Filosofia del disastro in Giappone

dal Corriere della Sera

I giapponesi giudicano se stessi e gli altri in base alle categorie di «autocontrollo» e «autogoverno»

Cronaca di una reazione annunciata. Di fronte a immagini catastrofiche che sembrano uscire dal capolavoro d’animazione di Hayao Miyazaki, Nausicaä della Valle del Vento, non è facile capire come sia possibile non farsi prendere dal panico, non lasciarsi andare alla disperazione più totale, non sentirsi completamente persi. La risposta è semplice: essere preparati. Una preparazione che ovviamente è innanzi tutto di tipo concreto. Per i giapponesi ogni cosa deve essere programmata alla perfezione. Così scuole, uffici, stazioni, ospedali: tutti i luoghi pubblici hanno dei piani di evacuazione ben collaudati che vengono testati periodicamente. Ogni anno, ad esempio, nell’università in cui insegno – Waseda – si svolgono le «prove generali» di un’evacuazione. Gli altoparlanti ci avvisano che dobbiamo lasciare l’edificio e così, docenti e studenti insieme, scendiamo tutti in fila le scale fino al piano terra per poi incamminarci con calma fino al punto di ritrovo prestabilito. Una «camminata» di un paio di chilometri molto importante per imparare a conoscere il tragitto che si deve percorrere in caso di emergenza. Usando sempre la metropolitana o altri mezzi pubblici, infatti, non è sempre detto che lo si sappia raggiungere anche a piedi.

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Oratoria, retorica, il saper parlare. Analisi del discorso di Marco Antonio


Retorica di filosofiprecari

Il discorso di Marco Antonio, qui reso in versione cinematografica da uno statuario e olimpico Marlon Brando (italiano, qui doppiato dal grande Emilio Cigoli, voce forse più coinvolgente di quella originale), è uno degli esempi più incredibili dell’uso dell’arte oratoria. E’ uno degli esempi più illuminanti di quello che è il vero fine di un discorso: la gestione dell’emotività dell’interlocutore. Shakespeare, anche in questo caso (come nel Mercante di Venezia, ma in tante altre opere) dimostra che a saper convincere un pubblico sono sempre coloro che usano particolari accorgimenti retorici.

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Cosa sono le nuvole? Una recensione

Otello burattino: Ma qual è la verità? E’ quello che penso io de me, o quello che pensa la gente, o quello che pensa quello là lì dentro [indica il burattinaio]
Jago burattino: Cosa senti dentro di te? Concentrati bene… cosa senti, eh?
[pausa di silenzio]
Otello burattino: Sì, sì, si sente qualcosa che c’è!
Jago buratinno: Quella è la verità! Ma sssssshhh… [si porta l’indice sulle labbra] non bisogna nominarla, perchè appena la nomini, non c’è più…

(Cosa sono le nuvole?, regia di Pier Paolo Pasolini, 1967)

Ve lo ricordate? A me è capitato di rivederlo qualche sera fa. Cosa sono le nuvole?, un capoloavoro del cinema Italiano. Pasolini mise sullo stesso palco Totò, Ciccio Ingrassia, Franco Franchi, Laura Betti, attori di avanspettacolo, maschere come Pulcinella, attori bistrattati e violentati dal cinema di massa degli anni 50 e 60. Attori che ora appartengono al mondo delle ombre. Pasolini provò a ridarli dignità, e provò a farli essere loro stessi, come sempre tentava di fare con chi lavorava nei suoi film. Con questa pluriannale pratica Pier Paolo scoprì così che erano attori fusi con il loro personaggio, con la loro produzione artistica, con la maschera che si erano costruiti addosso. Non esite un Totò diverso dal ruolo che impersona, nel cinema/vita di Pasolini. Con lo stesso principio Pasolini faceva recitare nei suoi film attori comuni – presi dalla strada – come Ninetto Davoli (il tenero Otello del film) con attori professionisti.

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L’uomo e il sacro, una immagine – recensione

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Nella foto di Alessandro Digaetano, distribuzione sociale del puro e dell’impuro nella Cina postmoderna.

Entrambi gli opposti princìpi sembrano in effetti godere di una dimora fissa. Da un lato il mondo maestoso e ordinato del re, del sacerdote e della legge, dal quale ci si tiene a distanza di rispetto; dall’altro l’ambito losco e infamante del paria, dello stregone e del colpevole, dal quale ci si allontana con orrore. A coloro che, per natura, purificano, guariscono e perdonano, ai mediatori di santità, si oppongono coloro che, per essenza, insozzano, avviliscono e sconvolgono, gi agenti del peccato e della morte. Le vesti del principe, splendide, rutilanti d’oro e di pietre incorruttibili, non sono che la luminosa contropartita dell’abietto putridume e delle carni ridotte a liquame della decomposizione. Il sovrano e il cadavere, così come il guerriero e la donna insanguinata a causa delle mestruazioni, incarnano infatti al massimo grado le forze ostili del puro e dell’impuro. E’ la morte a dare lordura, è il principe a liberare da essa. Nessun contatto tra l’uno e l’altra è lecito. Gli esseri investiti di santità, come il cane polinesiano, le cose che ne appaiono fecondi ricettacoli, come i churinga australiani, vengono allontanati, mediante gli interdetti più severi, da tutto ciò che passa per focolaio d’infezione: spoglie o sangue mestruale. […] Similmente, il gran sacerdote dei Cafri non deve né visitare i cimiteri, né percorrere i sentieri che portano ai campi dove imputridiscono i cadaveri; l’ingresso nell’abitazione in cui è avvenuto un decesso gli è proibito fin quando non vi sia stata eretta l’immagine del defunto, che dimostri così che egli è diventato una forza benigna e venerabile. Nella tragedia di Euripide, Artemide abbandona Ippolito moribondo: ad una dea non è permesso vedere un cadavere; l’ultimo respiro dei moribondi non deve insozzare uno sguardo puro. Ad Atene, durante la festa delle Anteserie, quando le anime dei morti salgono dal mondo infero e percorrono le strade della città, i templi vengono cinti da corde affinchè esse non possano avvicinarvisi.

Roger Caillois, l’Homme et le sacré, traduzione di Ruggero Guarino

Cos’è il revisionismo

(nella foto, Goebbels e famiglia)

Joseph Goebbels era solito dire: “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. Vi sono innumerevoli definizioni ed esempi su cosa sia il revisionismo. In estrema sintesi, propongo di definire “revisionismo” l’affermare che tutto ciò che è stato fosse:

1) inevitabile
2) il male minore
3) demoniaco
4) provvidenziale
5) non è stato

Uscendo dalle strette maglie dell’assurda dicotomia libero arbitrio vs determinismo, la storia, come la giurispudenza, parte dal presupposto che l’uomo maggiorenne e sano di mente sia sempre in grado di intendere e volere, e che perciò sia responsabile delle sue azioni. Un’altra dicotomia invece si pone, certo più utile della prima: quella fra comprendere e giustificare. Capire sociologicamente o storicamente le cause alla base di un male storico non equivale certo a renderlo inevitabile o moralmente giustificabile. Certo, dopo Auschwitz, abbiamo davvero bisogno di riformulare il nostro concetto di “male”. Hannah Harendt scrive “La banalità del male” proprio che ricordarci che fra questi “mostri” nazisti, fra queste bestie nazifasciste, vi erano silenziosi assensi, omertà, burocrati ed obbedienti marionette, massificati ed ideologizzati, senza un minimo senso critico, o riluttanti ad utilizzarlo. Tecnici dell’indifferenza, fra i quali ottimi padri di famiglia.

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Foucault e le donne del Premier. Una lettera – recensione a “Filosofia di Berlusconi”

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Filosofia di Berlusconi. L’essere e il nulla nell’Italia del Cavaliere (Culture)

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Articolo dal Corriere della Sera

Quei liberismi tra Foucault e il Bagaglino

In questo modello di emancipazione, le donne ricordano i primi salariati che affrancatisi dalla servitù della gleba misero in vendita la propria forza lavoro

Caro direttore,
c’è una curiosa tendenza, tutta italiana, a oscillare tra le più raffinate posizioni critiche e dissidenti (specie nella sinistra) e la barbarie, tra Foucault e il Bagaglino per intenderci. Mi pare invece che sia giunto il momento di andare in piazza ed essere numerose perché questo non è il tempo dei distinguo, delle raffinate discussioni fra le diverse anime del femminismo italiano, questo è il tempo della piazza. Questo è il tempo delle donne in piazza: l’indignazione, infatti, si dice in molti modi, non solamente annunciando che in Italia esistono donne per bene che studiano e lavorano – e che quindi si distinguono, in maniera autoevidente, da coloro che preferiscono fare altro – ma anche denunciando il semplice fatto che lo scambio fra sesso, denaro e potere sia divenuto il principale ambito di reclutamento «politico» delle donne. Che cosa hanno da dire su questo le donne? Va tutto bene, dunque?

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Politica e società di massa secondo Adorno e Horkheimer

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Alla civiltà dei divi appartiene, come complemento della celebrità, il meccanismo sociale che uguaglia tutto ciò che spicca in qualche modo, e quelli sono solo i modelli della confezione su scala mondiale e per le forbici della giustizia giuridica ed economica, che eliminano anche le ultimi frange. La tesi che al livellamento e alla standardizzazione degli uomini si oppone, d’altro lato, un rafforzamento dell’individualità nelle cosiddette personalità dominanti, in rapporto al loro potere, è sbagliata; fa parte, a sua volta, dell’ideologia. I padroni fascisti di oggi non sono tanto superuomini quanto funzioni del loro stesso apparato pubblicitario, punti d’incrocio delle stesse reazioni di milioni. Se nella pscicologia delle masse odierne il capo non rappresenta più tanto il padre quanto la proiezione collettiva e dilatata a dismisura dell’io impotente di ogni singolo, le persone dei capi corrispondono effettivamente a questo modello. Non per nulla hanno l’aria di parrucchieri, attori di provincia e giornalisti da strapazzo. Una parte della loro influenza morale deriva proprio dal fatto che essi, come di per sé impotenti, e simili a chiunque altro, incarnano – in sostituzione ed in rappresentanza di tutti – l’intera pienezza del potere, senza essere perciò nient’altro che gli spazi vuoti su cui il potere è venuto a posarsi. Essi non tanto sono immuni dallo sfacelo dell’individualità, quanto piuttosto l’individualità in sfacelo trionfa in loro ed è in qualche modo ricompensata dalla sua dissoluzione. I capi sono diventati completamente ciò che erano già stati sempre, un poco, in tutto il corso della storia borghese: attori che recitano la parte di capi. La distanza fra l’individualità borghese di Bismarck e quella di Hitler non è inferiore a quella fra la prosa dei Pensieri e ricordi e il gergo illeggibile di Mein Kampf. Nella lotta contro il fascismo non è il compito meno importante quello di ridurre le immagini gonfiate dei capi alla misura della loro nullità. Almeno nella somilianza fra il barbiere ebreo e il dittatore il film di Chaplin ha colto qualcosa di essenziale.

Adorno – Horkheimer, La dialettica dell’illuminismo, traduzione di Renato Solmi, Einaudi, pp. 254-255

Aggiungo io: purtroppo questa somilianza fra barbieri, attori e politici, ora, non interessa più a nessuno. E’ anzi la chiave del successo. Ecco dove il nuovo fascismo ha vinto, processo che ben Pasolini riconosceva.

Gli Ausmerzen delle isole Marshall

L’amore odio per il corpo tinge di sé tutta la civiltà moderna. Il corpo, come ciò che è inferiore ed asservito, viene ancora deriso e maltrattato, e insieme desiderato come cioè che è vietato, reificato, estraniato. Solo la civiltà conosce il corpo come una cosa che si può possedere, solo in essa esso si è separato dallo spirito – quintessenza del potere e del comando – come oggetto, cosa morta, corpus. […] Col pieno trapasso del dominio alla forma borghese, mediata dal commercio e dal traffico, e ancor più con l’industria, ha luogo un mutamento formale. L’umanità si lascia asservire, anziché dalla spada, dall’apparato colossale, che alla fine, peraltro, torna a forgiare la spada. Così è scomparso il senso razionale dell’esaltazione del corpo virile; i tentativi romantici di rivalutazione del corpo nell’Ottocento e nel Novecento non fanno che idealizzare qualcosa di morto e di mutilo. Nietzsche, Gauguin, George, Klages, videro la stupidità indicibile che è il frutto del progresso. Ma ne trassero una conclusione errata, e invece di denunciare l’ingiustizia di oggi, idealizzarono quella di una volta. L’ostilità alla meccanizzazione è divenuta un semplice ornamento della cultura industriale di massa, che non può fare a meno di un bel gesto. Gli artisti hanno preparato per la pubblicità, senza volerlo, l’immagine perduta dell’unità di anima e corpo. L’esaltazione dei fenomeni vitali, dalla bestia bionda all’isolano dei mari del Sud, sfocia inevitabilmente nel film “esotico”, nei manifesti pubblicitari delle vitamine e delle creme di bellezza, che tengono solo il posto del fine imminente della rèclame: del nuovo, grande e nobile tipo umano, dei capi e delle loro truppe. I capi fascisti riprendono direttamente in mano gli strumenti di morte, abbattono i loro prigionieri a colpi di pistola e di frusta – non in virtù di una forza superiore, ma perché quell’apparato colossale e i suoi veri padroni, che ancora non lo fanno, consegnano loro le vittimi della ragion di stato nei sotterranei degli altri comandi. […] Quelli che in Germania esaltavano il corpo, ginnasti e camminatori, hanno sempre avuto la massima affinità all’omicidio, come gli amici della natura alla caccia. Essi vedono il corpo come un meccanismo mobile, le parti nelle loro articolazioni, la carne come imbottitura dello scheletro. Essi maneggiano il corpo, trattano le sue membra come se fossero già separate. La tradizione ebraica conserva la ripugnanza a misurare l’uomo col metro, poiché si misurano i morti – per la bara. E’ ciò di cui godono i manipolatori del corpo. Essi misurano l’altro, senza saperlo, con lo sguardo del costruttore di bare. Si tradiscono quando enunciano il risultato: dicono che l’uomo è lungo, corto, spesso, pesante. Sono interessati alla malattia, spiano già, durante il pranzo, la morte del commensale, e il loro interesse per tutto ciò che è razionalizzato solo fragilmente con la sollecitudine per la salute. Il linguaggio tiene il passo per loro. Esso ha risolto la passeggiata in movimento ed il vitto in calorie, un po’ come la foresta viva si dice legno (bois, wood) nel francese e nell’inglese corrente. La società riduce, col tasso di mortalità, la vita ad un processo chimico. (Adorno – Horkheimer, La dialettica dell’illuminismo, traduzione di Renato Solmi, Einaudi, pp. 252-254)

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Vuoi salvare il pianeta? Non la Decrescita ma… mangia meglio!


(nel link sotto trovi la traduzione in italiano della tabella e dei menù proposti dagli studiosi inglesi)
Da politicambiente

Dalla Gran Bretagna arriva la Livewell Diet per mangiare bene e combattere l’effetto serra

Ciascuno di noi può combattere quotidianamente il surriscaldamento terrestre? Certo, ogni volta che ci si siede a tavola, ad esempio: basta mangiare meno carne o cibi “trasformati” ed aumentare invece il consumo di verdura e cereali integrali, anche a vantaggio della salute e del portafoglio. La conferma, autorevole, giunge dal “Rowett Institute of Nutrition and Health” della Aberdeen University (GB), i cui scienziati hanno messo a punto una dieta ecosostenibile – la Livewell Diet (“dieta vivibene”) – con una tabella settimanale e menu giornalieri. Lo studio, commissionato dal WWF, servirà ora come base scientifica per una campagna di persuasione a livello nazionale e internazionale.

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Il rito ed il Giappone. Brevi osservazioni sull’Impero dei segni

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Questa non vuol essere una recensione. Un Giappone un po’ diverso da quello descritto da Barthes (ne l’Impero dei Segni) si è presentato durante la mia breve visita di due settimane. Non riesco a idealizzarlo come ha fatto lui, in chiave di non-occidente. Bisogna ammetterlo però, ogni luogo comune, anche alcuni di quelli riportati dal filosofo, ha una qualche verità di fondo che lo giustifica. Bathes, ad esempio, parla di ritualità, di nipponici che per darti (molto più che un semplice dirti) un “grazie” impiegano nel loro inchino tutto il loro corpo, non solo una parola. Del resto, l’ossessione del rito la si respira ovunque in Giappone. Dai capistazione, agli usceri, ai vigili “pedonali”, dalla scrittura col pennello fino al famoso e mitologico (in occidente) tiro con l’arco, da ogni lavoro o ruolo sociale che in quanto tale fa parte di una precisa gerarchia, ogni atto umano s’inserisce in un qualcosa di noto, in un solco già tracciato di regole precise e gesti precisi, precisi e puntuali come un treno della JR (Japan Rail).

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La società dell’Evento

Destoricizzare, fare di tutto il mondo un evento. Di qui, diventa facile fare della cronaca un posto dell’indistinto, dove tutto colpisce ma, misteriosamente, viene dimenticato il giorno dopo. Un rito collettivo della società post-moderna. Un rito della sedicente società desacralizzata che tocca anche e soprattutto la politica. La moltiplicazione mediatica di quei fenomeni che filosofi come Heidegger, Deleuze e Derrida chiamavano “evento”, secondo Marc Augè, fabbrica sempre nuovi inizi. Tutto è condannato alla novità: in questa negazione della storia, in questa macchina che serve per mobilitare e ideologizzare, la memoria si atrofizza. Ecco le parole di Marc Augé (da La Reppubblica 04/12/2010):

Oggi assistiamo a una dittatura degli eventi. Tutto deve essere trasformato in un’ occasione unica e irripetibile, ben diversa da quella trama d’ avvenimenti quotidiani, individualio collettivi, che da sempre tutte le culture hanno messo al centro dei loro sistemi d’ interpretazione. Oggi prevale la dimensione eccezionale. Il paradossoè che questi eventi fuori dal comune, o che si vuole presentare come tali, sono sempre più frequenti, risultato di un’ inflazione che alla fine appiattisce e banalizza tutto. Da un lato, essa drammatizza ciò che non avrebbe ragione d’ esserlo, dall’ altro, svaluta le occasioni che invece meriterebbero veramente un’ attenzione particolare. Così, un evento ne scaccia un altro, e ciò che oggi è eccezionale, domani non lo sarà più. Se oggi viviamo in una sorta di presente perpetuo, vale a dire un tempo bloccato da immagini che si ripetono senza sosta, un tempo immobile che ignora il passato e nega il futuro, ciò è dovuto anche alla moltiplicazione degli eventi e al loro culto diffuso. L’ unicità dell’ evento, infatti, domanda al tempo di arrestarsi. La sua irripetibilità, indipendentemente dal fatto che sia verao meno, nega qualsiasi divenire, rinchiudendo ciò che accade in una parentesi temporale senza memoria e senza prospettive. La moltiplicazione degli eventi più o meno orchestrata dalla società dei consumi implica quindi un accumulo che produce una temporalità senza evoluzione e senza storia. Nello spettacolo come nella politica, nello sport come nella cultura, il sistema in cui viviamo fabbrica eventi a ripetizione, focalizzando su di essi tutta l’ attenzione del pubblico, che così dimentica tutto il resto. Da questo punto di vista, potremmo dire che l’ evento è un nonluogo temporale, dove si celebra un falso carpe diem imposto dalla società dei consumi, che, in simbiosi con la scena mediatica, ha continuamente bisogno di creare nuove occasioni per mobilitare collettivamente i consumatori. L’ impressione d’ irripetibilità, se da un lato si contrappone al divenire storico, dall’ altro però può alimentare una memoria individuale. Una traccia soggettiva che è un elemento di resistenza all’ oblio collettivo oggi dominante e alle debolezze della rappresentazione storica. Se ciò avviene, è anche perché, seppure in termini molto parziali, l’ evento, anche nella sua dimensione più artificiale, può creare l’ impressione che qualcosa di nuovo stia per cominciare, recuperando così almeno una parte della ritualità tradizionale. L’ evento, soprattutto in alcuni ambiti, come la politica, permette di fabbricarsi ogni volta l’ illusione di un nuovo inizio. Naturalmente, la fascinazione collettiva per gli eventi è anche legata all’ impressione d’ impoverimento esistenziale che ci accomuna. Di fronte a una vita percepita come piatta e banale, abbiamo bisogno di momenti intensi ed unici che ci permettano di sentirci più vivi. La dimensione pubblica e collettiva contribuisce al senso di pienezza dell’ esperienza, procurando anche un’ impressione di comunione con gli altri. Più si è in tanti e più si ha l’ impressione di essere al centro di una situazione eccezionale. Nella società dei consumi sono sempre di più coloro che, non potendo consumare per ragioni economiche, si sentono esclusi da un sistema di cui vorrebbero far parte. Il bisogno di consumo viene allora soddisfatto almeno in parte dall’ illusione prodotta dagli eventi collettivi, che in questo diventano un surrogato. Il problema è che oggi, per via delle protesi tecnologiche individuali di cui siamo dotati, troppo spesso ci ritroviamo a vivere gli eventi da soli davanti a uno schermo. Non proprio una situazione eccezionale capace di trasmetterci nuove energie.

Il tempo fra Oriente ed Occidente. La relatività del tempo…

Cos’hanno incomune il filosofo indiano Shankara e il filosofo occidentale Agostino?

Un occidente che contrappone tempo ed eternità, un oriente che li identifica. L’apparente esistenza sostanziale del tempo è un errore di prospettiva della filosofia e teologia occidentale. In realtà, sembra dire Coomarasmamy, tutto è divenire, il tempo è solo una illusione prospettica. Tempo come mera unità di misura del divenire. Ecco alcune righe di Ananda Kentish Coomaraswamy, in Tempo ed eternità, Luni editrice, 2003, pp. 14-15, un libro di cui fornire una recensione esaustiva appare davvero difficile.

Esamineremo la dottrina del Tempo e dell’Eternita nei contesti vedico, buddhista, greco, cristiano e islamico. Entrambi i termini sono ambigui. Il Tempo è sia la totalità, o una parte, del continuum della durata passata e futura, sia questo punto presente del tempo (nunc fluens) che distingue fra loro le due durate. L’Eternità è sia, dal nostro punto di vista temporale, una durata senza inizio né fine sia, in se stessa, quel punto inesteso del tempo che è Ora (nunc stans). Dal punto di vista che si puo chiamare esteriore o letteralista, si concepisce che il tempo, nel primo senso, abbia avuto un inizio e proceda verso una fine; esso viene pertanto contrapposto all’eternità considerata come una durata perpetua senza inizio né fine.

L’assurdità di queste posizioni diventa manifesta se ci domandiamo con S. Agostino: “Che cosa faceva Dio (l’Eterno) prima di creare il mondo”; la risposta è, naturalmente, che essendo il tempo e il mondo interdipendenti — o, in termini di “creazione”, concreati — la parola “prima” non ha alcun senso in una tale questione. E’ per questo che l’esegesi cristiana afferma abitualmente che “en archè” in principio, non implica un “inizio nel tempo” bensì un’origine nel Principio Primo; ne consegue logicamente che Dio (l’Eterno) crea il mondo ora e sempre. La dottrina metafisica contrappone semplicemente il tempo in quanto continuum all’eternità, che non è nel tempo e che non può essere propriamente chiamata durata perpetua, poiché essa coincide con il presente reale, l’istante, di cui non si può avere esperienza nel tempo. Qui la confusione sorge solo per una coscienza che riflette in funzione del tempo e dello spazio, poiché, per essa, un “istante” succede a un altro “istante” senza interruzione e sembra che vi sia una serie indefinita d’istanti, collettivamente assommati nel tempo. Questa confusione può essere dissipata se ci rendiamo conto che nessuno di questi istanti ha durata e che, quanto alla misura, essi sono tutti degli zero la cui somma è impensabile. E’ una questione di relatività: siamo noi ad essere in movimento, mentre l’ora è immutabile anche se sembra spostarsi – proprio come il sole sembra levarsi e tramontare a causa della rotazione della terra.