“Anatra all’Arancia meccanica” di Wu Ming, una recensione

Anatra all'Arancia meccanica

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Sono passati dieci mesi dalla pubblicazione di “Anatra all’Arancia meccanica“, autore il Collettivo Wu Ming. Questo il thread di “lancio”. Qui, ed anche qui, una raccolta di interventi, opinioni e recensioni. Una panoramica interessante che misura il reale “assorbimento culturale” (dov’è l’opinione pubblica?) dell’ultima fatica dei “senza nome”.

La nostra recensione sarà un’anti-recensione, come al solito, perchè i libri bisogna viverli e non riassumerli. Ed ognuno vive le parole a proprio modo (fortunatamente!). Ognuno crea la sua resistenza a propria immagine e somiglianza. Siamo come piccoli demiurghi diffusi che, attraverso la creatività, producono gioia e rivoluzione. Gioia e Rivoluzione. Saremo, quindi, banali. Estremamente banali. Perchè la banalità rende le cose per quello che sono realmente, senza nasconderle dietro l’ipocrisia del marketing o l’auto-referenzialità della scrittura.

Anatra all’Arancia meccanica è una raccolta ontologica di 16 racconti pubblicati da Wu Ming su vari spazi. Una raccolta “ontologica” (no, non è un refuso) perchè racconta la genesi di un decennio di movimento e di soggettivazione (i fantastici “Anni Zero”). Un decennio di avvenimenti (l’11 settembre americano, Genova 2001, il berlusconismo…) e di nuovi strumenti (internet, le discussioni via mail, i blog, i social network…). Una genesi straordinaria che, dalle allegorie rivoluzionarie, si riproduce in dinamiche “umane, troppo umane“. Perchè non solo tra il dire ed il fare c’è di mezzo il mare.

Queste 16 narrazioni sono la cornice dentro cui viene raccontato un nuovo Mondo. Un Mondo in potenza e la sua potenza fallita. Sono storie che intrecciano la realtà. Sono livelli di realtà che diventano storie. Perchè Anatra all’Arancia meccanica è la critica della Narrazione con la N maiscuola. E’ la critica della Storia con la S grande. E’ una cornice dentro cui le nostre Vite cominciano a vivere in mille modi. Attraverso stili differenti, visioni alternative ed anti-retoriche. Non c’è la grande Città pronta a sussumere ogni meccanismo sociale nelle sue viscere metropolitane (non siamo tutti metropolitani). Ci sono le periferie, le province. Piccoli mondi futuri che urlano le loro contraddizioni e reclamano spazi di visibilità.

E poi c’è la violenza. Un filo conduttore che lega le narrazioni. Violenza dell’Essere umano su se stesso. Violenza dell’Essere umano sugli elementi naturali della Terra. Ma su questo sarebbe meglio far sedimentare qualche altra riflessione.

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Terra Mare Cielo. Una presa di posizione nel Conflitto tra Kairos e Chronos.

Consideriamo innanzitutto una differenza. Meglio, pensiamo ad un conflitto rispetto a cui siamo obbligati a prendere parte. A parteggiare. C’è bisogno di dire qualcosa, di usare la parola e l’azione per fermare il Tempo, con l’intenzione di stare nel mezzo. La nostra comune esistenza è scandita da un ciclo di Vita storicamente determinato, raffigurato da un’unica linea orizzontale su cui si svolgono tutte le eventualità del quotidiano. PassatoPresenteFuturo. Con tre punti, all’inizio ed alla fine, per indicare l’infinito. È uno schema cifrato sul quale si può solo andare avanti, anzi si deve, perché ogni cosa diventa necessaria. Si devono semplicemente accumulare avvenimenti, uno dopo l’altro, per custodirli nella sacca dell’esperienza, fare fagotto e continuare il percorso. Accumulazione. Ragioniamo, in questo caso, nei termini della cronologia, ovvero dell’Evento intrappolato dal (e nel) discorso storico. Capitalismo e Rivoluzione. Ciclo di crisi e Catastrofe. È questo che ci chiede il buon senso, la teologia ed ogni scienza tecnica ed umanistica, ossia saperi che si azzuffano per divenire unici ed universali. Perché la Salvezza è sempre dietro l’angolo, a qualche passo di distanza.

Occorre ancora camminare. Lasciamoli litigare. Intanto noi tramontiamo. Al tramonto, infatti, l’Evento potrebbe ribellarsi, dimenarsi, scalciare. Cominciare a far del male. Farebbe male allo status, a tutto quello che si è sempre pensato come senso comune. Si scoprirebbe il ciuffo di capelli sulla testa di Kairos, il momento opportuno della decisione o dell’azione, che si sposta da una parte o dall’altra per determinare le vallate della storia. Sarebbe un cadere oltre l’ordine delle colonne d’Ercole. Kairos è la fine del Mondo. È la vera palingenesi senza missione. Senza messianismo.

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Per un richiamo alle arTi…

Ci manca la creatività. La creatività di “un’Arte nuova che tragga la Repubblica dal fango”. Perchè senza creatività siamo persi. Perchè la creatività apre l’indignazione introducendola in uno spazio gioioso di trasformazione. Ci manca la creatività perchè senza creatività siamo chiusi nell’angustia dei tempi. Siamo mosche che gozzovigliano sulla merda per poi sbattere contro una finestra chiusa dal Potere.

“In balia di una sorte avversa”, di B. S. Johnson. Per una “strana” recensione…

"Viandante su mare di nebbia", Caspar David Friedrich

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Una bella serata di fine Novembre. Bella per essere una serata di fine Novembre, in Città. La temperatura non è ancora precipitata e si riesce ad avere le mani scoperte senza il pericolo che la pelle si rompa in cento stigmate laiche. Il cielo è ancora tagliato da una o due nuvole che, durante il mattino, hanno lasciato cadere qualche goccia di pioggia. E’ un chiaroscuro affascinante tra l’oscurità della notte, illuminata timidamente dalle luci gialle di periferia, e le differenti tonalità di grigio che caricano le nuvole. Il vialetto che porta alla fermata del bus è ricoperto di foglie ingiallite che si mischiano al terriccio bagnato. Cerco un guado sicuro mentre sistemo l’auricolare ed alzo il colletto della mia giacca marrone. Cercando di non cadere su quell’intingolo di foglie e terra, le mando un messaggio. Farò qualche minuto di ritardo. La fermata del bus ha il solito aspetto tranquillo. La Chiesa lì davanti sovrasta una piccola Edicola verde. Accanto c’è la segnaletica, la mia segnaletica. Un divieto di sosta. Un appoggio su cui sostare, aspettando di vedere più avanti il mio bus. Una canzone finisce e ne comincia un’altra. Così per altre due o tre volte. Io mi spingo in avanti per cercare di avere una visuale migliore, come se la vista avesse il potere di far accadere le cose. Come se il destino si sentisse spiato e potesse cedere ai miei bisogni. Faccio un giro intorno a me stesso e ritorno a posare la schiena sulla segnaletica. Intano finisce un’altra canzone ed un’altra ancora comincia. Decido di prendere dalla mia borsa nera il libro che sto leggendo. Acquistato qualche giorno prima su consiglio di una brava banditrice letteraria. B. S. Johnson, “In balìa di una sorte avversa“. Prefazione di Jonathan Coe. Di Jonathan Coe non ho letto molto e ricordo a stento qualche titolo, però quel poco che ho letto mi è piaciuto. Un tipo di cui ci si può fidare. Perchè con i libri, ormai, è come con le persone. Costano troppo ed è meglio andare sul sicuro. Meglio non rischiare. L’autore del libro non lo conosco per niente. Ma questa lettura, questo B. S. Johnson, mi provoca ad affrontare un’esperienza nuova. Mi piacciono le provocazioni. E’ come uno sbirro che ti fissa per farti reagire e tu devi essere così bravo da non rispondere. Mi piace rispondere alla provocazioni, o non rispondere. A seconda della provocazione. Ad ogni modo questa provocazione si presenta come un cofanetto che contiene 27 sezioni non rilegate. Un libro fatto razionalmente a brandelli e dato in pasto al lettore che, seguendo una indicazione di massima, può leggere e creare altro dopo aver letto. Non è la solita banalità della conclusione “a scelta” di chi legge. Che idiozia. Le conclusioni sono come la coda di un topo. Troppo lunghe. Troppo insignificanti. Quello che conta è il corpo. La possibilità di modificare la composizione degli organi. Mettere un rene dove Dio ha visto un pene. Sbeffeggiare in questo modo la santità dell’opera d’Arte. Che bella provocazione. Mi mancano poche sezioni. Quattro, o forse tre. Comincio a leggere, ma prima mi guardo intorno provocando il destino. Il numero, il mio numero, non si vede ancora. Ma c’è una ragazza. Comincia un’altra canzone. Comincia un’altra sezione.

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Comune e Comunità visti dallo specchietto retrovisore

Vladimir Krikhatsky, "Il primo trattore"

La Terra resiste ancora!
Mille conflitti illuminano il cielo dell’attualità come fuochi d’artificio in the dark side della politica, tra processi di espropriazione e messa_in_rendita del Comune (ormai il profitto è lettera morta sulle pagine della storia) e creazione costante di forme alternative di “democrazia” (Comitati territoriali, spazi “liberati” e via dicendo) in dichiarata opposizione alla governance neoliberale. La Vita, ogni singola Esistenza terrestre, si biforca materialmente tra l’essere-Capitale Umano (sotto il comando dispotico della governance, secondo le teorie di Gary S. Becker) ed il divenire-Singolarità (nella condensazione di forme di Vita “comune”). Il concetto dell’Esodo dai processi del comando, come costantemente proposto nella narrazione hardtnegriana (ed approfondito nella trilogia di “Impero”, “Moltitudine” e “Comune”), sembra essere solo vuota retorica se rapportato alla realtà. Nella materialità della Vita ogni Esistenza terrestre si presenta, allo stesso tempo ed in ogni momento in un presente aeternum, come Capitale Umano e Singolarità. Non è un dispositivo da risolvere, una schizofrenia da curare, ma sono scelte concrete da compiere in ordine sparso ed a seconda del momento e del contesto. È una biforcazione, non una contraddizione, da praticare pienamente come opportunità. Il conflitto, in questo caso, non sta tanto nel campo dell’Etica (o, peggio ancora, in quello della morale) quanto in quello dell’organizzazione complessiva della Vita. L’organizzazione complessiva della Vita, infatti, si pone direttamente il problema delle Istituzioni del governo e delle forme della governance. È in questo spazio “materiale” che si situa realmente il conflitto, con tutte le sue potenzialità esplosive, ovvero nella ristrutturazione delle modalità di controllo ed esproprio del valore prodotto dalla cooperazione.
Che il Comune sia con tutt@.

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Come cambiare il mondo, recensione al libro di Eric Hobsbawm

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Che ci sia, ormai da qualche anno, una proliferazione di libri su Karl Marx e sul marxismo sembra essere abbastanza evidente. Basta fermarsi a leggere i titoli sugli scaffali di molte librerie. Pensiamo sia superfluo indagarne le ragioni, anche perchè andrebbe fatta una valutazione qualitativa (più che quantitativa) di questi titoli. E, generalmente, una valutazione qualitativa è sempre fin troppo “soggettiva” quindi finirebbe per rispecchiare solo il “nostro” desiderio di trovare qualcosa di diverso su quegli scaffali. I criteri sono personali. Di comune opinione, comunque, è che stiamo vivendo una fase storica di estrema crisi (non solo economica ma di “paradigma” in senso molto più ampio) con un vuoto teorico a tratti straordinario rispetto alla critica della società ed alle teorie dell’organizzazione (anche politica). Aggrapparsi a Marx, ovvero all’ultimo grande tentativo organico di rispondere e “comprendere” i mutamenti sociali, è una reazione “difensiva” più che comprensibile ed accettabile.

A proposito della diffusione dei testi su Karl Marx, scrive il giornalista Antonio Caroti sul Corriere della Sera (il 19 maggio 2011):

In Italia questo libro trova terreno fertile, dato che persino alla Luiss, università della Confindustria, si organizzano convegni annuali sul filosofo di Treviri per iniziativa di Corrado Ocone, autore del saggio Karl Marx (Luiss University Press). Mentre nelle librerie abbondano volumi come Marx di Stefano Petrucciani (Carocci), La forma filosofia in Marx di Paolo Vinci (manifestolibri), Karl Marx di Nicolao Merker (Laterza), Marx. Istruzioni per l’uso di Daniel Bensaid (Ponte alle Grazie).
Ad esempio Diego Fusaro, autore del saggio Bentornato Marx (Bompiani), è per molti versi in sintonia con Hobsbawm: «Oggi Marx — sostiene — è un naufrago, scampato all’incorporazione del suo pensiero nello stalinismo, ma anche alla demonizzazione di chi gli addebita il Gulag. Inoltre è un segnalatore d’incendio, che ci mostra come la società capitalista sia ambigua, sospesa tra grandi promesse di emancipazione e concreta negazione di tali prospettive per gran parte dell’umanità, e produca una profonda alienazione, per cui nel nostro mondo i protagonisti non sono gli uomini, ma le merci, con i loro riflessi incantatori e feticisti».

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Ambiente ed Economia, tra ragioni economiche e biopolitica. Intervista ad Ottavio Marzocca.

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Filosofi Precari intervista Ottavio Marzocca che anticipa i temi della lectio magistralis tenuta al Festival della Filosofia 2011 (introducendo alcune tematiche trattate nel suo ultimo libro Il governo dell’ethos. La produzione politica dell’agire economico).

15 ottobre 2011, Indignados a Roma – day after

Il giorno dopo le violenze del 15 ottobre 2011 a Roma, si mette prepotentemente in moto il dispositivo della normalizzazione che definisce chiaramente anche le conseguenze reali di quanto accaduto in Piazza San Giovanni.

Antonio Di Pietro e Roberto Maroni condividono la necessità di scrivere nuove Leggi contro “i violenti”. Il modello di riferimento è la Legge Reale che, in modo particolare, consentiva alle forze dell’Ordine pubblico di utilizzare in maniera legittima le armi e permetteva di usare lo strumento della custodia preventiva contro Esseri umani ritenuti “a rischio”. Era un meccanismo normativo pensato durante gli anni di piombo per dare una coperta legale all’esercizio del potere preventivo contro possibili atti di terrorismo, sospendendo di fatto i Diritti di ogni cittadino perchè si creava uno stato di emergenza sostanziale che limitava l’esercizio di molte liberà individuali e collettive.

Il Sindaco di Roma Gianni Alemanno vieta il corteo della FIOM previsto venerdì 21 ottobre con lo scopo di chiedere alla FIAT la pubblicizzazione del Piano industriale di “Fabbrica Italia“. Motivazione del divieto è, appunto, la sicurezza. Per almeno un mese a Roma non si svolgeranno cortei ma, nel migliore dei casi, sit-in e comizi in tono minore. L’indignazione dei vertici della CGIL (da Susanna Camusso a Maurizio Landini) è inutile, così come superflua sembra essere la trattativa che sta ancora andando avanti in Questura.

Ulteriore motivo di lacerazione nel Movimento è l’aiuto per l’individuazione dei violenti (attraverso testimonianza e immagini). Alcune parti condividono la linea della collaborazione, altri tendono alla non criminalizzazione e quindi si oppongono. Anche questo sarà motivo di divisioni e di profonde lacerazioni. Intanto tutta l’Italia è stata rivoltata da un’ondata di perquisizioni che, casa per casa, ha coinvolto molte zone tradizionalmente “esterne” alla politica “comune”.

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15 ottobre 2011, Indignados a Roma – post Manifestazione

Il 15_Ottobre_2011 avrà un seguito. Lo sta già avendo (come è successo, recentemente, al 14_Dicembre_2010). Non solo nella gioiosa e profetica (“ve l’avevamo detto”) vis editoriale (che già sta esplodendo attraversando ogni tipo di supporto tenico) e partitica (è stato aperto il buco nero dove far cadere ogni opposizione). Il Movimento (?) stesso sarà portato a parlarne. Dovrà discutere perchè, ancora una volta, si pone chiaramente il tema delle modalità di partecipazione. Di “postura” all’interno di un percorso politico. La questione non è banalmente il conflitto e le sue molteplici modalità di espressione. Il punto non è il “che fare” ma il “come stare” o, meglio, il “come Esistere” dentro una mobilitazione di Singolarità, di Corpi e di Emozioni. Come Esistere perchè Esistere significa farsi Comune. Non c’è comunità (commons) senza la condivisione di alcune modalità di esistenza. Il nodo è esclusivamente questo. E’ squisitamente politico (ovvero quando la teoria si fa Vita). Non è tutto un indistinto minestrone di esperienze ma esiste chiaramente un dentro ed un fuori. Deve esistere. Non è un dispositivo di esclusione, come generalmente lo sono (o lo diventano) tutte le dicotomie. E’ una modalità di inclusione, una questione di confine. Una scelta. Wu Ming sta già dando spazio a questo dibattito che sarà molto vasto (e si perderà comunque nei mille rivoli della rete). Si scopre che già nelle fasi organizzative della Manifestazione queste modalità di espressione molto differenti erano già venute alla luce. Nulla di nuovo, quindi. Anzi si evidenzia l’impossibilità, a tratti apocalittica, di fare a meno di queste manifestazioni di violenza perchè co-esistenti alla protesta.

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15 ottobre 2011, Indignados a Roma – pre Manifestazione

A distanza di qualche ora dall’inizio della Manifestazione che porterà gli “Indignados” italiani da Piazza della Repubblica a Piazza San Giovanni passeggiamo sul web per raccogliere posizionamenti ed osservazioni.

Il Fatto quotidiano scrive sulla possibilità che questo sabato di mobilitazione possa risolversi in “un nuovo G8” (ricordando implicitamente Genova 2001) anche a causa delle dimensioni estremamente disarticolate delle realtà in campo, senza organizzazione e “direzione” politica (o progettuale). Non a caso si fa riferimento direttamente a Francesco Caruso (parlamentare di Rifondazione Comunista nei recenti anni del “disgelo” dell’antagonismo), che racconta la sua preoccupazione “perché i giovani non hanno un canale per esprimere la loro rabbia […] prima c’erano i partiti e i sindacati che oggi sono stati sostituiti da questa protesta acefala, senza alcuna centrale organizzativa. E la disarticolazione potrebbe generare scontri”. Insomma, Il Fatto quotidiano mette al centro della propria analisi la paura che tutto possa risolversi nella violenza temendo “blitz di provocatori” che potrebbero mettere in discussione la piattaforma sostanzialmente pacifica di questo 15 ottobre 2011. Ed a questo proposito si chiedono lumi anche a Paolo Ferrero, Segretario di Rifondazione Comunista. Perchè quando si parla di violenza, in atto o in potenza, è quasi ovvio dialogare con la sinistra “estrema”. E gli estremisti così rispondono: “Questa storia di cosiddetti ambienti del Viminale che fanno circolare voci su infiltrati e disordini ogni volta che c’è una manifestazione, deve finire, siamo al boicottaggio. Stiamo lavorando pancia a terra per la riuscita, le nostre strutture di partito sono a completa disposizione del movimento che si batte contro il liberismo selvaggio, quello pornografico di Berlusconi e quello in giacca e cravatta dei Montezemolo, Della Valle e Profumo”. La morale del Fatto quotidiano è fin troppo semplice: “sfilate a braccia alzate”, per evitare tutto questo (si citano i commenti di qualche utente dei social network che hanno organizzato la manifestazione).

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FestivalStoria 2011, Torino. Risorgimenti, Ricostruzioni, Rinascite.

E’ in fase di conclusione il FestivalStoria, giunto alla VII Edizione. Come il Festival della Filosofia, un altro appuntamento determinante per la costruzione di un pensiero critico italiano pienamente consapevole delle proprie potenzialità e dei propri sviluppi.
Questi alcuni cenni della prolusione di Angelo D’Orsi. Al riguardo ci viene solo un dubbio. Le profonde contraddizioni del nostro Risorgimento si possono davvero ridurre “banalmente” ad una questione di “Rivoluzione passiva” o, forse, c’è qualcosa di molto più evidente che ci impedisce di fare un ragionamento realmente fuori ogni retorica ideologica e necessità “patriottiche”? L’incapacità di risolvere il problema della diffusione democratica del potere non basta a squalificare il Risorgimento come un movimento di esclusiva colonizzazione?

Quel nostro Risorgimento, dunque, fu cosa importante, benché “rivoluzione passiva” (è ancora Gramsci, che riprende il concetto di un altro grande partenopeo, Vincenzo Cuoco), e incapace di mobilitare le masse, rendendole protagoniste, pur nelle diatribe vivaci, spesso trasformate in forte contrasto, tra moderati e democratici, monarchici e repubblicani, cattolici (ma anche protestanti) e laici (e anche di questo parleremo nei prossimi giorni), malgrado tutto ciò, quel moto ha rappresentato il momento fondativo dell’Italia con le sue pecche, i suoi limiti, certo, ma anche con gli eroismi generosi di quanti, magari suggestionati da Dante e Machiavelli, da Petrarca e Foscolo, immolarono la loro giovinezza. Questa Italia, come quella del “Nuovo Risorgimento”, la Resistenza (a cui non abbiamo, forse colpevolmente, dedicato un apposito incontro), è quella che ci sta a cuore, e non è un caso che nell’età risorgimentale, o immediatamente successiva, si studiò con particolare cura, e vorrei dire accanimento, il Rinascimento: erano due momenti di rinascenza (e anche qui abbiamo un approfondimento specifico, particolarmente originale), che seguivano a fasi di prostrazione della nazione.
Ricostruire dalle macerie, risorgere dalla malattia, rinascere dalla morte del corpo politico: “come può sorgere o rinnovarsi una nazione”. Così recita il sottotitolo dell’edizione, che reca in fondo un augurio sotteso all’Italia, in questa sua fase storica che non esito a definire precatastrofica. Ma la catastrofe può e deve (così insegna la tragedia classica greca), essere l’inizio della rinascita, sia pure a duro prezzo. Un augurio sarebbe necessario anche per la nostra Europa, che, sempre più pare dimostrarsi una unione di banchieri e non di popoli; qui, doverosamente, considerata la sede, ma anche per il suo significato paradigmatico, affronteremo, oggi stesso, con un diplomatico, Jürgen Bubendey, e uno storico, Gian Mario Bravo, il tema del rapidissimo (all’epoca si disse troppo rapido, esempio di artificialismo politico estremo) passaggio dalle due Germanie alla Repubblica Federale unita. Si è trattato di un buon affare per tutti? Sono stati più i vantaggi che gli svantaggi, si direbbe, a giudicare dalla orgogliosa tenuta della nuova Germania nella crisi del Continente, e dalla sua rigogliosa ripresa economica. Ma è tutt’oro quel che riluce? Domani, sempre qui, con un altro studioso tedesco, Karl Schloegel, forse potremo anche cogliere il risvolto della medaglia. Ma guarderemo più largamente al Vecchio Continente, ai suoi incessanti sforzi di costruzione e decostruzione, passati attraverso guerre mondiali e guerre locali, che in certi suoi angoli continuano anche mentre noi siamo qui a parlarne.
E, tornando all’Europa, non sarà che sacri egoismi stanno avendo la meglio sui generosi disegni unitari dei padri fondatori (e persino dei lontanissimi progenitori, come quel Carlo Magno, di cui parleremo a Savigliano domenica, con Giuseppe Sergi e Germana Gandino)?

Nuovi filosofi, tra le risorse umane e la tentazione della pasticceria

dal Corriere della Sera, di Maria Egizia Fiaschetti

ROMA – Platone li candidava alla guida della Repubblica. Il suo era uno Stato ideale, certo, motivo per cui i filosofi – gli unici a conoscere l’essere e la verità – sarebbero stati i più adatti a governarlo. E nell’odierna democrazia? Se a Montecitorio i filosofi scarseggiano, nel Paese reale c’è chi continua a coltivare l’arte della sapienza. Per passione: come Zena – la 32enne precaria, «sibilla» di strada per guadagnare qualche spicciolo – e altri giovani pensatori. Così motivati da assumersi le conseguenze: tacciati di anacronismo e snobbati dal mercato del lavoro. Le prospettive, in effetti, non sono rosee: lo dice l’ultima indagine di AlmaLaurea sulla condizione occupazionale dei laureati. Secondo lo studio (dati aggiornati al 2010), su 586 intervistati il 41% riesce a trovare lavoro a un anno dalla laurea specialistica: il 42,7% sono donne, il 38,8% uomini. Il 44,2% degli occupati inizia a lavorare dopo aver conseguito il titolo, il 25,4% prosegue l’attività intrapresa prima di iscriversi. Il tempo che trascorre dalla laurea al primo impiego è, in media, di 5 mesi. Il 57,9% dei laureati sono lavoratori atipici, a fronte dei 26,7% stabili (6,7% autonomi, 2% assunti a tempo indeterminato). Il 77,1% trova sbocchi nel privato, il 22,1% nel pubblico. Il settore che assorbe gran parte della domanda, l’89,2%, è quello dei servizi: in testa, il ramo “istruzione e ricerca” (24,2%). La retribuzione mensile netta è di 1.010 euro per gli uomini, di 747 per le donne. (l’articolo continua su Corriere della Sera)