Robert Nozick, Anarchia, Stato e Utopia. Una recensione critica (di M. Rossi)

Come individui, ciascuno di noi a volte preferisce sottoporsi a dolori o sacrifici per ottenere un beneficio maggiore o per evitare un danno maggiore […] Perché non sostenere, analogamente, che qualche persona deve fare sacrifici dai quali altre persone trarranno vantaggi maggiori, per amore del bene sociale complessivo? Ma un’entità sociale il cui bene sopporti qualche sacrificio per il proprio bene, non esiste. Ci sono solo individui, individui differenti, con le loro vite individuali. Usando uno di questi individui per il vantaggio di altri, si usa lui e si giova agli altri e basta. Che cosa succede? Che gli vien fatto qualcosa a profitto di altri. Ciò è nascosto sotto il discorso del bene sociale complessivo (Robert Nozick, Anarchia, Stato e Utopia)

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Un’opera fondamentale nel dibattito politico e filosofico contemporaneo è quella di Robert Nozick, Anarchia, stato e utopia. Questo libro, uscito nel 1974, si presenta come una critica libertaria e anarco capitalista della teoria della giustizia di John Rawls, edita tre anni prima, e sviluppa sue linee originali anche rispetto ai liberisti europei della scuola austriaca. Paradossalmente, i due rivali muoiono nello stesso anno, il 2002, dopo uno scontro durato quasi trent’anni. Per Nozick, la giustizia distributiva è incompatibile con i diritti degli individui. Dividerò il mio intervento in due parti: nella prima parte riassumerò brevemente i capisaldi del libro, nella seconda avanzerò alcune critiche essenziali al suo lavoro.

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John Rawls, Una teoria della giustizia. Una recensione (di Michela Rossi)

Le diseguaglianze sociali ed economiche devono soddisfare due condizioni: devono essere legate a funzioni ed a posizioni aperte a tutti, in condizioni di parità equa delle opportunità; devono procurare il più grande vantaggio ai membri più svantaggiati della società”. (John Rawls, Il principio di differenza, par. 46 di “Una teoria della giustizia”, 1971)

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Contro l’utilitarismo classico di Bentham, Mill e seguaci postmoderni, John Rawls propone una nuova soluzione per coniugare giustizia sociale e liberalismo in una nuova, celebre, teoria della giustizia. Teorico del contratto, lo studioso è considerato oggi nel mondo come il massimo esperto della “terza via” tra liberismo e socialismo, e il suo libro è ormai un classico della filosofia politica. Rawls rilegge Aristotele e i classici della filosofia politica inglese (Locke, Hume, Hobbes). Il suo contrattualismo è in parte ispirato a Rousseau, ma senza una teoria dello stato di natura. La sua concezione della morale affonda le sue radici in Kant. Il libro, pubblicato nel 1971, genererò molte critiche ed un dibattito vastissimo: dagli ultra-liberali era ritenuto troppo di sinistra, e dai socialisti troppo di destra. Dal 1971 al 2002, anno della sua morte, Rawls ha pubblicato molti articoli e altri libri per spiegare, ampliare e difendere la sua teoria, diventata nel frattempo un pilastro delle teorizzazioni sociopolitiche del Ventesimo secolo.

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“La scimmia nuda”, di Desmond Morris

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Nella foto sopra, i famosi Macachi giapponesi. Famosi soprattutto per aver imparato la tecnica del bagno caldo e sviluppato una gerarchia classista: solo i parenti del capobranco possono avere accesso ai bagni caldi, indispensabili per sopravvivere al rigido inverno nipponico. Il resto del branco può solo osservare i privilegiati da poco lontano.

Sulle orme di Lorenz Konrad, vi segnaliamo l’interessante lavoro del noto etologo inglese Desmond Morris La scimmia nuda“. Quella che segue è l’introduzione, che vale come una sorta di recensione metodologica dell’intero libro.

Esistono centonovantatré specie viventi di scimmie con coda e senzacoda; di queste, centonovantadue sono coperte di pelo. L’eccezione è costituita da uno scimmione nudo che si è auto-chiamato Homo sapiens. Questa razza eccezionale ed estremamente capace trascorre molto tempo ad esaminare i propri moventi più nobili ed altrettanto ad ignorare accuratamente quelli fondamentali. E’ orgogliosa di possedere il cervello più voluminoso tra tutti i primati, ma cerca di nascondere il fatto di avere anche il pene più grande, preferendo accordare questo onore al possente gorilla. Si tratta di uno scimmione che usa molto i propri mezzi vocali, ha un acuto senso dell’esplorazione ed è rappresentato da molti esemplari, per cui è ormai tempo di esaminare il suo comportamento fondamentale.Io sono uno zoologo e lo scimmione nudo è un animale; esso costituisce un argomento facile per la mia penna e mi rifiuto di continuare ad evitarlo solo perché alcune sue forme di comportamento sono piuttosto complesse e sorprendenti. La mia giustificazione è che pur nel diventare tanto erudito, l’Homo sapiens è rimasto uno scimmione nudo e che nell’acquistare nuovi ed elevati moventi, non ha perso nessuno dei vecchi moventi più bassi. Spesso ciò gli provoca un certo imbarazzo, ma i suoi antichi impulsi gli appartengono da milioni di anni, i nuovi solo da qualche millennio, e non vi è alcuna speranza che egli possa scuotere via rapidamente l’eredità genetica che si è accumulata durante tutto il suo passato evolutivo. Sarebbe un animale molto meno preoccupato e più soddisfatto se solo affrontasse questa realtà. Forse è qui che lo zoologo può aiutarlo.

Tecno-scienza e filosofia ambientale. Oltre l’umanesimo. Un connubio possibile?

Questo, dunque, è quello di cui si occupano le arti,
questo è quello che si propongono, cioè restituire a noi
la somiglianza divina.
(Ugo di San Vittore)
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Le correnti ideologiche che si battono per il superamento delle dicotomie uomo/natura, natura/cultura e materiale/immateriale rappresentano un potenziale alleato delle ragioni ambientaliste in quanto intaccano, scardinandolo alla base, il paradigma umanista ed antropocentrico dell’uomo anomalia del cosmo, dell’uomo differente di natura, dell’uomo incompleto e inadatto che si redime tramite la cultura e la tecnica, destinato a dominare e sottomettere la natura per via di un destino, una origine, un telos superiori. A queste correnti alleate appartiene in maniera particolare quella che si potrebbe definire la galassia del postumano. I presupposti del superamento dell’umano, del farsi-uomo classicamente ed umanisticamente inteso si ritrovano compiutamente in Nietzsche, ma è solo nel Novecento che tale prospettiva trionfa nella sua peculiarità, grazie soprattutto allo sviluppo esponenziale delle tecnoscienze e alla teoria dell’evoluzione. Invece di avvertire la tecnoscienza come un pericolo, invece di creare un nuovo luddismo e così adeguarsi ad alcune correnti filosofiche del Novecento o all’ambientalismo classico, il postumano vede in essa un elemento chiave, atto al riposizionamento dell’uomo nel suo umile posto all’interno della natura e come parte integrante del tutto, un tutto che non è inteso misticamente ma in maniera, come si vedrà, del tutto laica ed oggettiva.

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Uno studente di filosofia… nel medioevo

Anche v’era uno studente di Oxford
che a lungo s’era affaticato con la logica;
il suo cavallo era magro come il manico d’un rastrello.
e v’imprometto che grasso non era neppure lui;
guardava melanconico dall’occhio incavato,
liso era il suo corto mantello del tutto,
perché ancora non s’era procurato alcun beneficio
né tanto era mondano (1) da trovare un impiego.
Quanto a lui gli era più caro d’avere
in capo al letto una ventina di volumi
intorno ad Aristotele e alla sua dottrina
di nero rilegati o di rosso,
che non ricche roba, liuto o gaio salterio
.”

G. Chaucer, I racconti di Canterbury, Sansoni, Firenze, 1963, cit. in McLuhan, La galassia Gutenberg. (1)Mc Luhan propone di leggere ‘worthy’ (di valore) e non ‘wordly’ (mondano).

“La scimmia pensante” di R. Dunbar. Una recensione sulla storia evolutiva umana

(Nella foto al lato, un particolare delle Grotte di Lascaux, dette anche “la Cappella Sistina della preistoria”)

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«Le urgenze e i clamori del nostro tempo si placano quando ci ricordiamo della stranezza del tempo in cui viviamo: il periodo che, a partire dalla scomparsa di Neanderthal, 28.000 anni fa, giunge sino a oggi è l’unico, nei cinque milioni di anni di storia della famiglia degli umani, in cui ci sia stata una, e una sola, specie vivente di ominidi. Finora non c’è probabilmente mai stato un periodo di tempo che non abbia visto almeno due (e qualche volta si arriva fino a cinque) specie diverse di ominidi percorrere contemporaneamente le grandi vie di raccordo del mondo – incontrandosi all’improvviso e studiandosi con cautela, di tanto in tanto. […] L’eccezionalità della storia recente dell’umanità ha portato a rafforzare in noi l’impressione di essere assolutamente unici; forse è anche responsabile dell’eccessiva importanza che attribuiamo a noi stessi.» (da “La scimmia pensante“)

Questo libro divulgativo si rivolge ad un pubblico anche non specialista: è la storia molto semplificata di cosa siamo, e dei nostri pregiudizi. Ciò diventa evidente fin dall’inizio, quando, dopo un breve schizzo impressionistico delle origini umane a partire degli australopitechi, Robin Dunbar (professore di Psicologia evolutiva all’Università di Liverpool) respinge in modo inequivocabile quello strano sentimento, bizzarro, dell’unicità umana. O quell’ interpretazione che vede l’uomo di Neanderthal come una specie primitiva e così separata dalla nostra. In realtà è quasi certo che umani moderni abbiano convissuto con i Neanderthal e con i Cro-Magnon per diverse migliaia di anni. Un periodo in cui avremmo incontrato sulla terra strani esseri simili a noi, con lo stesso nostro sguardo, bipedi e produttori, come noi, di raffinate tecniche, arti e arnesi. Forse, anche con una religione. E se i Neanderthal non si fossero estinti, oggi forse saremmo in guerra contro di loro e contro i loro dèi. O forse avremmo cercato di convivere, inventandoci un dio che è loro ma anche nostro. La storia raccontata da Dunbar è a volte un po’ troppo sbrigativa (come si usa spesso nel mondo anglosassone, priva di quello spessore filosofico a cui siamo abituati in Europa continentale) ma è comunque una storia avvincente, che vale la pena di percorrere brevemente, anche perché il suo interesse principale è capire le origini della moderna coscienza umana.

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La scoperta del giardino della mente, tra scienza e mistica. Una recensione

(Nel video, la straordinaria conferenza della dottoressa Jill Bolte Taylor, sottotitoli in italiano, video 1/2)

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Jill Bolte Taylor ha trentasette anni, una laurea ad Harvard e un lavoro come neuroscienziata e ricercatrice universitaria quando, una mattina, un capillare esplode improvvisamente nell’emisfero sinistro del suo cervello provocandole un danno cerebrale esteso e devastante. «Nelle quattro ore successive, con gli occhi curiosi di neuroanatomista, assistetti al crollo completo della capacità della mia mente di elaborare informazioni. Alla fine di quella mattinata non riuscivo più a camminare, parlare, leggere, scrivere o ricordare eventi della mia vita.

Il suo percorso verso la completa guarigione è durato otto lunghissimi anni, nel corso dei quali ha potuto sperimentare la duplice veste di medico e paziente. E da questo insolito doppio ruolo ha ricavato spunti, consigli e suggerimenti terapeutici utili a chiunque sia rimasto vittima di un ictus o di un trauma cerebrale e a coloro che li curano e li circondano.

Ma La scoperta del giardino della mente non è soltanto la cronaca dettagliata e diretta di una straordinaria ripresa fisica, è soprattutto la testimonianza di un’esperienza umana unica. Jill, infatti, non è più stata la stessa di prima: l’ictus, mettendo temporaneamente fuori gioco il preponderante e razionale emisfero sinistro, ha dato spazio alla creatività e alle sensazioni, emozioni e intuizioni proprie dell’emisfero destro; e oggi, pur continuando a occuparsi di ricerca, la neuroscienziata scrive, canta e realizza sculture in vetro colorato, felice di vivere e forte di una nuova pace interiore.

«Al cuore di questo libro non c’è in realtà l’ictus. Esso è stato soltanto l’evento traumatico che ha portato a un’illuminazione»: ovvero alla consapevolezza che tutti noi possiamo imparare a gestire meglio le potenzialità insite nel nostro cervello (possiamo, per esempio, apprendere come «disattivare» i circuiti dell’ira, della gelosia o della frustrazione per attivare invece quelli della gioia e della felicità), cambiando così le sorti della nostra vita e, di conseguenza, il mondo attorno a noi.”

Recensione tratta da Mondadori.it

Gramsci: contro il mito dell’estinzione dello stato e contro il messianismo

Estratto da Domenico Losurdo, Con Gramsci oltre Marx e oltre Gramsci, in «Critica Marxista», n. 5-6, 1997, pp. 56-66; ora in Giorgio Baratta Guido Liguori (eds.), Gramsci da un secolo all’altro, Editori Riuniti, Roma, 1999, pp. 95-112.

“Perché, nonostante la disfatta del «socialismo reale» e la conclusione del ciclo storico nell’ambito del quale dobbiamo pur collocare Gramsci, egli continua a rivelare grande vitalità e forza suggestiva, tanto da esser letto e discusso anche in ambienti politici ben lontani dal marxismo e dal comunismo e in contesti culturali e geografici assai remoti rispetto all’Italia? Si tenta talvolta di staccare questo straordinario autore dalla storia tragica del comunismo novecentesco. Ma un tale approccio è fuorviante. Già come pensatore, Gramsci mostra chiaramente di aver fatto tesoro della lezione di Hegel e di Marx: filosofare significa pensare concettualmente il proprio tempo; elaborare un pensiero e un progetto di emancipazione significa tracciare un bilancio storico dei movimenti di emancipazione concretamente emersi e sviluppatisi. Ma oltre che pensatore, Gramsci è stato anche dirigente comunista di primo piano: non può essere trasformato in una sorta di Horkheimer o di Adorno italiano, impegnato a costruire una teoria critica senza rapporto o con un rapporto esclusivamente polemico nei confronti del movimento comunista e del «movimento reale» di trasformazione della società. […]”

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Post-human, di Roberto Marchesini. Una recensione sulle nuove frontiere della hybris

(il bambino delle stelle, un fotogramma del film 2001 Odissea nello spazio”)

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Siamo delle macchine, e non in senso metaforico, ma letterale. Siamo macchine fatte di altre macchine. Le proteine di cui siamo composti sono esse stesse delle macchine, dei meccanismi. E il cervello è a sua volta una immensa macchina (Daniel Dennet)

Se siete interessati ad un manuale geniale, completo e specifico dedicato al dibattito sulla crisi dell’umanesimo e dell’antropocentrismo, sulla natura e l’identità umana dopo la rivoluzione darwiniana e l’evoluzione della tecnosfera, sui risvolti filosofici ed etici del postumanesimo e sulla ridefinizione scientifica su ciò che accomuna in chiave coevolutiva l’essere umano ad una macchina o da un altro animale, Post Human di Roberto Marchesini è il classico da non perdere. Oltre a ciò, Marchesini si inserisce nel prezioso dibattito su mente, coscienza e intelligenza artificiale, da sempre nel mirino di filosofi e neuroscienziati sempre in lite fra di loro. Ho letto molta letteratura di questo genere, ma posso tranquillamente dire che è un libro che svetta tranquillamente, nel panorama italiano, su tutti quelli dedicati ai medesimi argomenti di frontiera, specie se si è neofiti del campo e si cerca un libro che sia in grado di presentare l’intera questione con chiarezza senza tralasciare l’innegabile complessità degli argomenti. Temi dove la filosofia si sposa con antropologia, zooantropologia, scienza e tecnica, non senza uno sguardo critico e bioetico su alcuni risvolti di questo connubio (come l’iperumanesimo e il tecnognosticimo, gli “estropiani”, i transumanisti ed i risvolti etici sulle nuove biotecnologie). E soprattutto, questo prezioso connubio avviene sfruttando il paradigma della complessità ed evitando quegli odiosi riduzionismi che fanno spesso torcere il naso agli umanisti ed ai filosofi di formazione scientifica.

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“Lire 26900” di Frédéric Beigbeder. Recensione del manuale scomodo dei pubblicitari e del marketing

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Siamo il prodotto di un’epoca. O forse no. Così diventa troppo facile dare la colpa ad un’epoca. Più che altro siamo prodotti e basta. Merce posta in uno scaffale. Il mondo neoliberale non discute con degli uomini, non li ha minimamente presente fino a che essi non diventino dei prodotti seriali schematizzabili in note dinamiche del desiderio riproducibili in una macchina di Turing. E’ solo allora che può cominciare a discutere con dei soggetti, che ci ha presente. Le sue regole trasformano le persone in yogurt deperibili, in drogati di spettacoli pubblicitari, show, drammi e commedie. Consumatori di desideri creati a tavolino, consumatori di vite non proprie. L’unico spazio di libertà dalla pubblicità è trascinare il nome del prodotto nel cestino del vostro desktop, e poi selezionare “Svuota cestino”. Sperando, ovviamente, che con esso sparisca pure il desiderio. E qui entra in gioco la filosofia. Il desiderio: l’unico vero mostro che ci appartiene, che possiamo controllare e che dobbiamo forgiare, anche grazie alla filosofia. Quando ho finito di leggere “Lire 26900” di Frédéric Beigbeder ho avvertito sollievo, come se fosse finito un incubo. La stessa sensazione che ho provato dopo aver visto lo straordinario Requiem for a dream di Darren Aronofsky, un film solo un po’ più terribile e nichilista impegnato su un tema simile, la dipendenza (uno dei segreti del marketing è creare dei “dipendenti”). Certo, argomenti triti e ritriti, che la filosofia e la letteratura, il cinema e la musica hanno ampliamente sviscerato. Ma se scritti bene e con uno stile abbastanza originale (come in questo caso), vale ancora la pena di una ripassata. Il libro è una analisi cinica del desiderio, ed un abbozzo pratico e nichilista verso una filosofia della pubblicità. E’ anche un metodo affidato alla letteratura per scoprire la sindrome di Madame Bovary che è in ciascuno di noi, così efficacemente analizzata da quel geniaccio di Gustave Flaubert senza scomodare Lacan e Freud. Magari voi stessi state leggendo questa recensione perché attratti da una immagine, da una parola, o da un aforisma particolare che hanno suscitato curiosità e risvegliato un desiderio. Chiamati qui magari da un social network come facebook dove le nostre vite spesso si riducono a comunicazione pubblicitaria e reality. Come scrive Beigbeder “uno scrittore in pubblicità è l’autore di aforismi che vendono”, se state leggendo vuol dire che vi siete imbattutiti in un bravo pubblicitario (oppure uno fortunato). La prossima volta, pensateci prima di cliccare. La libertà è prima di tutto un atto radicale di anticonformismo.

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Filosofia, storia e… “La questione meridionale” in musica, di Eugenio Bennato

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Una recensione era indispensabile. L’ho ascoltato tutto di un fiato, di regola mi lascio più tempo per farmi entrare musica e parole. L’ultimo album di Eugenio Bennato è un condensato di musiche di altri tempi (e altri luoghi) riportate dolcemente al presente. Suoni, per esempio, che somigliano a quelli della mia Puglia. Ma è anche un modo per entrare in un dibattito oggi più che mai acceso, quello della questione meridionale. “La storia è scritta dai vincitori”, questo è risaputo, per cui bisognava scavare dentro una storia non ufficiale per riesumare dall’oblio del tempo la vita di “briganti” e “brigantesse”. Bennato lo fa con la musica, si era capito. Ma è un discorso che ora si fa sempre più complicato, visto che dietro il dibattito storico e filosofico (mai neutro, giacché che non esiste la neutralità in qualsivoglia racconto) si nasconde anche la politica, per cui oggi si oppongono movimenti e partiti di ispirazione territoriale (non solo la Lega Nord, ma la anche la galassia dei partiti meridionalisti, come Forza del Sud, Grande Sud, o addirittura i gruppi Neoborbone e i Savoia). Allo scontro sulla “questione meridionale”, ai nuovi revisionismi più o meno storicamente fondati si aggiunge la pubblicazione di alcuni libri molto divulgativi e solo occasionalmente accademici che stanno pian piano erodendo l’immaginario collettivo, fino ad ora dominato dalla retorica risorgimentale, unitaria, patriottica e… antimeridionale.

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La filosofia del rischio e dell’ emergenza. Il lessico dei nuovi assolutismi democratici

Il principio della deroga è da anni che esiste, sai chi lo ha inventato? La Malavita. Quando lo Stato deroga alla Legge non fa altro che copiare quello che fa la Camorra, perché la Camorra tutti i giorni deroga alla Legge. Fra la Camorra e lo Stato, c’è una sola differenza qui in Campania, che lo Stato per derogare fa un documento di carta mentre la Camorra se lo comunica a voce (Andrea)

Spesso si citano, per spiegare cosa sia la Shock Economy ed il capitalismo-governance dei disastri, libri e filosofi, intellettuali e sociologi. Il senso della Shock Economy, il senso del capitalismo emergenziale e del sistema che spesso viene messo in atto nelle nuove emergenze italiane e mondiali lo ha raccontato uno sconosciuto Andrea, un (mediaticamente) anonimo membro del comitato antidiscarica di Terzigno, intervistato da Annozero(1). Come vedremo, quello dell’emergenza, del rischio, è un problema che la filosofia politica sta affrontando sempre con più attenzione: solo per fare un nome fra i tanti, Ulrich Beck sta sviscerando da anni il rapporto fra libertà, biopolitica e rischio, o meglio, percezione del rischio. Un rischio che oramai entra nel corpo e lo struttura dall’interno. Qualcosa di più pervasivo della stessa “paura” hobbesiana. Sulla stessa lunghezza d’onda, i sociologhi-filosofi Anthony Giddens, Robert Castel e Zygmunt Bauman. Ma basterebbe anche pensare ai filosofi italiani Giorgio Agamben ed Ottavio Marzocca. Ogni rischio ha una salvezza. E la nuova salvezza secolarizzata la si ritrova proiettata nei nuovi super eroi dai poteri assoluti (e illiberali), nei leader carismatici di weberiana memoria.

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