Michela Marzano, Estensione del domino della manipolazione, una recensione di Rezi Perelli

Dino Valls, "Noxa"

“Privilegio di una minoranza, il capitalismo è impensabile senza la complicità della società…è necessario che, in un modo o nell’altro, l’intera società ne accetti, più o meno consapevolmente, i valori”. Fernand Braudel, La dinamica del capitalismo

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Il saggio illustra con semplicità (si legge la prima volta in quattro, cinque ore) come la cultura d’impresa abbia negli ultimi anni influenzato e determinato anche quella accademica, con la pretesa di sostituirsi ad essa come agente di cambiamento sociale (“istituzione totale capace di restituire senso alla nostra società”); si parla di estensione del dominio della manipolazione, proprio perché si è portato il linguaggio strutturato del management nella sfera privata. La Marzano ci vuole aiutare ad aprire gli occhi su un pericolo da non sottovalutare, quello della mentalità manageriale che sta invadendo da tempo la vita quotidiana, tanto da poter dire che oggi si “vive per lavorare”, e non più “si lavora per vivere”. Sta passando il messaggio che nel lavoro ci sia tutto l’essere, che l’individuo sia il lavoro che fa, ampliando il “sei quello che hai” (E. Fromm), il lavoro, insomma, come specchio dell’anima dell’uomo: “Ma nel momento in cui si identifica completamente con gli interessi dell’azienda, l’individuo perde la capacità di percepire la manipolazione cui è sottoposto. La relazione fusionale funziona talmente bene che un rischio mal gestito o un errore commesso precipiteranno il lavoratore in un vuoto esistenziale. Ha fallito dinanzi a coloro che si fidavano di lui, non è stato all’altezza delle aspettative: le aspettative altrui, ma anche le sue… Che senso ha la sua esistenza?”.

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Omaggio al maestro. Recensione a Tristi tropici di Claude Levi-Strauss

L'antropologo Claude Levi-Straus in Amazzonia, 1936

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Ricordo quando, da matricola in filosofia, lessi quest’avventura antropologico-filosofica. Purtroppo, non mi fu proposta da docenti né da qualche gruppo universitario, ma mi capitò fra le mani in maniera quasi accidentale, come una mela in testa. Mi rimase dentro, e la sento tutt’ora, vivida, nella mia formazione. Il mio fu un viaggio mentale: uscii dalle mie certezze, dalla mia cultura, dalla mia università, dalle mie discipline, dal mio mondo. Il viaggio muta il pensiero, è come un pellegrinaggio religioso, ma quando si viaggia non si può essere mai del tutto neutri, “tabula rasa” come vorrebbe la più ingenua delle antropologie culturali. Claude Levi-Strauss, morto nel 2009 a cent’anni di vita (tutt’altro che passati in solitudine) era convinto che quando si viaggia si è sempre qualcosa, qualcuno. Scriveva Chateaubriand che ogni uomo “porta in sé un mondo composto di tutto ciò che ha visto e amato, a cui ritorna continuamente anche quando percorra e sembri abitare un mondo straniero”. Recensire il più classico dei libri di antropologia del più noto antropologo del ventesimo secolo non è certo facile. “Tristi tropici” è un’avventura della conoscenza, un cruciale viaggio mentale al quale ci hanno abituato solo i grandi filosofi. Un romanzo più che un saggio scientifico. Ma non solo. E’ finalmente anche un viaggio reale e non solo mentale, con questi appunti e riflessioni del suo avventuroso studio etnologico in Brasile, immediatamente dopo aver conseguito la sua laurea in filosofia a Parigi. Un viaggio in piroscafo che illuminerà la cultura europea e mondiale che allora stagnava nelle paludi del razzismo, dell’ottimismo tecno-scientifico, della guerra, del darwinismo sociale, nel mito lineare del progresso e in una crisi economica mondiale che certo non migliorava le cose, anzi, spesso le peggiorava. Contrariamente a quello che potrebbe sembrare, la carriera di questo studioso nasce da cose semplici e inconfessabili, da ben noti istinti sociali (o a-sociali) primordiali. Scrive: “Ho ricercato la mia strada molto a lungo… in etnologia son un completo autodidatta. Una prima rivelazione l’ho avuta per ragioni inconfessabili: smania di evasione, desiderio di viaggiare”. Subito dopo la laurea, arrivato nel 1934 in Brasile per ricoprire una cattedra di sociologia a San Paolo, Levi-Strauss organizza dei viaggi in una nazione ancora inesplorata, che lo porteranno a contatto con popolazioni già contaminate dalla colonizzazione ma non ancora distrutte. Questa atmosfera di crisi e decadenza regna in tutto il libro. Qualche critico l’ha definita un’atmosfera lucreziana, ed è infatti una citazione di Lucrezio che Claude riporta nella prima pagina del suo libro: “nec minus ergo ante haec quam tu cecidere cadentque” (il senso di questa frase, nel suo contesto originale è: tutte le cose che ti sono precedute sono morte, allo stesso modo soccomberanno quelle che verranno dopo di te). Una decadenza che andava in netto contrasto, per esempio, con quel clima teleologico, quel vitalismo spiritualista e meliorista della storia che si respirava in Europa, creato e vissuto, fra gli altri, dalle voci più insospettabili come quella di Henri Bergson, allora di moda in tutta l’Europa, non solo in Francia. Pochi anni più tardi, il secondo conflitto mondiale ed il suo tremendo carico di morti avrebbe insanguinato l’Europa ed il mondo intero. All’interno del libro troveremo, fra le altre cose, abbozzi di quelle straordinarie intuizioni e riflessioni, sviluppate in altri suoi lavori, che faranno di lui l’innovatore dell’antropologia mondiale, ferma da lungo tempo a quelli stessi schemi mentali e filosofici che combatte nel corso del libro. Da Freud, Levi-Strauss impara che le antinomie statiche come “razionale” e “irrazionale” erano “non altro che giochi senza senso”. E, nel suo modo tipicamente antiprogressista ed eclettico di fare ricerca, trovò ispirazione perfino dalla geologia, una scienza che studia la natura dimostrando “la diversità vivente” e che “giustappone un’ età all’altra e le perpetua”. Ma oltre all’allora nascente strutturalismo, di cui lui è uno dei pincipali fondatori, è stato il marxismo che ha contribuito a completare il suo straordinario percorso intellettuale.

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Le rovine di Milano, di Giovanni Agosti. Una recensione a cura di Erica Trabucchi

Area di San'Ambrogio durante i bombardamenti di Milano del 1943

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Recensire l’ultimo piccolo lavoro di Giovanni Agosti non è semplice; primo perché racconta di fatti e personaggi di un passato recente di cui chi non ho fatto parte, di quegli anni Ottanta che mi sono stati raccontati perché ero troppo piccola per ricordarli. Il testo è tutto incentrato su Milano, una città che a detta dell’autore, vive da parecchi anni una crisi culturale dalla quale non è in grado di uscire. “Questo breve feuilleton critico è stato scritto, di settimana in settimana e a rotta di collo, tra giugno e luglio 2011” ed è comparso in più parti su “Alias”, il supplemento culturale del “Manifesto”, prima di trasformarsi in libello ed essere pubblicato da Feltrinelli nell’Ottobre dello scorso anno.

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Hugo Cabret, cinque oscar in filosofia. Recensione di Marina Bernardini

Scorsese celebra Méliès, l’uomo che rubò il fuoco agli dèi per donare i sogni agli uomini

Orologi, ingranaggi, meccanismi da un lato. Magie, disegni, poesie dall’altro.

L’ultima fatica del cineasta americano Martin Scorsese, Hugo Cabret, trasposizione cinematografica del best seller The Invention of Hugo Cabret di Brian Selznick (La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, nella traduzione italiana curata da F. Paracchini ed edita da Mondadori nel 2007), rappresenta uno slancio dall’imponente magnificenza visiva, arricchita dalla tecnologia 3D, atto a rimuovere una dicotomia avvertita come esteriormente dilaniante e intimamente alienante. Uno straordinario “viaggio attraverso l’impossibile” nel magico mondo del cinema degli esordi che costringe ad abbandonare visioni unilaterali e stereotipate che vedono la tecnica e la fantasia come due mondi contrastanti e inconciliabili.

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Bias utili, i limiti della ragion pura. Recensione a “L’errore di Cartesio” di Antonio Damasio

Il capitano Kirk e Spock, emblemi cinematografici rispettivamente delle passioni umane e della ragione. Nonostante siano in antitesi, i due protagonisti sono uniti da una profonda amicizia

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E’ da sempre un imperativo categorico. Separare l’emozione dal ragionamento. E così facendo, si perdono le basi stesse di ciò che chiamiamo ragionamento, ciò che lo anima, lo motiva, né da i valori, il respiro, qualche volta anche il metodo. C’è una moda culturale che ha origini antiche fra gli studiosi che si occupano del problema mente – cervello: quella di concentrarsi sul ragionamento e sulle facoltà logiche, e di considerare le emozioni come una “complicazione” piuttosto deplorevole, di nessuna reale importanza per la reale comprensione di come funzioni la mente. Se invece danno importanza alle emozioni, se sembrano considerarle nelle loro teorie, le vedono come qualcosa di separato dall’attività intellettuale, come se la nostra mente fosse l’equivalente malfunzionante di un computer (una riduzione che spiega benissimo Roberto Marchesini nel suo Post Human, qui la recensione). Questa moda culturale, secondo Antonio Damasio, è l’”errore di Cartesio”, Cartesio a cui è notoriamente attribuita la frattura moderna fra mente e corpo, fra ragione ed emozioni. Damasio è un neurologo portoghese molto eclettico che si è convinto, tramite le sue osservazioni su pazienti con danni cerebrali, che quell’astrazione che chiamiamo “ragione” e che separiamo dei sentimenti, da sola, sia insufficiente per il buon funzionamento dell’intelletto. Danni a certe aree del cervello, in particolare alla corteccia prefrontale, possono lasciare il paziente apparentemente in buona salute, ma incapace di prendere decisioni complesse. Tale paziente, per esempio, può comprendere i fattori coinvolti nella conduzione della propria attività economica, ma può tuttavia elaborare decisioni che sono palesemente disastrose. Il processo decisionale così asettico e robotico descritto da molti scrittori di fantascienza, quello che caratterizza i processi mentali di super computer o di Spock della ciurma di Star Trek è in realtà tipico di individui cerebrolesi, ma non funziona nel mondo reale. In altre parole, abbiamo bisogno dei nostri pregiudizi emotivi (bias) per prendere decisioni, e per la nostra vita. Altrimenti, “non funzioniamo”.

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Relativismo e giustizia. Una recensione critica de “L’idea di giustizia” di Amartya Sen

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Amartya Sen, filosofo e premio Nobel per l’economia (conseguito nel 1998 per i suoi studi sull’economia del benessere e per il suo impegno ad una economia etica) presenta in questo libro il suo particolare approccio alla giustizia, che potrebbe essere definito una “teoria della scelta sociale della giustizia”. Questo approccio sfida il modo stesso in cui la filosofia politica tende tradizionalmente ad affrontare il problema. Giustizia, per Sen, è una valutazione comparativa piuttosto che la costruzione di sogni idealistici. L’autore dichiara: “la domanda ‘cos’è una società giusta?’ non è un buon punto di partenza per una utile teoria della giustizia”. Il libro ha quindi un titolo piuttosto ironico, se l’approccio di Sen è ben lungi dall’esporre una “idea” di giustizia. L’obiettivo dichiarato della teoria di Sen è l’effettiva riparazione all’ in-giustizia, piuttosto che la costruzione di una teoria di ciò che la giustizia esige. Sen descrive il suo lavoro come “una teoria della giustizia in senso molto ampio“. Il libro, uno dei capisaldi dell’attuale discussione sui massimi sistemi socio-politici, è enorme, non comprende solo una teoria della scelta sociale della giustizia, ma anche la razionalità economica, il ragionamento del pubblico, i limiti dell’ oggettività etica, la democrazia, i diritti umani, le capacità dell’uomo, il benessere umano e la necessità di una giustizia globale. Questa forza è nello stesso tempo una debolezza, perché alcune sezioni non sono sufficientemente sviluppate. In particolare, la sua teoria della scelta sociale della giustizia – il suo contributo più importante – si limita ad un unico capitolo, e richiederebbe un’ ulteriore elaborazione (che, comunque, è avvenuta in altri libri del maestro indiano). Criticherò i capisaldi della sua teoria e ne mostrerò i principali punti deboli. Nonostante i limiti che mostrerò, questo libro è meravigliosamente lucido e leggibile, ed è molto accessibile ad un pubblico già abituato a simili questioni. Sen scrive amabilmente, con un tocco di storia e una prospettiva umanista veramente globale. Aneddoti di storia e di letteratura indiana forniscono illustrazioni di punti di vista accanto a quelli di Shakespeare, Dickens e altri campioni letterari. Sen crede che la missione di economisti e filosofi sia quella di migliorare il mondo, e il focus sul progetto reale di migliorare l’umanità è evidente in tutto il lavoro. Il suo approccio richiama l’attenzione sulla effettiva capacità di tutti gli esseri umani di condurre una vita appagante, e il suo umanitarismo laico è evidente in tutte le pagine.

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Cinzia Randazzo, Lettura filosofico-teologica di Giovanni nel commento di Origene. Una recensione

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Lettura ermeneutica e filosofico-teologica di Gv 1,1, nel commento di Origene al Vangelo di Giovanni

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La suddetta monografia scritta dalla dottoressa Cinzia Randazzo, cultrice in materie storico-religiose, offre al lettore un’interessante lettura ermeneutica e filosofico-teologica riguardo al Commento di Origene limitatamente al primo versetto del vangelo di Giovanni, analizzando passo dopo passo la progressione del pensiero di Origene. L’autrice tratta questo argomento con l’intento di chiarire, da un lato, i capisaldi della interpretazione origeniana  del primo versetto del vangelo di Giovanni e, dall’altro, di presentare i punti nevralgici del suo pensiero filosofico e teologico al contempo: “l’intento, quindi, di questo nostro lavoro è quello di presentare i tratti peculiari della esegesi di Origene; tratti che, come vedremo, danno adito ad una vera e propria progressione concettuale del pensiero dell’autore sulla verità del Logos. Per riuscire in questo nostro intento, ci siamo proposti di confrontarci con la filosofia medio-platonica e neoplatonica, delle quali l’autore è stato fortemente impregnato” (p.8)

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Cinzia Randazzo, Dall’archè all’eschatos. La figura di Cristo nell’A diogneto. Una recensione

Epigrafe di Irene ("pace" in greco), Catacombe di S.Callisto (Roma)

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Dall’Archè all’Eschatos. La figura di Cristo alle sorgenti dell’esistenza cristiana nell’A Diogneto

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Nella precedente e posteriore produzione letteraria dell’autrice, relativa ad alcuni documenti cristiani dei primi secoli, erano già presenti alcuni temi afferenti alla figura di Cristo. Il presente contributo si colloca nella stessa prospettiva del precedente (1) e del posteriore (2) : l’identità di Cristo e la sua funzione nel mondo a partire dall’arché fino all’eschatos. L’autrice, collaboratrice al Pontificio Ateneo Salesiano di Roma, tratta questo argomento con un duplice intento:

1) quello di chiarire la figura di Cristo in rapporto alla filosofia medio-platonica e medio-giudaica del tempo.

2) quello di mostrare la volontà dell’anonimo autore di costruire un dialogo fra Giudei  e i Cristiani da un lato, e fra i Pagani e i Cristiani dall’altro, senza escludere il messaggio attuale dell’opera che si presta ad instaurare un possibile dialogo tra Ebrei e non Ebrei.

L’autrice quindi affronta la questione cristologica nell’A Diogneto – un documento che, all’unanimità degli studiosi, risale alla seconda metà del II secolo – partendo dalle principali tappe in cui si dispiega l’economia della salvezza.

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Jurgen Habermas, Tra scienza e fede. Una recensione

La secolarizzazione dell’autorità statale e la libertà positiva e negativa dell’esercizio della religione sono due facce della stessa medaglia. Esse hanno protetto le comunità religiose non soltanto dalle conseguenze distruttive dei sanguinosi conflitti fra di loro, ma anche dallo spirito antireligioso di una società laicistica. È vero che lo Stato costituzionale può proteggere i suoi cittadini religiosi e non religiosi gli uni dagli altri soltanto quando questi non solo trovano un modus vivendi nella reciproca frequentazione, bensì vivono per convinzione in un ordinamento democratico. Lo Stato democratico si nutre di una solidarietà che non si può imporre con le leggi, fra cittadini che si considerano reciprocamente membri liberi ed eguali della loro comunità politica” (Jurgen Habermas, Tra scienza e fede)

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Tra scienza e fede (Economica Laterza)
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La traduzione del titolo in italiano di questo libro è già di per sé un’eloquente estremizzazione di un conflitto, ed una riduzione del conflitto a temi che evocano un problema ideologico più settoriale. Il titolo originale tedesco è infatti “Zwischen Naturalismus und Religion” , cioè “tra naturalismo e religione”, e si sa, un titolo simile evoca battaglie del tutto diverse (e vende molti meno libri). Guidato dalla sua ben nota tesi della “razionalità comunicativa”, il più noto filosofo tedesco contemporaneo, Jurger Habermas, in questo libro percorre un tracciato che si dipana tra lo scientismo e l’intransigenza religiosa, due correnti opposte che ritiene possano minacciare la coesione civica. Ma, come avverte nell’introduzione, i capitoli del libro sono stati scritti in occasioni diverse e non costituiscono un insieme sistematico. Habermas negli ultimi anni si è in effetti occupato di numerose tematiche contemporanee, dal multiculturalismo fino al confine tra la fede e la scienza, compresi temi legati al diritto internazionale. Il volume sarà di sicura utilità per tutti coloro che s’interessano di filosofia sociale, morale e politica così come di filosofia della religione e di filosofia della scienza, e sarà più adatto a coloro che hanno già familiarità con l’autore e hanno il desiderio di conoscere gli ultimi sviluppi del suo pensiero.

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Vittorio Sgarbi, Piene di Grazia. I volti della donna nell’arte, recensione di Erica Trabucchi

 

Giaele e Sisara, di Artemisia Gentileschi

Giaele e Sisara. Artemisia Gentileschi, che subì una violenza sessuale, realizza in quest'opera del 1620 un tema che l'accompagnerà per tutta la vita, e cioè quello di una donna energica e libera dal dominio maschile

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Piene di grazia. I volti della donna nell’arte (Saggi Bompiani)

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Vittorio Sgarbi non ha mai nascosto la sua passione per le donne. Spesso negli show televisivi si è divertito con provocazioni ed eccessive confidenze sulla sua vita, anche sessuale. Eppure, quando Sgarbi si ricorda delle sue origini, della sua vasta cultura artistica, vedono la luce opere letterarie di grande spessore. La sua ultima fatica, “Piene di grazia. I volti della donna nell’arte”, si concentra proprio sulla figura della donna nelle opere d’arte, secondo un andamento cronologico, a partire dal Medioevo sino alle opere di artisti a noi contemporanei. “Il mondo femminile nell’arte consente riflessioni, discussioni, e questo libro lo documenta, con una serie di esempi che indicano l’arte, il mistero e la seduzione che dalla donna escono”, potrebbe essere il sunto del testo, l’obiettivo che spinge l’autore nella ricerca. Perché se la storia dell’arte è una fonte immensa di opere a cui fare riferimento, una scelta ben ponderata e metodologicamente precisa come quella di Sgarbi non può essere sminuita.

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Martha Nussbaum, Terapia del desiderio. Una recensione (di Anna De Paolis)

“Ho sostenuto che una concezione del compito della filosofia legata alla medicina, volta ad alleviare le sofferenze umane, porta a concepire in modo nuovo il metodo e la procedura filosofica; e che le scelte del metodo e della procedura non sono, come alcuni potrebbero supporre, neutre rispetto al contenuto, ma strettamente connesse con una diagnosi delle difficoltà umane e con una concezione intuitiva di cosa sia la fioritura dell’umano. Ho tentato di dimostrare che in ogni caso le procedure incarnano concezioni complesse di cosa sia salutare e cosa sia malattia, nonché dell’amicizia e della struttura della comunità […] Ma, per scendere nello specifico, quali penso che siano stati i guadagni metodologici di queste scuole, sia rispetto al loro contesto storico che al nostro modo di intendere le modalità in cui dovrebbe funzionare una filosofia morale?” (Martha Nussbaum, Terapia del desiderio)

Se ordini il libro tramite il nostro link hai diritto ad uno sconto significativo (Amazon): Terapia del desiderio. Teoria e pratica nell’etica ellenistica (Temi metafisici e probl. del pens. ant.)

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La filosofia torna a parlare della vita. E lo fa con una voce femminile. Ripercorrendo ed ampliando il percorso straordinario di Pierre Hadot, questo è infatti uno studio insolito di filosofia greca, scritto da un essere umano, sugli esseri umani, per servire agli esseri umani. Quando la professoressa Martha Nussbaum scrive “Lo scrittore e docente di filosofia è una persona fortunata, fortunata come possono esserlo pochi esseri umani, per essere in grado di spendere la sua vita esprimendo i suoi pensieri più gravi e sentimenti”, sta parlando di un privilegio che spetta a molti umanisti di professione, ma che generalmente non è esercitato. Forse per il sospetto che la filosofia possa abbassarsi alla vita, comunicando e spiegando con un linguaggio quanto più possibile chiaro (ma non per questo semplice) problemi e forme di vita che fanno parte della nostra esperienza quotidiana. Le sue convinzioni, la sua missione filosofica forniscono una prospettiva entro la quale le più profonde perplessità non sono mere astrazioni teoriche, ma dei tentativi di vivere. La Naussbaum riprende in questo libro un concetto antico quanto dimenticato, la filosofia come terapia e medicina dell’anima, messa in paradigma da un famoso passaggio di Epicuro: “E’ vuoto l’argomento di quel filosofo che non riesca a guarire alcuna sofferenza dell’uomo: come non abbiamo alcun bisogno della medicina se essa non riesca a espellere dal nostro corpo le malattie, così non abbiamo alcuna utilità della filosofia se essa non riesce a scacciare le sofferenze dell’anima”. Il suo coinvolgimento personale in questa “missione” filosofica la rende un esponente di quel gruppo di intellettuali (ancora esiguo) che imbarazzano la maggior parte di noi con la pretesa di “fare del bene”. I filosofi ellenici ed ellenistici che lei con tanta competenza riaffronta hanno fatto appello alla pura curiosità intellettuale e alla teoria pura molto meno rispetto al più autentico desiderio di prendere la vita in mano e scappare, resistere al dolore di cui è erede la condizione umana. L’obiettivo generale della filosofia greca non erano i piaceri mentali dell’uomo democratico di Platone, figuriamoci l’estasi intellettuale del suo vero filosofo, ma la liberazione dalle passioni doloroseche distorcono la nostra percezione nel mondo e rovinano il nostro equilibrio con gli altri e con l’ambiente in cui viviamo.

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Eric Dodds, I Greci e l’irrazionale. Una recensione (di Francesco Di Matteo)

Gli uomini che hanno creato il primo razionalismo europeo non sono mai stati – fino all’età ellenistica – “semplici” razionalisti: vale a dire, erano profondamente e mentalmente consapevoli del potere, della meraviglia e del pericolo dell’irrazionale. Ma potevano descrivere quello che succedeva sotto la soglia della coscienza solo nel linguaggio mitologico o simbolico; non avevano nessuno strumento per capirla, ancora meno per controllarla” (Dodds, I Greci e l’irrazionale)

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Dionisio e Apollo erano così rivali in Grecia? Razionalità greca, un mito o un modello per i “moderni”? Qual è stata la vera mentalità degli antichi Greci? Differiva dalla nostra? Abbiamo ricevuto un’idea distorta dei Greci da generazioni di studiosi classici? La filosofia greca si basava davvero (come ci è stato insegnato) sulla netta divisione fra mito e storia, razionale/irrazionale? E qual è il significato di queste domande per la nostra società? Queste sono le questioni a cui tenta di rispondere Dodds in questo libro, pubblicato mezzo secolo fa, ma ancora attuale, fresco e pieno di rilevanze per noi postmoderni, storiograficamente meno ingenui rispetto a qualche anno fa. Dodds però non opera in un contesto di valorizzazione del mito e di qualificazione, come per esempio ha fatto un certo filone irrazionalisitico o come ha fatto Károly Kerényi nei suoi lavori sulla mitologia greca e sulla religiosità classica. Il suo scopo è più propriamente rivalutare una grecità costruita a tavolino dagli storiografi, e mostrarne contraddizioni e complessità.

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