Invictus, ovvero sul potere dello sport. Una recensione del film

Invictus, di Clint Eastwood, è un’ ottima occasione per riflettere sulla costruzione dell’identità nazionale di un popolo che si riscopre unito solo durante un evento sportivo. Un Sudafrica diviso in due: bianchi e neri, ogni gruppo ha un suo sport d’elezione. I bianchi, discendenti dei vecchi colonizzatori boeri ed inglesi, giocano a rugby, uno sport “barbaro giocato da gentiluomini”. I neri giocano a calcio, sport “gentile giocato da barbari”. Mandela, leader descritto come pacificatore nazionale, si accorge dell’occasione offerta dai campionati mondiali di rugby per tentare una difficile conciliazione simbolica, sotto un’ unica bandiera, sotto un unico inno e dei colori unici. Una delle scene centrali del film è proprio l’acclamazione popolare del nuovo presidente nero nello stadio, durante la premiazione della finale vinta dalla nazionale sudafricana contro  new zeland; i bianchi lo applaudono ed inneggiano al suo nome. Il paradosso del “tribalismo” sportivo: ci si scorda dell’apatheid, delle segregazioni, degli odi, del PIL, della crisi, delle vendette, almeno per qualche tempo. Un nuovo apparato simbolico costruito ad hoc, che avvolge tutti, da cui è difficile prescindere, un apparato che delimita un nuovo confine tra il noi (non più l’io) e l’alterità. Il tutto fatto con la massima serietà, dando ragione ad Huizinga di Homo ludens: chi gioca, chi gareggia lo fa con la massima serietà, oltre che con libertà. L’atmosfera del gioco, della competizione, è ben delimitata, è sacrale, è un tempio (da temno, dividere). Gareggiare è un bisogno primario, così come è un bisogno primario costruirsi una identità, delimitarsi. Ed ecco che identità e sport, ma anche sacro e sport, possono tranquillamente essere sovrapposti, diventare (ma lo sono sempre stati) bisogni primari, e magari (spero) noi filosofi un giorno ci accorgeremo che sport, gara e gioco sono argomenti da affrontare con molta più attenzione, con la stessa serietà con cui un giocatore di rugby affronta la sua partita. Proprio il filosofo Huizinga descrive il gioco in cinque punti, che vedo parecchio assimilabili alla struttura del sacro:

1) Il gioco è un atto libero, è libertà

2) Il gioco non è ordinario, o di  vita “reale”

3) Il gioco si distingue dalla ordinarietà in durata  e nello spazio

4) Il gioco crea ordine, è ordine. Il gioco richiede un ordine assoluto e supremo

5) Il gioco non è connesso con bisogni materiali, e non ci può essere profitto in esso

Ci sarebbe molto da commentare. Mi limito a dire, molto sinteticamente, che trovo troppo classica e del tutto irreale la suddivisione fra bisogni “materiali” ed “immateriali”, e che non esiste un gioco puro, che non abbia qualche forma di profitto (il profitto non è solo qualcosa di meramente monetario).

Ma torniamo al film. La trama è molto lineare, costruita senza funambolismi registici e facile da comprendere. I personaggi sono dei topos, ognuno rappresenta una categoria di persone diversa (lo sportivo, il politico, l’uomo di partito, il presidente, la guardia del corpo) . Manca però, o è marginale, la categoria “vecchia generazione”, giacchè il film è centrato sul nuovo, sui giovani, su coloro che sono disposti ad accettare, a scommettere su una nuova idea di convivenza e di nazione. Il nuovo ha pero come mentore Mandela, un anziano e saggio presidente che si assicura che l’intera squadra di rugby capisca gli orrorri e gli errori della vecchia generazione. Dicevo, manca il negativo:  gli stessi genitori del capitano della nazionale di rugby, Francois Pienaar, che (all’inizio del film)  rappresenterebbero il “vecchio”, sono insufficientemente delineati, anzi, vi è descritta una loro “conversione”, una apertura al nuovo. Manca cioè, da un punto di vista narrativo, l’ostacolo, dal punto di vista reale e politico, gli orrori e le disegualianze che ancora appestano il Sudafrica: il film porta con sé una buona dose di ottimismo e speranza, molto distante da altre pellicole che affrontano più da vicino il problema razzismo, come Il colore della libertà.

Una nota a margine: tutto il Sudafrica nero, nella finale del  mondiale di calcio del 2010, ha tifato per la Spagna. L’Olanda sapeva troppo di boeri, afrikaners, i loro diretti ex colonizzatori, gli attuali gruppi  di interesse più potenti del Sudafrica. Loro, naturalmente, tifavano per gli orange.   

Prima lezione di Antropologia, di Francesco Remotti. Una recensione

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(nelle foto, due uomini “primitivi” a confronto)

Alle volte è un peso scrivere recensioni, mai nel caso di Francesco Remotti. Prima lezione di antropologia è davvero  un pregevole libro del nostro filosofo-antropologo. Del resto, è l’ennesima opera di un autore che, da anni, cerca di decostruire il concetto di cultura. La tesi di fondo di questo testo è la seguente: elaborare forme di umanità significa sempre scegliere, separare e scartare, distinguersi da altre possibilità, che a loro volta vengono respinte ed allontanate. La cultura, le delimitazioni, si scavano nella carne, nei solchi della pelle, nei tatuaggi, nei piercing, nelle poderose mura del nostro variegato apparato simbolico, nelle mode, nelle nostre religioni e istituzioni. La cultura cerca di farsi natura, così la natura cerca di trasformarsi, anzi, legittimarsi in cultura.  Alla fine però, le diverse umanità autocreatesi  sono dipendenti l’una dall’altra. Le varie UMANITA’ sono in una inconsapevole simbiosi. Esempio centrale del libro per significare quest’ultimo concetto sono gli studi sul campo fatti dall’antropologo Roy Richard Grinker. La zona prescelta è la foresta equatoriale dell’Ituri, nel nord-est dell’Ex Zaire, ora repubblica democratica del Congo. In particolare Remotti si concentra su due diversi modi di COSTRUIRE UMANITA’, da parte dei Lese, coltivatori, e da parte dei Pigmei Efe, cacciatori. La distanza spaziale tra i due gruppi è minima, ma la distanza antropologica è massima. Per noi, apparentemente sia i Lese sia gli Efe vivono nella foresta  equatoriale del Congo. Collochiamoci ora nelle loro rispettive concezioni.

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Piccola critica a René Girard.

René Girard, chi è costui? Fra i filosofi teoretici, da alcuni anni, è scoppiata una vera e propria girard-mania (Vattimo docet). Tutti lo studiano, tutti lo citano (ai miei tempi, anche io lo studiai, e di certo ha fascino, il fascino di un narratore che crede, nel suo romanzo, di aver risolto tutti i misteri dell’universo). Certo, citarlo non significa condividerne il pensiero tout court, ma io ci penserei due volte a citare un autore simile, non vorrei legittimarlo troppo.  Molto ma molto sinteticamente, ecco le mie principali ragioni sul perché il sistema proposto dal tuttologo francese sia uno dei nuovi miti del mondo filosofico, e si basi su dei profondi equivoci, molto spesso sulla non conoscenza di questo autore.

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L’eroe dai mille volti e l’eroe “pop”. Una recensione del libro di Joseph Campbell

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Sto leggendo da qualche giorno La morfologia della fiaba di Propp, studio “vecchio” ma che sorprende per la sua analiticità e modernità, nonché per il rigoroso metodo scientifico applicato, per quanto possibile, a dei testi raccolti dal folklore del mondo intero. Il libro non può che ricordare (inaspettatamente, anche per alcune conclusioni) un altro capolavoro della mitologia comparata, e cioè L’eroe dai mille voltidi Joseph Campbell, studio che divenne la Bibbia di sceneggiatori del cinema come George Lucas.

Cosa hanno in comune, dal punto di vista morfologico, le storie su Gilgamesh, Edipo, Teseo, Budda, Bastiano (il protagonista de La storia infinita, di Michael Ende),  Gesù Cristo, Neo (l’eroe di Matrix), Pinocchio, Ulisse, Luke Skywalker (l’eroe di Guerre stellari), Frodo Beggins (l’eroe del Signore degli anelli), le storie dei giochi di ruolo o quelle di altri miti famosi delle culture umane? Cosa hanno in comune, per esempio, con la vita di Peter Parker o di tanti altri supereroi dei fumetti?  Non si tratta qui di cercare derivazioni, analisi genetiche, ma di “semplici” analisi formali, come quelle che fa Mircea Eliade nel Trattato di Storia delle religioni. Si tratta anche, in latere, di determinare come funziona la mente umana, la cultura, quali sono le meta-forme da cui viene attratta, quelle che conserva più facilmente e che “crea”, investe di “sacralità” antistorica più facilmente.

 

Campbell riassume e semplifica le cose in alcuni punti: l’eroe, il protagonista dei miti (oggi come ieri) affronta quattro fasi principali: 1) fase dell’innocenza, della vita ordinaria o dell’infanzia  2) separazione 3) iniziazione 4) ritorno. Ognuna di queste fasi ha al suo interno diverse varianti e componenti. Ad esempio, nella fase 1 spesso avviene che, all’inizio, l’eroe “rifuita” la chiamata ad una nuova vita, rifuta la separazione. Afflitto da tentennamenti, l’eroe supera una figura che Campbell definisce il Guardiano di Soglia, che offre all’eroe un quadro di quello che gli aspetterà e gli fa da guida.  La fase 3 infatti spesso si compone  dell’incontro dell’eroe con un mentore, un vecchio saggio, con degli aiutanti.  L’iniziazione è la fase “dolorosa”, con spesso la morte dell’eroe, la prova (l’eroe è divorato dal mostro, l’eroe combatte il mostro, l’eroe è smembrato, l’eroe patisce), con un immancabile oracolo che preannuncia tutto ciò, o con l’incontro con una Dea o con la donna perfetta di cui si innamora. Il ritorno, dopo l’apoteosi dell’eroe e la riconciliazione con il padre, è caratterizzato da una nuova forma di vita, quasi divinizzata, sacra, piena e ricca, responsabile, libera.

Qualche esempio. Siddharta è un principe ricco e potente, protetto dalle premure del re padre. Un vecchio preannuncia, alla madra Maya, appena nato, il suo futuro glorioso. Siddharta vive all’interno di una città protetta da mura, in cui egli non conosce povertà, la vecchiaia né la sofferenza. Ma un giorno decide di scoprire cosa sia la sofferenza, la vecchiaia, la morte, e abbandona il nido paterno. L’ “iniziazione” lo farà maturare,  gli permetterà di vincera Maya, l’illusione-ignoranza, e Kama, il “mostro” con le sue tre pericolose figlie: dopo anni di ascesi, Budda scopre la “via di mezzo” e redime (in un senso non cristiano) il mondo, raggiunge l’illuminazione sotto l’albero Pipal. L’apoteosi gli permetterà di essere l’Illuminato, il Signore del mondo. La vita di Gesù Cristo morfologicamente è molto simie a quella di Budda, con l’aggiunta del del golgota (la “morte” per eccellenza) e della riconciliazione con il padre, il padre che ESIGEVA un sacrificio.

 

Il paragone però si assume meglio con un mito pop cinematografico, e cioè Guerre Stellari. Luke vive una vita ordinaria, con gli zii, unumile contadino. Poi la chiamata al superamento della soglia: entra in scena C1 con il  suo videomessaggio. Il guardiano di Soglia è il vecchio jedi Kenobi, che pian piano guiderà inizialmente  il giovane sulle vie della forza, verso il suo destino, e cioè sconfiggere il mostro, l’impero, e il vero mostro freudiano, Darth Fener, il “padre”, con cui si riconcilierà.. In questo lungo, doloroso viaggio (vi è perfino la “caverna” nella quale Yoda, vero mentore di Luke, lo inizierà alla forza), vi si affiancano dei compagni di viaggio, come Leila (che svolge anche il ruolo di eroina e donna amata), Yan Solo e Chubecca.

 

A livello di una analisi sulla morfologia “genetica”, nella lontana base genetica di questi miti (d’oggi come di ieri) per Propp come per Campbell ci sarebbe il monomito rituale originario, e cioè l’ancestrale e onnipresente rito di iniziazione dei popoli “primitivi”: al sorgere della pubertà l’iniziato veniva lasciato nella “foresta”, dove avviene lo “smembramento” rituale da parte del “mostro” o degli officianti del rito di passaggio, come prova del passaggio dalla adolescenza a maturità. Il rito, che deve essere “doloroso” e angoscioso,  permette il ritorno dell’uomo al suo villaggio. Campbell però si spinge, anche diversamente da Levi-Strauss, sul considerare le strutture mentali alla base di tali costruzioni, ed avvicinandosi alle teorie di Jung sul considerare simili strutture mitopoietiche come “innate”.

Ma eroe pop è anche la Nazionale Italiana nel 2006, celebrata e deificata per le strade di Roma (dalla morte di calciopoli alla resurrezione della finale di Berlino) così come Silvio Berlusconi, che combatte il ”mostro” (Tartaglia, i comunisti, i traditori finiani, la stampa, i magistrati), che muore e risorge, che finalmente “scende in campo” dopo una vita “ordinaria” e “privata”, non al servizio dei cittadini. Berlusconi perseguitato, ma che continua a seguire il suo destino. Berlusconi che si è fatto dasolo, che con le sue forze, partendo da perfetto sconosciuto, dalla banalità e quotidinaità, è diventato l’uomo più potente d’Italia. Berlusconi e  i suoi profeti, i suoi fedeli oracoli, Baget Bozzo e Don Verzè. Studiare mitologia comparata però fa capire che non è l’eroe che fa interpetare questi eventi come ”mitologici”, ma sono questi eventi, massificati e ideolocizzati, direi “messi in archetipo”, a creare l’eroe. Creare dei prefissi, dei sur-, equivale a nient’altro che creare una metastoria ideale e modellarla su strutture ben note, strutture che la narrativa sfrutta dal giorno in cui l’uomo ha creato il primo mito intorno al primo fuoco.

Filosofia al femminile e fallocentrismo vaticano

Ho visto al cinema  il film di Amenabar, Ipazia, dedicato alla filosofa più famosa della storia. Davvero, considero delle vere e proprie genialate del regista le inquadrature che dalla città di Alessandria si perdevano nello spazio, in orbita, a relativizzare gli eventi di quelle formiche, lì in basso, tutte prese a combattersi in nome di dèi e divinità, in nome di appartenenze, sottocategorie di appartenenze. La stessa eroina  Ipazia, tutta protesa a capire i misteri dell’ellisse e delle orbite planetarie, tutta protesa ad ascoltare la pitagorea musica dell’universo, piuttosto che a sedare i rumori di folle barbare ed infeoricite che la circondavano. Un film abbastanza falso, piuttosto una bella messa in archetipo su cosa sia la ricerca filosofica, cosa il dogma, cosa la speranza, cosa la fede. Una delle frasi più significative del film è di Ipazia, che risponde ad un vescovo, altro archetipo di talebano: Voi non potete dubitare, io devo.

A proposito di fede, oggi leggo questo articolo sulla Repubblica; è significativo per capire cosa sia l’appartenenza fideistica ad un gruppo, ad un partito, ad una chiesa, cosa, per opposto, sia la filosofia:

LE NUOVE LEGGI DEL VATICANO
Chi ordina prete una donna finisce
a giudizio nei tribunali del Sant’Uffizio

Insieme all’eresia, all’apostasia e allo scisma, sarà tra i delitti più gravi. Inasprimento anche sui preti pedofili

MILANO – L’ordinazione sacerdotale delle donne, l’eresia, l’apostasia e lo scisma. Nuovi delitti del foro ecclesiastico saranno contenuti nell’aggiornamento del Delicta graviora, il documento che accompagnava il Motu proprio «Sacramentorum sanctitatis tutela», firmato nel 2001 da Giovanni Paolo II. Il nuovo documento conterrà anche procedure più restrittive sulla pedofilia. Secondo fonti informali – per ora non confermate nè smentite dal Vaticano – l’aggiornamento cui sta lavorando la Congregazione per la Dottrina della Fede e che sarà reso pubblico la settimana prossima, prevederà che coloro che conferiranno l’ordinazione sacerdotale a esponenti del sesso femminile potranno essere giudicati dai tribunali dell’ex Sant’Uffizio.

SCOMUNICA -L’ordinazione sacerdotale di donne è già proibita dal Vaticano. Il 29 maggio del 2008 l’Osservatore Romano ha pubblicato un decreto firmato dal prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, card. William Jospeh Levada, che disponeva la scomunica «latae sententiae» cioè automatica per chi ordina donne prete e per le donne che ricevano l’ordinazione. Ora, secondo le indiscrezioni raccolte, con l’aggiornamento dei Delicta graviora, l’ordinazione delle donne dovrebbe essere«elevata a delitto più grave». I delitti contro la fede più gravi contemplati dal Delicta graviora attualmente previsti sono essenzialmente tre: l’attentato contro l’eucaristia, l’attentato contro la santità della confessione e l’abuso sessuale su un minore.