Come ti Governo le cose e gli Esseri umani.

1 Maggio 1968, a Valle Giulia (Roma, nelle vicinanze di Villa Borghese e del quartiere Flaminio) gli studenti aggrediscono la Polizia nel tentativo di “riprendere” la Facoltà di Architettura, dalla quale erano stati precedentemente sgomberati (su richiesta del Rettore Pietro Agostino D’Avack). La violenza della mobilitazione segnò uno scarto con quelle precedenti ed il Movimento studentesco dimostrò di poter “competere” con l’organizzazione della Polizia, resistendo alle cariche. Risale, invece, al 12 Dicembre del 1969 la strage di Piazza Fontana. Si parlò, e si parla ancora, di “strategia della tensione”. Ad ogni modo lo Stato cercò evidentemente di utilizzare l’Evento catastrofico per produrre un’eccedenza di controllo e “normalizzazione”. Le forze dell’Ordine furono tutte mobilitate, le misure legislative divennero più restrittive. Ogni cosa fu controllata, scissa, riportata alla tranquillità del quotidiano.

19 Febbraio 1977, Luciano Lama, a quel tempo Segretario della CGIL, fu contestato e fisicamente “cacciato” dall’Università “La Sapienza” di Roma, durante un Comizio organizzato dalle organizzazioni sindacali. L’Università, in quel momento, era occupata dalla mobilitazione studentesca e l’Evento “catastrofico” divenne l’occasione propizia attraverso cui il Rettore dell’Ateneo, Antonio Ruberti, “consegnò” lo Spazio universitario alla Polizia (sperando di normalizzare la contestazione e riprendere il controllo delle strutture accademiche). Questa data è generalmente diventata l’atto di nascita del Movimento del ’77 e segna la rottura con la “Sinistra istituzionale” (il PCI), mentre maturavano i tempi del “Compromesso storico” con la DC. La forma “nuova” della contestazione, la metodologia utilizzata, definisce, anche in questo caso, la nuova dimensione del Conflitto, una prospettiva differente rispetto alla consueta dialettica politica ed istituzionale.

Settembre 2010, Festa del Partito Democratico. Prima la contestazione al Ministro Schifani, successivamente quella al leader della CISL, Raffaele Bonanni. I responsabili, almeno nella retorica dei media, sono i “grillini”, i “ragazzi dei Centri sociali”. Di Pietro è considerato un “cattivo Maestro”. Strumenti utilizzati: fischi, fumogeni, slogan. Metodi da stadio, mentre la Tessera del Tifoso divide ancora aspramente le tifoserie, animando di contestazione e violenza quelle più reticenti a farsi “schedare” per una partita di Calcio. Ugualmente viene contestato Marcello Dell’Utri, sempre dai “ragazzi dei Centri sociali”, mentre cerca di presentare i “diari di Mussolini”. Come da cronaca quotidiana, i soliti “ragazzi dei Centri sociali”, contestano a Livorno un Corteo organizzato dal PDL per portare ordine, luce e disciplina in una Città devastata dallo scontro radicale tra “disgraziati” italiani da una parte contro “disgraziati” stranieri dall’altra. Fischi, fumogeni. Ancora una volta.

Sembra che la “contestazione da Stadio” (con i cori annessi e connessi) si stia riversando nelle strade, diventando una forma che anche la Politica definita “antagonista” cerca di fare propria. Tutto questo accade mentre il Governo (ed anche l’opposizione, perchè il PD non è esente da criticità) vive la peggiore crisi di credibilità dai tempi di tangentopoli. Scontri istituzionali, mentre il Paese soffre. La disoccupazione dilaga, la precarietà impazza, il “raziocinio collettivo” sembra cadere sempre più in basso. Ed ora, per porre fine a quest’orda barbarica che minaccia pericolosamente la Democrazia liberale, attendiamo solo l’estensione della Tessera del Tifoso ad una “Tessera dell’Essere sociale”.

Precarietà, una questione di Terra!

Non è mia intenzione fare una trattazione minuziosa e completa della “precarietà”. Non solo per mancanza di spazio ma, soprattutto, per la debolezza dei riferimenti ermeneutici che, oggi più che mai, sono come fuochi fatui da cogliere con fatica. Probabilmente dovremmo riprendere le lanterne della follia per ricercare queste fiamme ipotetiche, per comprenderle (senza necessariamente vederle) ed averne coscienza. Ci mancano dei riferimenti, ci manca una grammatica, ci manca un linguaggio.

La “precarietà” non è semplicemente una categoria economica attraverso cui leggere le dinamiche sociali che si sviluppano tra il Capitale ed il Lavoro, magari in associazione a poche righe marxiane sul “General Intellect” per costruire su questo asset una nuova elaborazione onnicomprensiva della realtà. Non è, quindi, la caratteristica “unificante” di un’ipotetica nuova soggettività produttiva, che si dovrebbe fare, prima o poi, antagonista (di questo tenore sembra essere la trilogia di Negri ed Hardt). Sono stati spesi decine, forse centinaia, di libri e di articoli su questo argomento. Ma c’è qualche conto che, evidentemente, ancora non torna. Perché nulla è accaduto, nulla è cambiato. Nulla si è organizzato e niente si scorge all’orizzonte. La “precarietà”, a livello meramente contrattuale, si potrebbe associare a diverse forme, nessuna riconducibile ad un modello prestabilito, secondo le infinite fattispecie previste (non a caso) dall’attuale Diritto del Lavoro. A livello esistenziale, invece, non si auto-determina come “precario” semplicemente chi viene definito da un lavoro subordinato, parasubordinato, “a progetto”, “a chiamata” ed affini. Insomma, non accade, oggi, quello che è accaduto durante mezzo secolo di Welfare State, quando la collocazione lavorativa definiva a tutti gli effetti anche i tratti somatici ed ontologici delle soggettività interessata. “Io operaio”, “io dipendente pubblico”, “io funzionario” e via dicendo. Non esiste, quindi, un “io precario” perché la precarietà è una condizione da cui si vuole sempre fuggire. D’altronde non dovrebbe neanche essere considerata come un fenomeno esclusivo dei giorni nostri. Essa, da questo punto di vista, è sempre esistita. Sarebbe sufficiente leggere dei libri di storia economica, ma basterebbe anche sfogliare le pagine del primo libro de “Il Capitale” (soffermandosi in particolare sulle splendide inchieste giornalistiche che vi sono contenute). La “precarietà” è semplicemente stata sospesa e riorganizzata, per un certo periodo di tempo, a causa della forte propulsione politica ingenerata nelle dinamiche sociali ed economiche da alcune organizzazioni novecentesche che hanno costretto una parte di borghesia industriale a scendere “a patti” con i lavoratori, concedendo qualche diritto elementare e strutturando queste “cortesie” attraverso un registro giuridico (lo “Statuto del Lavoro”). Ma questa spinta ha cominciato ad incrinarsi già dalla fine degli anni Settanta, e in maniera più evidente dagli Ottanta, fino a presentarsi come catastrofe ai giorni nostri. La “precarietà”, sempre a livello di rapporto tra Capitale e Lavoro, non è altro che un ritorno al passato.

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La funzione Democratica della Cultura nella Società di Massa

Per Democrazia si potrebbe intendere non tanto il potere (κράτος) del démos (δῆμος) in senso stretto, quanto la possibilità (e la capacità) di un gruppo sociale di “fabbricare” il soggetto/oggetto del proprio Governo. Se provassimo a leggere ogni esperienza “democratica” alla luce di questo nesso (dall’Atene periclea alle Democrazie liberali moderne, passando per i Regimi “totalitari” del Novecento), non è escluso che si potrebbe commentare in maniera diversa la Storia politica dell’Occidente. Si vedrebbe, forse, come il nesso principale del Governo “democratico” non stia solo nella conquista del Potere, ma si potrebbe trovare nella ricerca del consenso di massa. Dove c’è consenso, più o meno diffuso, c’è realmente Democrazia. Solo il leninismo si pose il problema della gestione del Potere con l’esperienza dei Soviet (tradotti in Italia con i “Consigli di Fabbrica” durante il biennio rosso). Anche questo tentativo, però, presto fu ricondotto ai “normali” processi democratici del consenso sviluppatesi in seno alla fondazione dello Stato stalinista (l’Economia di Guerra era funzionale a costruire un consenso politico). Con questo si potrebbe dire, più o meno provocatoriamente, che anche il Fascismo ebbe una propria caratteristica democratica perché, indubitabilmente, poteva contare su un consenso diffuso, derivato principalmente dalle criticità esplosive dello Stato liberale che non riusciva più a dare risposte effettive ad un disagio sociale sempre più ampio. Insomma, la Democrazia non sarebbe tanto il “potere al popolo”, come spesso si dice, quanto il “potere del popolo”. Per “potere del popolo” non s’intende la possibilità di guida “diretta” delle Istituzioni ma la capacità di legittimarne il Governo attraverso il consenso. La capacità di un gruppo, quindi, starebbe nel creare le condizioni politiche, sociali, culturali ed economiche per ottenere consenso e legittimazione.

La Cultura è una delle “camere oscure” in cui si condensa il soggetto/oggetto del Governo perché svolge, nella Società di massa, una funzione direttamente riconducibile alla creazione del consenso. Essa, in particolare, eserciterebbe quest’ufficio non solo in senso propagandistico, bensì ponendo le condizioni per l’unificazione “culturale” del δῆμος su cui esercitare il κράτος. Per porre in evidenza l’importanza “democratica” del consenso, ai fini del raggiungimento del Potere, si è scelto di riprendere la querelle tra Elio Vittorini e Palmiro Togliatti, all’alba della Repubblica italiana, sul rapporto tra Politica e Cultura.

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