Religione, male e sofferenza. Mircea Eliade e il mito dell’eterno ritorno. Una recensione critica.

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Tutta la giusta ambizione umana è riassunta nel verbo “comprendere”. Ciò che comunemente intendiamo per “comprendere” coincide con “semplificare”. Primo Levi, dopo aver studiato sociologia nel laboratorio “umano” di Auschwitz, direbbe che senza una profonda semplificazione della realtà, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito, che sfiderebbe la nostra capacità di orientarci e di decidere le nostre azioni. Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema. Tendiamo a semplificare ogni cosa, a farcela amica.
Ogni riduzione è scienza, e ogni scienza è drasticamente semplice, quindi più o meno “irreale”. Questo vale anche per il fenomeno religioso. La maggior parte dei fenomeni storici e naturali non sono semplici, o almeno, non sono semplici come piacerebbe a noi. Ogni chiave interpretativa sulla religione merita un determinato spazio nell’analisi. Ma bisogna affiancare l’una all’altra chiave interpretativa. Tutte insieme, non una sola. Dunque, il fenomeno religioso reggerà anche alla seguente semplificazione, anzi, ne varrà arricchito. Fenomeno religioso ridotto, da Eliade, a “Cercare un senso al caos della storia” = Richiesta di senso alla sofferenza. Il fenomeno religioso, nella sua interezza, nelle sue innumerevoli espressioni planetarie, può essere ridotto alla ricerca di senso, ad un semplice quanto angoscioso tentativo di “normalizzare la sofferenza“, “sopportare la storia” (cfr. anche le conclusioni, simili a quelle di Eliade, di De Martino ne “La fine del mondo”).

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L’altra India (Amartya Sen), una recensione. Le origini della filosofia, il laicismo e lo stato laico

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Amartya Sen, nel suo interessante studio intitolato “L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radice della cultura indiana”, intraprende un filone di studi assai poco battutto qui in Europa, o magari, di scarsa visibilità. Nella citazione riportata in questo articolo, parla del sovrano indiano musulmano Akbar – fine del XVI secolo -, e cioè nel felice tempo in cui noi Europei ci scannavamo per questioni importantissime, tipo le religioni (ma la vera posta in gioco era ben altra), e mentre bruciavamo Giordano Bruno a Campo de Fiori. Ciò che riporto del nobel bengalese è anche utile a smitizzare la tutta da dimostrare e arcinota equazione “radici cristiane = stato laico”, quell’equazione che vede solo nelle radici giudaico/cristiane la possibilità dell’instaurarsi di uno Stato inteso in senso moderno (tesi, peraltro, già smentita, tra gli altri, da Federico Chabod, in tempi non sospetti). Nella sua semplicità stilistica ma anche nella sua competenza, l’autore offre, anche per non specialisti, una visione chiara e demitizzata, direi, non esotica, dell’India, della sua cultura e storia, dei suoi innumerevoli problemi.

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Antropologie negative, modernismo e antimodernismo. La filosofia di Giovanni Paolo II

(Nell’immagine al lato, un quadro di William Blake)

Sul tema della filosofia di Giovanni Paolo II abbiamo già pubblicato recentemente un intervento (link). Aggiungo sull’argomento una interessante pubblicazione di Micromega, intitolata Karol Wojtila. Il grande Oscurantista, con interventi di Kung, Franzoni, Gigante, Flores d’Arcais, Coda, Severino, Bianchi, Vattimo, Riccardi, Cacciari, Galimberti, Savater, Kolakowski, Marchesi, Viano, Paglia, Pavanelli. A parte il titolo un po’ sensazionalista, ed il taglio di Flores d’Arcais secondo me un po’ troppo impegnato a mostrare un Giovanni Paolo II scagliato contro l’illuminismo, il libro offre un’ottima panoramica filosofica/teologica sul pontefice. Riguardo il suo anti illuminismo, affrontato più volte da Flores d’Arcais, vanno aggiunte delle precisazioni: non è certo Giovanni Paolo II più di altri pontefici contro l’illuminismo. Tesi forte del mio intervento, di cui verrà data spiegazione, è che la Chiesa è per sua essenza, ideologia e struttura, anti illuminista e antimodernista, per le tre ragioni che vedremo in seguito.

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Il Manzoni eretico. La sua filosofia e la sua teologia

“Ogni tanto tra mezzo al ronzio continuo di quella confusa moltitudine, si sentiva un borbottar di tuoni, profondo, come tronco, irresoluto; [..] que’ tempi, forieri della burrasca, in cui la natura, come immota al di fuori, e agitata da un travaglio interno, par che opprima ogni vivente, e aggiunga non so quale gravezza ad ogni operazione, all’ozio, all’esistenza stessa. Ma in quel luogo destinato per sé al patire ed al morire, si vedeva l’uomo già alle prese col male soccombere alla nuova oppressione; si vedevan centinaia e centinaia peggiorar precipitosamente; e insieme, l’ultima lotta era più affannosa, e nell’aumento de’ dolori, i gemiti più soffocati: né forse su quel luogo di miserie era ancora passata un’ora crudele al par di questa”. (I promessi sposi – 1840, cap XXXV, descrizione del lazzaretto)

Alessandro Manzoni è il letterato romantico italiano che più di tutti avverte la tremenda dicotomia tra fede cristiana e ragione, ma non solo; lo studio attento delle sue opere tradisce più volte la rassicurante lettura cattolica che per molto tempo ha dominato la sua interpretazione critica. Il messaggio più nuovo e moderno di Manzoni, il suo insegnamento problematico, angosciante e tutt’altro che autoritario e dogmatico, sta nel porre il lettore di fronte all’ignoto ed al segreto della vita senza rinunciare alle armi della ragionevolezza, della filosofia, del pensiero e del buon senso, ma tuttavia indicandone la debolezza, la fallacia. La fallacia di ogni tentativo di indicare un senso precostituito della vita, un “sugo della storia”, e soprattutto, un senso razionale al male. Sotto i colpi del Manzoni maturo, non cade solo la rassicurante ragione illuminista delle sue prime opere, o il teleologico idealismo hegeliano, ma anche la rassicurante fede cattolica e la sua teodicea: crolla cioè ogni legittimità di interpretare i legami tra mondo divino e storia umana. Manzoni cioè opera una vera e propria decostruzione, anche ironica, dell’idea cattolica di provvidenza.

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La filosofia di Giovanni Paolo II: un bilancio nel giorno della sua beatificazione

La fede e la ragione sono come due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità. E’ Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché, conoscendolo ed amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stessoGiovanni Paolo II nell’enciclica “Fides et Ratio” (1998). Questa citazione, riportata un po’ ovunque, sembrerebbe esemplificare il nodo centrale della teologia e della filosofia di Giovanni Paolo II, di chiara ispirazione tomista. Leggendo però meglio la Fides et Ratio, ci si accorge del primato della rivelazione sulla filosofia. Oggi, primo maggio 2011, nel giorno della sua beatificazione, un bilancio della suo pensiero è quasi obbligato.

Sempre nella Fides et Ratio, il papa polacco, dopo aver elogiato e ringraziato la filosofia per aver guidato nel corso dei secoli il pensiero umano verso la verità, commenta:

La filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull’essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva sulla capacità che l’uomo ha di conoscere la verità, ha preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti. Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. Di recente, poi, hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino quelle verità che l’uomo era certo di aver raggiunte. La legittima pluralità di posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull’assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto contemporaneo. A questa riserva non sfuggono neppure alcune concezioni di vita che provengono dall’Oriente; in esse, infatti, si nega alla verità il suo carattere esclusivo, partendo dal presupposto che essa si manifesta in modo uguale in dottrine diverse, persino contraddittorie tra di loro. In questo orizzonte, tutto è ridotto a opinione. Si ha l’impressione di un movimento ondivago: la riflessione filosofica mentre, da una parte, è riuscita a immettersi sulla strada che la rende sempre più vicina all’esistenza umana e alle sue forme espressive, dall’altra, tende a sviluppare considerazioni esistenziali, ermeneutiche o linguistiche che prescindono dalla questione radicale circa la verità della vita personale, dell’essere e di Dio. Di conseguenza, sono emersi nell’uomo contemporaneo, e non soltanto presso alcuni filosofi, atteggiamenti di diffusa sfiducia nei confronti delle grandi risorse conoscitive dell’essere umano. Con falsa modestia ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale. E’ venuta meno, insomma, la speranza di poter ricevere dalla filosofia risposte definitive a tali domande.

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Filosofia del rischio, società del rischio, filosofia del disastro (di ULRICH BECK)

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La faccia oscura del progresso, (da La Repubblica online)

Società mondiale del rischio significa un’epoca nella quale i lati oscuri del progresso determinano sempre più i contrasti sociali. Mentre prima ciò che non stava sotto gli occhi di tutti veniva negato, ora l’autominaccia diventa il movente della politica. I pericoli nucleari, il mutamento climatico, la crisi finanziaria, l’11 settembre, seguono in pieno il copione della Società del rischio, che ho scritto 25 anni fa, prima della catastrofe di Chernobyl. A differenza dai precedenti rischi industriali, essi (1) non sono socialmente delimitabili né nello spazio né nel tempo, (2) non sono imputabili in base alle vigenti regole della causalità, della colpa, della responsabilità e (3) non possono essere compensati, né coperti da assicurazione. Dove le assicurazioni private negano la loro protezione — come nel caso dell’energia nucleare e della tecnologia genetica — viene sempre superato il confine tra i rischi calcolabili e i pericoli incalcolabili. Questi potenziali di pericolo vengono prodotti industrialmente, esternalizzati economicamente, individualizzati giuridicamente, legittimati tecnicamente e minimizzati politicamente. In altri termini, il sistema di regole del controllo “razionale” si rapporta ai potenziali di autodistruzione incombenti come un freno da bicicletta applicato a un aereo intercontinentale. Ma Fukushima non si distingue forse da Chernobyl per il fatto che i terribili eventi giapponesi partono da una catastrofe naturale? La distruzione non è stata provocata da una decisione umana, ma dal terremoto e dallo tsunami.

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La filosofia è morta? Recensione di Eco all’ultimo libro di Stephen Hawking

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La filosofia non è Star Trek (da L’Espresso online)

Sulla “Repubblica” del 6 aprile scorso era apparsa un’anticipazione del libro di Stephen Hawking e Leonard Mlodinow, “il grande disegno” (Mondadori, euro 20) introdotto da un sottotitolo che peraltro riprendeva un passaggio del testo, “la filosofia è morta, solo i fisici spiegano il cosmo”. La morte della filosofia è stata annunciata varie volte, e quindi non c’era da impressionarsi, ma mi pareva che un genio come Hawking avesse detto una sciocchezza. Per essere sicuro che “Repubblica” non aveva riassunto male sono andato a comprare il libro, e la sua lettura mi ha confermato nei miei sospetti.

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Filone di Alessandria, il primo ponte fra ebraismo ed occidente. La filosofia e Vittorio Arrigoni

L’immagine di un ellenismo omogeneo fornita da Droysen (il creatore del termine “ellenismo”), come insegna bene la recente storiografia, è tutta da smitizzare. Già Hans Jonas faceva notare, nel suo famoso studio sullo gnosticismo, quanto questa antica “globalizzazione” provocata dalle conquiste di Alessandro il Grande fosse ostacolata dai particolarismi locali, e al suo interno generasse la così detta “reazione orientale”, che si opponeva alla diffusione della filosofia, dello stile di vita, della lingua greca, di quel modello che in oriente si percepiva come “occidentale”. Fondamentale in questa linea di approfondimento delle reali dinamiche del periodo ellenistico è il testo di Arnaldo Momigliano (Alien Wisdom. The limits of Hellenization) che esemplifica in maniera compiuta l’incontro fra ellenismo e culture che orbitavano intorno il mediterraneo: rispettivamente Celti, Giudei, Romani, Iranici. All’interno di questa analisi è importante sottolineare, alla luce del mio discorso, la particolarissima ed unica, per certi versi, “reazione” ebraica all’incontro con l’ellenismo, con questa “perturbazione” filosofica-culturale (e non scordiamoci, militare) proveniente dal semisconosciuto occidente.

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Reality show e filosofia

L’esperimento di Stanley Milgram : condotto nel 1961, aveva l’obiettivo di studiare il comportamento di soggetti a cui un’autorità (nel caso specifico uno scienziato) ordina di eseguire delle azioni che confliggono con i valori etici e morali dei soggetti stessi. L’esperimento cominciò tre mesi dopo l’inizio del processo a Gerusalemme contro il criminale di guerra nazista Adolf Eichmann. Più di quaranta anni dopo, le cose cambiano. A svolgere il ruolo dell’autorità è il reality show, una conduttrice, le telecamere, il pubblico. Ad infliggere le scosse elettriche sulla vittima sono i partecipanti del reality. Sto parlando dell’esperimento sociologico condotto in Francia e spacciato per reality show, chiamato “La zona estrema”. In sintesi: 80 persone sono state selezionate per partecipare al nuovo reality. Ogni concorrente in studio e’ in squadra con un altro giocatore, che si trova invece isolato in una sala. A quest’ultimo viene chiesto di memorizzare alcune associazioni di parole, sulle quali gli vengono poi poste delle domande. Se sbaglia, il concorrente in studio lo deve punire, procurandogli scariche elettriche fino ad oltre 400 volt. In realta’ e’ tutta una messa in scena. Le scariche elettriche sono finte. Il giocatore che strilla dal dolore e’ un attore e cosi’ anche il pubblico e la presentatrice (Tania Young), che per tutto il tempo incitano i concorrenti alla tortura. Gli 80 partecipanti ignari si ritrovano cosi’ protagonisti involontari di un esperimento shock: solo pochissimi loro rifiutano di infliggere la pena, gli altri obbediscono senza ribellarsi.

Piccole considereazioni: nel reality, praticamente vi erano 80 conconcorrenti chiamati a torturare ripetutamente un concorrente, e che rinunciavano (o mettevano in sordina) il loro apparato decisionale per delegarlo all’autorità, i media. Rispetto all’esperimento di Millgram, l’autorità che impartiva “ordini” non era un medico con il camice bianco, ma il pubblico, la presentatrice, le telecamere, il “copione televisivo”. Considerando che si passa mediamente davanti alla TV il 50 % della vita, mi chiedo quanto i valori e le decisioni dei “sudditi” dei media siano autonomi. Dice il filosofo: nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo.

Gesù di Nazaret. Recensione di Flores d’Arcais all’ultimo libro di Ratzinger

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(dal Fatto Quotidiano, 25/03/2011, p. 18)

Gesù non era cristiano

Gesù non era cristiano. Era un ebreo osservante, che mai avrebbe immaginato di dar vita a una nuova religione e meno che mai di fondare una “Chiesa”. Non si è mai sognato di proclamarsi il Messia, e se qualcuno degli apostoli ha ipotizzato che fosse “Cristo”, lo ha fulminato di anatema. All’idea di essere considerato addirittura “Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre”, secondo il “Credo” di Nicea, sarebbe stato preso da indicibile orrore.

Gesù era un profeta ebreo itinerante, esorcista e guaritore, che annunciava l’ “euangelion” apocalittico del “Regno” incombente per intervento divino. Ha predicato quasi esclusivamente in Galilea, per pochi mesi se stiamo ai tre sinottici, al culmine dei quali, recatosi a Gerusalemme, avendo provocato qualche disordine, viene condannato alla crocifissione per sedizione. Storicamente, una figura di minore importanza rispetto a Giovanni che battezzava sulle rive del Giordano, e ad altri predicatori apocalittici del suo tempo. Come ha scritto il maggior biblista cattolico italiano del dopoguerra “la vicenda di Gesù, al di fuori di quanti a lui si richiamano, è stata, in realtà, di poca o nessuna rilevanza politica e religiosa: una delle non poche presenze scomode in una regione periferica dell’impero romano, messe prontamente a tacere in modo violento dall’autorità romana del posto con la collaborazione, più o meno decisiva, di capi giudaici” [Giuseppe Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, Bologna 2002, p.39].

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Il “capo”: alcune note su Garibaldi (L. Canfora)

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Ho dovuto combattere contro il più grande condottiero; mi è riuscito di mettere d’accordo imperatori, re, uno zar, un sultano ed un papa. Ma nessuno sulla faccia della terra mi ha procurato maggiori difficoltà di un manigoldo di italiano, emaciato, pallido, straccione, ma facondo come l’uragano, rovente come un apostolo, furbo come un ladro, sfacciato come un commediante, infaticabile come un innamorato: il suo nome è Giuseppe Mazzini (Metternich)

«Garibaldi era assolutamente privo di saggezza politica: non era né un maestro della letteratura italiana, come Mazzini, né un profondo statista come Cavour; ma come audace capitano di truppe irregolari, capace di ispirare nei suoi rozzi seguaci gli elementi di una fede politica semplice e appassionata, aveva in sé una omerica grandezza» ha scritto lo storico liberale inglese H. A. L. Fisher nel terzo volume della sua History of Europe (1935). Meno riduttivo un altro storico di ispirazione liberale, Benedetto Croce, il quale esalta più volte nei suoi scritti, di Garibaldi e di Mazzini, per lo meno il ruolo di modelli d’azione per le nazioni oppresse: «e ancora ai nostri giorni quei nomi – scrive nel 1928, nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915- risuonano nella lontana India e quegli uomini hanno colà discepoli» . Durante la campagna che portò alla cacciata dei Borboni dal «Regno delle due Sicilie», Garibaldi assunse la dittatura (1860). Certamente egli pensava alla dittatura romana: magistratura che comportava i pieni poteri nelle mani di un’unica persona, ma per un limitato numero di mesi, eventualmente rinnovabile. Aveva alle spalle una lunga esperienza politicomilitare, dal Sud America alla Repubblica romana del 1849, in cui ugualmente aveva rivestito ruoli direttivi: anche se Mazzini, assurto per parte sua alla testa di un «triumvirato», gli aveva piazzato sul capo, come superiore, il generale Roselli, al quale Garibaldi disobbedì tutte le volte che gli parve di farlo. Ad un certo punto Garibaldi aveva proposto a Mazzini di dar vita piuttosto ad una guerriglia tra le montagne che non ad una ostinata, e militarmente perdente, difesa di Roma. Se però ci si ostinava ad optare per questa seconda strategia, chiedeva per sé la dittatura. Insomma la dittatura ritorna nei suoi pensieri come appetibile e necessaria forma del potere. Mazzini cercò di tamponare questa impennata e vi riuscì, ma poco dopo la Repubblica andava a rotoli.

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Filosofia giapponese della catastrofe (2). Film, anime e ambiente

Sembra che le visioni terribili e post apocalittiche di Miyazaki (Conan, Nausicaa) e di Kurosawa (il film Sogni, nell’episodio “Fujiama in rosso” – clicca qui per vedere l’inizio) abbiano trovato una concretizzazione parziale. Scenari da guerra atomica e di devastazione, come se davvero si fosse concretizzato il mostro pop più famoso del Giappone, Gozilla, la somma di tutti i disastri dell’immaginario e dell’esperienza giapponese. A Sendai, dopo tsunami, terremoto e radiazioni della vicina centrale, sembra concretizzarsi anche il tema di ragazzi e bambini senza genitori che camminano fra le macerie: nei fumettisti e negli animatori giapponesi è un topos psicologico più che una moda, un archetipo originatosi dalla tragedia di Hiroshima e dai postumi della seconda guerra mondiale. Basti pensare a cartoni animati con cui siamo cresciuti, come l’Uomo Tigre (il protagonista è un orfano che si prende cura di orfani e scappa da una società militarizzata, Tana delle Tigri), Coccinella (l’eroina, orfana, vive cresciuta dai fratelli maggiori), e tanti altri esempi. Il tema viene portato alla sua massima compiutezza con Miyazaki: i suoi protagonisti sono sempre bambini senza genitori, giovani e forti, sani, che parlano con gli animali, rispettano la natura, sono puri, buoni (Lana in Conan, la stessa Nausica), vivono in nome dell’amicizia e dell’amore, valori sconosciuti agli adulti. Gli adulti (quelli della guerra, i tecnocrati, quelli che hanno distrutto il pianeta) sono sempre malvagi, utilitaristi o incapaci di capire (l’adulto, nei capolavori di Miyazaki, è sempre negativo). Conan è orfano, cresce col nonno che gli muore subito, deve riedificare una civiltà un po’ luddista ma a contatto con la terra, lontana da Indastria e dallo sfrutamento dell’uomo sull’uomo, lontano da quella minacciosa ed avanguardistica “energia solare” (parafrasi di quella atomica), nell’isola idilliaca di Hyarbor (un’isola davvero molto simile all’idillio dell’ultimo episodio di Sogni di Kurosawa) dove si è tornati alla terra e si pratica una particolare forma di socialismo. L’ ultimo residuo di quella umanità malvagia ed egoista che ha devastato il pianeta è il dottor Rao: il suo tremendo segreto sta nel fatto che è lui lo scopritore di quella diabolica energia, quell’energia che lui e altri scienziati volevano adoperare a fin di bene ma che ha sconvolto la storia e lo stesso il pianeta. Sarà proprio lui a riscattarsi ed a sacrificarsi, consegnando il futuro a Conan e Lana, novelli Adamo ed Eva. Indastria, l’ultimo residuo della tecnologia e del potere dispostico della civiltà antica anteguerra, sprofonda in mare in seguito ad un grande Terremoto. Manco a farlo a posta, un maremoto (oggi diremmo uno tsunami) colpisce la stessa Hyarbor, ma del resto il tema del cataclisma purificatore lo si respira nel titolo stesso dell’opera da cui è tratta la serie animata, e cioè La Grande onda (A Big Tidal Wave).

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