, scampato all’incorporazione del suo pensiero nello stalinismo, ma anche alla demonizzazione di chi gli addebita il Gulag. Inoltre è un segnalatore d’incendio, che ci mostra come la società capitalista sia ambigua, sospesa tra grandi promesse di emancipazione e concreta negazione di tali prospettive per gran parte dell’umanità, e produca una profonda alienazione, per cui nel nostro mondo i protagonisti non sono gli uomini, ma le merci, con i loro riflessi incantatori e feticisti».

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