“Il Sole dell’Avvenire” di Valerio Evangelisti, una recensione.

Per una genealogia del proletariato italiano. Potrebbe essere questo un altro sottotitolo possibile per l’ultima produzione letteraria di Valerio EvangelistiIl Sole dell’Avvenire”, edito dalla Casa Editrice milanese Mondadori. Certamente sarà nostra cura inserire il libro in una ipotetica vetrina di interventi letterari (senza necessariamente dover chiamare un “genere” per definirli) che da qualche anno indagano la genesi del nostro protagonismo rivoluzionario e le sue alterne vicende italiane. Nel progetto dell’autore il focus territoriale deve essere senza dubbio l’Emilia Romagna, per un periodo storico che dalla fine dell’Ottocento si inoltra fino alla metà degli anni Cinquanta del Novecento. Il libro racconta di Famiglia ed Amicizia, narrando le vicende pubbliche e private di una fitta rete comunitaria che attraversa la Storia e, soprattutto, le Storie di ogni Essere umano che la intreccia. Sullo sfondo l’arte della Vita, tra lavoro ed impegno sociale. Compassione e partecipazione. Dove l’impegno sociale non è solo un investimento del tempo libero, o peggio ancora una banale professione, ma una necessità per costruire sopravvivenza collettiva. Pane e Lavoro.

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“Point Lenana” di Wu Ming 1 e R. Santachiara, una Recensione

copertina

Avvertenza. Ci sono molti modi di leggere un libro. Soprattutto alcuni libri. Questo punto di vista è solo uno dei tanti possibili.

C’è un rimosso fin troppo latente e violento nella travagliata Storia italiana (dall’impresa garibaldina a questi giorni di decadenza berlusconiana) che ritorna sempre con prepotenza maggiore nell’immaginario collettivo. Sono gli anni Venti e dintorni del nostro Novecento. Ce ne sarebbe un altro strettamente connesso, il Rimosso dell’unificazione dello stivale nel 1861 e della resistenza del Mezzogiorno alla colonizzazione piemontese, ma per il momento rimaniamo al materiale storico e narrativo presentato da Point Lenana. Per quanto riguarda il genere si può certamente dire che non sia più una questione di New Italian Epic di cui, proprio i creatori della cornice, hanno decretato il tramonto. C’è ben altro nella necessità collettiva di indagare e mostrare, utilizzando scenari differenti e punti di vista particolari, un periodo costituente di questo nostro vivere insieme che qualcuno chiama Stato, altri Costituzione e qualche stolto, addirittura, azzarda definire Repubblica.

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La Filosofia, il marketing dell’Accademia e la Ricerca. Ma di cosa stiamo parlando? #2

E’ passato un altro anno (trecentosessantacinquegiorni tirati tutti d’un fiato senzafermarsineancheunattimo) ma sembra non essere cambiato nulla. Anche oggi, come ieri, leggo gli interventi che il prof. Fusaro condivide ogni giorno sui social network. E mi ritorna in mente la querelle su quell’articolo “Perchè ha senso iscriversi a Filosofia per trovare lavoro” che infuriò per qualche tempo su tutto il web. Anche da questo spazio cercammo di intervenire, riproponendo la frattura dialettica e di pratica politica che ogni volta si evidenzia nei dibattiti strategici sulla filosofia: l’Accademia. L’Uva a cui arrivare o non arrivare.

I presupposti di fondo della discussione non sono cambiati. L’Accademia fa marketing. Si vende. Il lavoro è diventato il veicolo fondamentale attraverso cui vendere il proprio prodotto formativo. Soprattutto quando si tratta un prodotto formativo. Non mi sorprende che l’Accademia si venda, quello che mi dispiace è che la Filosofia non sia ancora riuscita a farsi Commons. Proprio non ci riusciamo a lanciare nell’attualità una interpretazione forte del Mondo che possa dare strumenti di organizzazione e di felicità. Perchè forse fin troppo facilmente si perde di vista la Filosofia come campo aperto della Felicità.

Ed allora la Filosofia non serve per trovare Lavoro ma per stare nel Mondo. Ed è lo stare nel Mondo che serve per trovare Lavoro, per recuperare Reddito. Perchè, che ci piaccia o meno, il Reddito deve essere al centro della nostra discussione e non le possibilità della Filosofia di farci arricchire. Non ci sono canali del mercato del Lavoro capaci di farci essere liberamente Filosofi. Ci sono solo modalità di Vita che ci permettono di sperimentare la Filosofia. Il Reddito sta negli anfratti di queste scelte di Vita.

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Bari. La Bridgestone rischia la chiusura.

Bari. La Bridgestone rischia la chiusura. La zona industriale potrebbe impoverirsi di un’altra Azienda (l’ennesima, purtroppo) mettendo in mobilità molte centinaia di lavoratori. Saranno molte centinaia di lavoratori costretti a migrare (in Italia o all’Estero) per provare a ricollocarsi. Altre centinaia di professionalità e di know how operaio potrebbero abbandonare questa Terra che sembra diventare sempre più un confine. Un confino. Un margine. Il dramma, però, è sociale. Quando chiude un’Azienda la perdita è diffusa. Coinvolge orizzontalmente e verticalmente Comunità e Territorio. Sottrae competenze, intelligenza collettiva, Reddito, consumi, Presente e Futuro. Tocca la tenuta delle famiglie. Ogni Vita è un Paradiso ed una Risorsa per questa Terra. Ogni Singolarità è una potenza che costituisce Comunità, tesse relazioni comunitarie e genera Emancipazione comune.

Ipotizzando scenari post-elettorali. Il Governo “scialuppa”.

Si è già detto molto sul prossimo voto. Troppo. Forse troppo poco. Quello che rimarrà, comunque vada, sarà una barchetta “tecnica” di salvataggio su cui saliranno solo poche persone mentre tutte le altre saranno condannate a colare a picco, nel sonno, su una nave colabrodo. In un mare neanche in tempesta. Senza bande ad annunciare la tragedia. Silenziosamente. Senza clamore.

Berlusconi, Monti, Bersani e Grillo. Quattro macchine da guerra. Più o meno gioiose. Quattro generali al comando di quattro eserciti in continuo contatto. Impeto e tempesta sui palchi, negli spettacoli televisivi, dentro la “rete”. Confondere e comprare. Confondere e comprare. Confondere e comprare. Perchè i confini della politica sono così sconfinati che anche le verità si dimezzano in un brodo primordiale di vanità, ilarità statisticamente programmata, apparenze di serietà e rigore. Cosa rimarrà di questa lunga marcia? Il Parlamento. Solo il Parlamento. Il Parlamento del 26 febbraio sarà il vero centro di una grande ricomposizione istituzionale che sembrerà cambiare tutto per non cambiare nulla. Saranno pezzi in movimento a seconda degli interessi della “governabilità”. Sarà un Governo dei sopravvissuti. Niente di più e niente di meno. Berlusconi, Monti, Bersani e Grillo. Quattro generali in attesa del risultato. Quattro pattuglie parlamentari. Quattro quantità sulla bilancia del Parlamento. La nuova Costituzione sarà un libro di algebra. Quattro flussi che si incroceranno per dare vita al nuovo Governo. Non sarà il Governo degli uomini e delle donne. Non sarà il Governo degli Esseri viventi che ogni giorno devono fare i conti con la propria quotidianità. Sarà il Governo dell’equilibrio. Sarà il Governo della Tecnica. Sarà il Governo del Comando. Il Governo della paura di non riuscire a governare. Le nostre Vite continueranno ad essere le nostre Vite. Niente di più. Niente di meglio. Sempre peggio.

L’unica novità sarà la quantità parlamentare che Grillo porterà in dote alla governabilità. Sarà la dote di un movimento che è cresciuto costantemente. Allontanandosi e riavvicinando. Tessendo le contraddizioni di un popolo in libera uscita. Grillo ha generato appartenenza. Ha creato una forma di liberazione. Un metodo. Il VaffaPensiero. Ha strutturato questo VaffaPensiero in qualche regola precisa. Un po’ come si fa con i segnali stradali. E’ stato studiato, analizzato, paragonato. Ha fatto spendere fiumi di parole a giornalisti ed opinionisti di vario genere, razza ed età. Tutto inutile. La dote di Grillo sarà una pattuglia costantemente corteggiata da destra e da sinistra. Sarà il trasformismo fatto a sistema. Perchè non c’è destra e sinistra, ci sono solo loro. L’oro. Eppure, per quanto si possa pensare come “nuovo”, Grillo è un’anomalia sistemica che storicamente il nostro ventre ripropone. E’ la prova che abbiamo un rimosso con cui fare i conti. Un rimosso che si presenta puntualmente in forma diversa. E’ una necessità di odiare. Di creare un nemico su cui riversare la propria disperazione. Un capro.

Nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma. Le istituzioni andrebbero attraversate per trasformarle. Come il fattore che attraversa la terra per prepararla ad accogliere i germogli del futuro da cui prendere i frutti sani dell’emancipazione. Ma il 26 febbraio non ci saranno frutti da cogliere. Solo loro. Solo l’oro.

Legalità, Movimento, Elezioni, Sinistra

Quando la Magistratura entra nel Movimento. La candidatura di Antonio Ingroia ha suscitato non pochi dubbi sulla capacità della Sinistra di emanciparsi da alcuni paradigmi direttamente associabili alle degenerazioni provocate dal berlusconismo. L’utilizzo degli uomini della Legge (a cominciare da Antonio Di Pietro e finendo con Luigi De Magistris ed Antonio Ingroia, appunto) non è mai stato esente da potenti critiche teoriche e politiche. Soprattutto in questo momento. Nel campo teorico, effettivamente, il discorso sulla legalità andrebbe affrontato definitivamente. Il limite della legalità si fa stretto quando si difende il diritto all’insolvenza che è entrato pienamente a far parte dell’Agenda dell’antagonismo non banalmente come retorica ma come critica generale all’indebitamento neoliberale. Non è certamente una questione di poco conto. Il limite della legalità si fa stretto anche rispetto all’ondata di occupazioni e contestuali “liberazioni” che stanno fiorendo progressivamente in tutto il Paese (ed in tutti i paesi) e che vanno difese come generatori di un nuovo processo costituente. E’ un limite che si restringe perchè viene continuamente investito e messo in discussione. Viene decostruito. Questa decostruzione, però, lo rende per quello che è realmente: il limite del Potere. Perchè la legalità rappresenta sempre una forma di amministrazione e di gestione del Potere. E’ un dispositivo di controllo a tutti gli effetti. Ed allora il limite della legalità si trasforma nella critica del Potere, che fa parte integrante dell’antagonismo e della Sinistra in senso ampio. Per questa ragione, politicamente, la Sinistra ha “sussunto” alcuni pezzi della Magistratura. Più che altro è stata una sussunzione “simbolica”. Antonio Di Pietro ha rappresentato la critica della Prima Repubblica. Allo stesso modo l’inchiesta Why Not di De Magistris ha destabilizzato alcuni centri del Potere mentre Antonio Ingroia si è spinto addirittura contro il Presidente della Repubblica. Non sono stati raccolti gli Esseri umani ma le rappresentazioni. Questo non può che essere un fatto positivo perchè ci racconta di una Sinistra che, seppur persa, non ha perso quella tensione alla trasformazione dello Stato che la caratterizza e la distingue dai “moderati” di tutte le razze. E da questo si dovrebbe partire per fare nuovamente movimento.

“Roma combattente” e “Bastardi senza Storia”, Valerio Gentili. Una recensione.

Scrivere solo oggi un commento a “Roma combattente” e “Bastardi senza Storia” di Valerio Gentili (edizioni Castelvecchi) potrebbe sembrare superfluo perchè, almeno il primo libro, è in commercio dal lontano aprile del 2010 ed a distanza di due anni e mezzo non è scontato che un testo continui a mantenere una certa potenza creativa conservando uguale capacità di analisi. Anche solo per il fatto che le situazioni possano cambiare enormemente. In realtà è proprio in questo momento che l’operazione storiografica promossa dall’autore ci sembra assumere maggiore evidenza. Il deflusso della stagione “no global” (o “new global”, “alter global” e via dicendo come dir si voglia) e la ripresa di un ciclo di conflittualità dalla fine del 2010 fino ad oggi racconta una storia dell’antagonismo estremamente frastagliata e composita. Non solo a livello nazionale ma in tutto il mondo. Naturalmente tra ieri (il periodo preso in considerazione dal libro, dal biennio rosso agli Arditi del Popolo) ed oggi il focus cambia radicalmente. Ieri un elemento di composizione dell’antagonismo poteva essere la difesa operaia contro la violenta esplosione fascista mentre oggi ci potrebbe essere altro (il “rigore”, l’autoritarismo di Emergenza dei governi tecnici…). Il punto è costruire un punto di vista sulla realtà capace di favorire la creazione di una prospettiva di lavoro comune. Se manca un punto di vista non è possibile definire neanche la realtà. Per questo la lettura di “Roma combattente” dovrebbe essere intrecciata a quella di “Bastardi senza Storia” che prova a considerare le stesse dinamiche di difesa antifascista a livello europeo (soprattutto in Germania) con alcune riflessioni sull’aspetto iconografico della conflittualità davvero interessanti. Il dispositivo storiografico che l’autore mette in campo in entrambi i suoi lavori si fonda su un elemento imprescindibile. Gli anni Venti hanno sancito la sconfitta del movimento operaio ed hanno incubato il fascismo (ed il nazismo) nelle forme che a noi saranno tristemente più note. Da questo, a cascata, inizia la narrazione.

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“Questo non è un Manifesto”, Negri & Hardt. Una recensione.

Dopo la trilogia è arrivato anche il (non) Manifesto e si presenta un po’ come i titoli di coda di un lavoro lungo circa un decennio. È questo il percorso del ticket Hardt & Negri, che ancora continua a snocciolare teoria per allietare le prospettive del movimento ed estenderne le capacità di conflitto e di organizzazione. Già in “Comune” avevamo notato alcune eccedenze sul terreno dell’analisi per entrare più apertamente nel campo della proposta. Evidentemente c’era bisogno del ciclo di lotte che dal 2011 si è allungato fino ai giorni nostri per dare quel “quid” per avanzare delle prospettive di organizzazione, o semplicemente delle analisi più stringenti. Ed infatti “Questo non è un manifesto”, circa 100 pagine edite da Feltrinelli, si presenta come un tentativo di chiudere il cerchio della teoria per entrare più nello specifico su alcuni problemi lasciati a terra dalla pratica.

Innanzitutto autogestione ed autonomia del Comune. Il tratto “politico” non cambia (almeno rispetto all’ultima, omonima, fatica letteraria). Il discorso ruota, giustamente, tutto intorno ai commons ed al “che fare” per renderli pienamente autonomi e, quindi, effettivamente autogestiti dalle singolarità in lotta. È questa la base del tanto celebrato “processo costituente” che condensa e sostanzia una prospettiva realmente rivoluzionaria dei commoners (ossia i nuovi militanti, gli “agenti del cambiamento”) contro il potere della merce ed il dominio della proprietà privata. “I commoners non sono comuni solo per il fatto di lavorare, ma, piuttosto e soprattutto, perché lavorano sul comune”. Ed in modo particolare lavorano a forme di organizzazione politica “comune”, non temendo lo specialismo perché ogni Essere umano, con la giusta formazione, potrebbe essere messo nelle condizioni di capire ogni cosa. Una delle allegorie più interessanti richiamate nel testo è la “Carta della Foresta” (1217) che, dopo una stagione di privatizzazioni radicali (che trovarono espressione nella ben più nota “Magna Carta”), garantiva e regolava l’accesso dei “commoners” alle risorse comuni. Ma andiamo con ordine.

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Ilva. Futuro. Casa.

C’era una volta un libro di Felix Guattari. Si chiamava “Le Tre Ecologie” (1989). In questo libro il coautore di Millepiani tracciava una cornice e la fissava bene alle pareti della storia con tre chiodi (decisamente eco-friendly): ecologia ambientale, ecologia sociale ed ecologia mentale. Questa la cornice, quindi. Il quadro che ne viene fuori, oggi, rimanda ad un mosaico interdisciplinare che parla di tutto perchè tutto parla. E potremmo anche provare a definire questo “tutto” come Ecosofia. Riducendo il discorso all’essenziale si potrebbe dire che, quello a cui siamo realmente interessati, sia l’Essere umano in rapporto al suo ambiente molteplice (fisico, sociale e mentale). Le Comunità ed i Territori si costituiscono in mezzo a questi processi di soggettivazione e territorializzazione ed è questo che ci interessa indagare.

Quello che sta accadendo a Taranto è emblematico. Non a caso si parla di Taranto, del Territorio e della Comunità che ospita, e non semplicemente dell’ex Italsider (ora ILVA). Il focus di tutta la vicenda è proprio questo. Perchè tutto parla. Da una parte c’è il ciclo produttivo novecentesco ed una concezione esclusivamente lavoristica delle organizzazioni “democratiche” che dovrebbero difendere la dignità degli Esseri umani; dall’altra c’è il Territorio che chiede di mettere radicalmente in discussione questa concezione e, di conseguenza, anche se stesso perchè scorre nelle sue vene il sangue malato della fabbrica. Non c’è “classe” che tenga a questa lacerazione. E’ l’ultimo passaggio verso la trasformazione radicale del nostro Mondo. Il nuovo Mondo è qui ed ora. La catastrofe è che in questa lacerazione bisogna prendere parte.

Due articoli di Girolamo De Michele per focalizzare la questione e provare a “prendere parte”: “Taranto: la città che non vuole morire a norma di legge” e “Risvegliarsi dal Giorno della marmotta. Chiudere l’Ilva, uscire dal Novecento“.

La Filosofia, il marketing dell’Accademia e la Ricerca. Ma di cosa stiamo parlando?

La querelle che è nata intorno all’intervento di Diego Fusaro non mi ha colpito. Per niente. Nello zaino avevo un libro di Ernesto De Martino che parla della fine del Mondo; qualche euro in un borsellino che solitamente utilizzo a Natale per giocare a carte con gli amici; una postepay da caricare per comprare il viaggio Nord-Sud (e ritorno) per tornare a Vivere almeno qualche ora della quotidianità che amo; un tesserino che identifica la mia appartenenza al Lavoro. Il Lavoro ogni mese mi permette di sopravvivere e di comprare anche una bottiglia di Birra. Questo, per me, è il Beruf (depurato da Weber e dall’Etica calvinista). Beruf è attaccamento alla Vita ed il Lavoro è solo una forma di questo attaccamento (non ne è il paradigma). Dopo i commenti alla querelle quello che avevo ho ancora, nulla si è aggiunto e nulla si è distrutto. Eppure un confronto dovrebbe lasciare qualcosa, dovrebbe arricchire le certezze oppure semplicemente regalare dubbi (che, spesso, valgono molto di più). Niente di tutto questo.

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“Grillismo”, razzismo e soggettività politiche…

Questo thread di Wu Ming 1 era necessario perché si sente sempre più forte l’urgenza di ridefinire gli spazi politici, ormai spazzati via dalla banalità del quotidiano. Puntare il dito sulla fine delle “Grandi Narrazioni” è un mantra che non funziona più. Condivido l’analisi sugli approcci diversi del dichiararsi “indifferenti” ai posizionamenti classici rappresentati dalla destra e della sinistra. Dipende sempre da chi urla e dai contenuti espressi (d’altronde “storicizzare al massimo” vuol dire proprio questo).
Come esempio tendenzialmente destrorso da aggiungere al “grillismo”, citato nel post come modello e pratica dell’annullamento destra-sinistra per una ipotetica “terza posizione” non bene precisata, aggiungerei anche l’Onda studentesca che, in quanto a metodi e “paranoie”, non si è mostrata molto differente. Le lezioni dei professori-baroni in Piazza sono state la rappresentazione visiva di un fallimento. I cortei gridavano “né destra né sinistra” eppure le Assemblee ospitavano interventi-fiume di grandi firme che non hanno favorito (e tantomeno stimolato) nessun cambiamento reale perché modificare lo status non fa comodo a nessuno. È stato un movimento che non ha costruito nessuna conflittualità e si è risolto come una parentesi allegra sulle pagine di “Repubblica”, proprio dove era nato.

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“One Big Union”, di Valerio Evangelisti. Una recensione

(Puoi comprare il libro in offerta al seguente link: One big union (Strade blu. Fiction)

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One Big Union” è una lettura indispensabile, oggi. Una lettura che contribuisce a creare cultura politica ed a definire soggettività. Insomma, tutto quello di cui abbiamo bisogno. Non sappiamo se il New Italian Epic (NIE), come viene indicato nei memoriali di Wu Ming 1, sia davvero finito nel 2008 con la grande masturbazione della “italian left” (la prima pagina de “il Manifesto” del 15 aprile 2008 rimarrà a lungo un nostro pezzo di storia). In realtà non ci interessa saperlo. One Big Union, come altre pubblicazioni, rientra a pieno titolo in quel potente percorso letterario che contribuisce, ogni giorno (ed ancora oggi), a creare cultura ed a farci Singolarità. Potenza della letteratura. Basta mettere le pagine in contro-luce, cercando l’attualità dietro le parole. Potrebbe essere interessante leggere il 15 ottobre 2011 attraverso questo canale. Si aprono spazi di comprensione e di resistenza. Comprensione della storia e delle sue dinamiche. Consapevolezza del Movimento (più o meno operaio). Perchè, come scriveva Mario Tronti: “ai capitalisti fa paura la storia degli operai, non fa paura la politica delle sinistre. La prima l’hanno spedita tra i demoni dell’inferno, la seconda l’hanno accolta nei palazzi di governo“. E la storia del Movimento operaio è storia di lotte, di antagonismo e di organizzazione. E’ storia di trasformazioni e di adattamenti. E’ storie di lotte di classe e di condensazioni delle soggettività in lotta. One Big Union traccia uno spazio di questa lotta attraverso l’esperienza degli Industrial Worker of the World (IWW), una delle organizzazioni sindacali statunitensi più presenti ed attive nel primo Novecento. Nata dalle ceneri di strutture più “mistiche”, come i Knights of Labor, caratteristica dei wobblies (gli iscritti al IWW) era quella di organizzare i lavoratori orizzontalmente, senza cadere nella verticalità delle divisioni produttive. Sullo stesso piano, nelle stesse lotte, erano coinvolte soggettività con mansioni lavorative anche molto differenti. Tutti erano partecipi di quell’idea di nuova Società che era compresa ed ispirava la vita quotidiana del Sindacato. Inoltre l’organizzazione era aperta a tutti, senza preclusione per i migranti (spesso tenuti fuori dalle strutture “tradizionali”). Il “leit motiv” che rappresentava il senso comune di appartenenza all’organizzazione era: An injury to one is an injury to all.

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